di Francesco Festa -
«…che il Sud possa ribellarsi e innalzare
una bandiera dietro la quale si muovano
altre forze
è un’opzione che va dimostrata» (Toni
Negri1)
Centro/periferia,
Sud/Nord sono coordinate certo da tener presenti, ma non sufficienti a definire
una soggettività e una cultura subalterne. Traduciamo la “questione meridionale” in questione europea…
la dualità sviluppo/sottosviluppo non è stata superata, bensì integrata nel
sistema europeo. Non più il Sud d’Europa come rapporto esterno, ma come
rapporto interno allo sviluppo
1. A cosa ci riferiamo quando parliamo di subalternità? E quale campo
semantico o geografico interroghiamo nel nominare la nozione “Sud”?
In entrambi i casi segnaliamo l’urgenza di una cultura “altra”, se non di una «rottura epistemologica», di fratturare il rapporto egemonico con la razionalità occidentale e la cultura borghese.
Alcune premesse indispensabili per definire i campi che ci accingiamo a scavare. Anzitutto: chiamare in causa la cultura vuol dire segnalare dei «processi eternamente in atto», dei processi conoscitivi e pedagogici che sono anche e soprattutto pratica politica in un rapporto di lotte e di resistenze fra la parte subalterna e la parte egemonica della società. E poi: la cultura come sostantivo rinvia immediatamente alla sua forma aggettivale, culturale, allo spazio discorsivo da cui prende origine e dall’attenzione posta sulle concezioni e sull’azione di coloro che sono emarginati o dominati; mentre il sostantivo cultura privilegia il dato acquisito, l’idea di condivisione, accordo e compiutezza, che contrasta con quelli che sono i rapporti sociali e la microfisica dei poteri fra le classi. E infine: l’identità culturale, come insieme di «rappresentazioni e simboli» nella loro «vita quotidiana», non è qualcosa di già costituito, di già esistente, ma è «il risultato di storie – scrive Stuart Hall – soggette a una costante trasformazione. Lungi dall’essere eternamente fissata in un qualche passato essenzializzato, è sottoposta al “gioco” continuo della storia, della cultura e del potere»2.
In entrambi i casi segnaliamo l’urgenza di una cultura “altra”, se non di una «rottura epistemologica», di fratturare il rapporto egemonico con la razionalità occidentale e la cultura borghese.
Alcune premesse indispensabili per definire i campi che ci accingiamo a scavare. Anzitutto: chiamare in causa la cultura vuol dire segnalare dei «processi eternamente in atto», dei processi conoscitivi e pedagogici che sono anche e soprattutto pratica politica in un rapporto di lotte e di resistenze fra la parte subalterna e la parte egemonica della società. E poi: la cultura come sostantivo rinvia immediatamente alla sua forma aggettivale, culturale, allo spazio discorsivo da cui prende origine e dall’attenzione posta sulle concezioni e sull’azione di coloro che sono emarginati o dominati; mentre il sostantivo cultura privilegia il dato acquisito, l’idea di condivisione, accordo e compiutezza, che contrasta con quelli che sono i rapporti sociali e la microfisica dei poteri fra le classi. E infine: l’identità culturale, come insieme di «rappresentazioni e simboli» nella loro «vita quotidiana», non è qualcosa di già costituito, di già esistente, ma è «il risultato di storie – scrive Stuart Hall – soggette a una costante trasformazione. Lungi dall’essere eternamente fissata in un qualche passato essenzializzato, è sottoposta al “gioco” continuo della storia, della cultura e del potere»2.
Subalternità, cultura e identità sono spazi discorsivi in cui si esercita
un certo tipo di potere e al cui sfondo si situa una nozione che solleva una
molteplicità di “questioni”, ancorché sia una nozione dal carattere tanto
geografico quanto giuridico-politico: i “Sud”. Sgombriamo il campo da
fraintendimenti. Nel momento in cui si parla di “Sud”, che sia il Mezzogiorno
d’Italia o il Sud d’Europa oppure genericamente i sud del Mondo, non si può
trascurarne né la temporalità, né la spazialità. La posizione geografica non fa
l’unità delle regioni meridionali; né tantomeno la condizione di
assoggettamento determina un’identità culturale; e d’altro canto, le lotte
asimmetriche nei paesi del Sud o nelle periferie non sono di fatto elementi che
assommati aritmeticamente possano diventare denominatore comune di
un’insubordinazione con orizzonte meridiano. Immaginare connessioni, tracciare
linee, ideare piattaforme politiche fra ipotetici territori in lotta è un
esercizio tanto affascinante quanto confusionario. In una sorta di geografia immaginaria,
si perde di vista la temporalità, la casualità storica, la possibilità che le
azioni umane siano determinate da cause accertabili, senza le quali, scriveva
lo storico Edward Carr, la vita d’ogni giorno sarebbe impossibile. In questo
limbo, inoltre, si perdono di vista quelli che Foucault chiama gli
«amministratori della politica del sapere, dei rapporti di potere che passano
attraverso il sapere e che naturalmente rinviano alle forme di dominio cui
fanno riferimento le nozioni spaziali come campo, posizione, regione,
territorio»3.
Per quanto riguarda il Sud d’Italia, diciamo subito che le cose non stanno e
non possono stare così. Non pochi scrittori e attivisti si sono cimentati in
una “revisione” della storia del Mezzogiorno che, seppur generosa e ricca di
apodittiche affermazioni e toni indignati quanto povera di ricerche atte a
comprovare la funzione anti-risorgimentale, interroga immediatamente
l’“identità italiana” dell’oggi, portandola dritto dritto al 1861, quasi che
l’intera storia derivi da lì, così da riabilitare come “glorioso” il periodo
borbonico interrotto dall’“invasione” e dall’occupazione piemontesi. «Non si
perdona a una nazione – scriveva Marx nelDiciotto brumaio –
come non si perdona a una donna, il momento di debolezza in cui il primo
avventuriero ha potuto farle violenza. Il problema non viene risolto con questi
giri di parole, ma viene soltanto diversamente formulato»4.
In questo modo si perdono di vista la storia della lotta di classe in Europa
nell’Ottocento; le analisi di Gramsci sul Risorgimento quale «rivoluzione
sociale mancata» in profonda trasformazione della realtà italiana. E si perde
di vista anche Vincenzo Cuoco e il suo Saggio storico sulla
rivoluzione di Napoli, scritto nel 1800, che definì «passiva» la
rivoluzione di Napoli del 1799, portata lì dalle truppe napoleoniche, e
«passiva» la partecipazione delle classi subalterne e la marginalità delle loro
istanze. Una passività che si è poi protratta sotto la Restaurazione borbonica,
fin nelle dinamiche dell’Unità, ove le classi dirigenti meridionali vi
parteciparono per garantirsi interessi e vitalizi sotto i nuovi regnanti;
mentre le classi subalterne in parte vi aderirono e in parte permasero in quel
«mondo chiuso», scoperto molti anni dopo da Carlo Levi. In realtà, il problema
era – e resta – sociale, e allorché alcuni gruppi di subalterni ebbero la forza
di organizzarsi, non per restaurare il Borbone, ma per distruggere il latifondo,
furono duramente repressi nella “guerra al brigantaggio”.
Dunque, trascurare la «politica del sapere», l’amministrazione e il potere
esercitati su un certo territorio lascia in un’astrattezza giuridico-politica.
Non cogliendo le difformità del comando nell’«economia-mondo», le differenze
fra imperialismi nello spazio imperiale, si genera solamente confusione con
associazioni d’idee seppur affascinanti. Alcuni esempi, per intenderci. È
veramente difficoltoso cogliere il nesso, e di conseguenza i fattori
attraverso cui creare un’alleanza fra classi subalterne, che tiene
insieme l’azione dell’Unione Europea nei confronti delle regioni del Sud
d’Europa con le politiche militari del governo di Erdoğan e delle milizie del
califfato islamico contro le comunità della Rojava, insieme all’azione dei
governi messicani contro le comunità indigene chapaneche. In questa seducente
ricostruzione, i territori in lotta produrrebbero soggettività subalterne con
una coscienza tale da riconoscersi e coalizzarsi? Il medesimo dubbio sul metodo
associativo vale per le “primavera arabe” del 2010 e 2011, sull’“effetto
sponda” che sembrava profondere da esse infiammando il Mediterraneo – e noi
tutti ne auspicavamo l’incendio – e che poi è rientrato negli argini austeri della
crisi, anche se in quell’occasione gli effetti della stessa crisi, una certa
composizione del lavoro vivo e i dispositivi di comando hanno agito da fattori
accomunanti e diffusivi, oltre che da pratiche di soggettivazione, nei paesi
del Maghreb e Mashreq. Lo stesso dubbio nutriamo rispetto alla retorica dei
Pigs e alla capacità che intorno a essa si riesca a fare fronte comune contro
la violenza delle politiche della Troika e della Bundesbank. In questi anni non
è bastato denunciarne l’apologia ordoliberista, non è bastato sostenere come
dietro di questa vi fosse un ordine retto su scorciatoie orientalistiche:
debito pubblico alle stelle, mancato rispetto dei parametri fiscali, scarsa
produttività, blocco della crescita, sperpero e cattiva gestione, quali effetti
dell’indolenza mediterranea, del vivere al di sopra delle proprie possibilità,
della corruzione, dell’anomia e dell’assenza di quell’etica del rigore e degli
affari, della morigeratezza e del lavoro che già Max Weber poneva alla base del
capitalismo.
Nondimeno lascia molti dubbi l’idea di una sommatoria dei conflitti o della scintilla che incendi la prateria, a partire dai paesi meridionali. È un metodo che in realtà risente degli echi del Novecento, se non addirittura dell’età delle «rivoluzioni borghesi». In compenso, l’Internazionalismo proletario ci consegna l’immaginazione e la cooperazione delle lotte quali vettori per la nascita di organizzazioni in difesa degli interessi proletari e come deterrenti contro la guerre tra “nazioni borghesi”. Che non traeva forza dalla posizione geografica, bensì dagli interessi e dalla «potenzialità» della forza lavoro. Come ha fatto giustamente notato Brett Neilson, laddove in Lenin in Inghilterra si dice che «la forza-lavoro operaia nasce già storicamente omogenea sul piano internazionale e costringe il capitale – entro un lungo periodo storico – a rendersi altrettanto omogeneo», vuol dire che «la forza lavoro diventa il sito in cui le operazioni del capitale e la politica delle differenze culturali e geografiche si toccano e deflagrano»5.
Il rischio della spazialità come metodo, quindi, è sia di confondere i processi di accumulazione, sia di cadere in un determinismo geografico o in un orientalismo di ritorno, dal quale grazie a Edward Said siamo stati ampiamente affrancati. E oltretutto, non favorisce la costruzione di un nuovo internazionalismo proletario.
Nondimeno lascia molti dubbi l’idea di una sommatoria dei conflitti o della scintilla che incendi la prateria, a partire dai paesi meridionali. È un metodo che in realtà risente degli echi del Novecento, se non addirittura dell’età delle «rivoluzioni borghesi». In compenso, l’Internazionalismo proletario ci consegna l’immaginazione e la cooperazione delle lotte quali vettori per la nascita di organizzazioni in difesa degli interessi proletari e come deterrenti contro la guerre tra “nazioni borghesi”. Che non traeva forza dalla posizione geografica, bensì dagli interessi e dalla «potenzialità» della forza lavoro. Come ha fatto giustamente notato Brett Neilson, laddove in Lenin in Inghilterra si dice che «la forza-lavoro operaia nasce già storicamente omogenea sul piano internazionale e costringe il capitale – entro un lungo periodo storico – a rendersi altrettanto omogeneo», vuol dire che «la forza lavoro diventa il sito in cui le operazioni del capitale e la politica delle differenze culturali e geografiche si toccano e deflagrano»5.
Il rischio della spazialità come metodo, quindi, è sia di confondere i processi di accumulazione, sia di cadere in un determinismo geografico o in un orientalismo di ritorno, dal quale grazie a Edward Said siamo stati ampiamente affrancati. E oltretutto, non favorisce la costruzione di un nuovo internazionalismo proletario.
Forse andrebbe preso ad esempio quanto fatto dagli studiosi e attivisti
indiani che a inizio anni Ottanta del secolo scorso diedero vita ai Subaltern Studies. A ben guardare lessero le osservazioni
di Gramsci sui subalterni in maniera situata relativamente alla storia
d’Italia, in particolare alla storia del processo unitario. Ciò nondimeno
scrissero di voler fare per l’India quello che Gramsci aveva fatto studiando i
rapporti tra «dirigenti» e «diretti» nel Risorgimento, cioè tentarono di
tradurre il Quaderno 25 in India. Non
forzarono il dato geografico, invece analizzarono la composizione di classe.
Per cui Nehru divenne una sorta di Cavour, mentre il ruolo di Mazzini venne
ricoperto da Gandhi. Il gruppo di storici indiani guidato da Ranajit Guha
trasse spunto da Gramsci soprattutto per affermare la necessità di una
storiografia non limitata all’azione delle élites o delle
classi dirigenti, che tenesse conto anche e in alcuni casi soprattutto della
storia dei gruppi sociali subalterni. In particolare, i Subaltern Studies ci consegnano una problematica
che è quella del rapporto fra il «materialismo geografico» di Gramsci e il tema
della traduzione e della traducibilità, che permette di uscire dal vicolo cieco
dell’unificazione dei “Sud” a partire dall’essere geograficamente situati,
mentre dischiudono la strada verso quelle che sono i punti di accumulazione più
interessanti del capitalismo. Come ha puntualizzato Sandro Mezzadra in un seminario
della rete Orizzonti meridiani: «se Marx, negli anni Cinquanta e Sessanta
dell’Ottocento, si situava non solo fisicamente ma anche “epistemologicamente”
a Londra per comprendere e criticare il capitalismo, oggi forse si capisce
meglio il capitalismo contemporaneo guardandolo dall’India, dall’America Latina
o dalla Nigeria […] non perché corrispondano ai punti più “avanzati” dello
sviluppo, ma perché sono saltati esattamente i parametri che consentivano a
valutare il capitalismo sulla base del maggiore o minore “grado di sviluppo”»6.
Centro/periferia, Sud/Nord sono coordinate certo da tener presenti, ma non
sufficienti a definire una soggettività e una cultura subalterne.
Proprio Mezzadra nel suo lavoro con Brett Neilson, nel riprendere Gramsci e Lenin, aggiorna il tema della traduzione, non delle lingue, ma delle esperienze e delle lotte, quale metodo indispensabile per «ricostruire la basi materiali di una nuova politica comunista». Che significa tradurre non le lingue ma le esperienze? Significa con Gramsci che parafrasa Lenin il «non aver saputo “tradurre” nelle lingue europee» la lingua russa. Un’allusione linguistica che rinvia a un’analisi profondamente materialistica. Ancor più chiaramente: «fra le pratiche di traduzione che inseriscono i soggetti all’interno di distinte civiltà e quelle proprie del capitale esiste un parallelismo materiale. In gioco è il modo in cui la traduzione istituisce e trasforma i rapporti sociali. A questo proposito, è importante ricordare che lo stesso capitale è un rapporto sociale. I termini attraverso cui è istituito e i modi in cui può essere spiazzato o alterato sono profondamente implicati nella politica della traduzione»7.
La politica della traduzione è dunque un metodo fondamentale che consente di condividere pratiche e di intrecciare percorsi, quali basi per un nuovo internazionalismo, poiché segnala i soggetti inseriti in determinati punti di accumulazione. E chiama in causa, anzitutto nei territori subalterni e negli angoli “arretrati”, la grande varietà di mezzi di appropriazione dei commons messi in campo dal capitale, i molteplici strumenti adoperati per confinare il comune attraverso – e in particolar modo – l’uso dello «sviluppo come governo del Sud»8. Ci confrontiamo qui con questioni tecniche come l’appropriazione di idrocarburi, le forme di enclosures dei decreti emergenziali (“Sblocca Italia”); ma anche con questioni biopolitiche come l’inclusione differenziale dei migranti nella Fortezza Europa; oppure come le politiche dei fondi strutturali comunitari; e quindi le politiche del lavoro nell’UE (“Jobs Act”). Cogliere tramite la politica della traduzione i soggetti dell’antagonismo per «impostare un ragionamento sui “Sud”, sul cambiamento profondo che investe questa nozione»9, e soprattutto sul riproporsi della “questione meridionale” non più soltanto in Italia, bensì nello spazio europeo.
Proprio Mezzadra nel suo lavoro con Brett Neilson, nel riprendere Gramsci e Lenin, aggiorna il tema della traduzione, non delle lingue, ma delle esperienze e delle lotte, quale metodo indispensabile per «ricostruire la basi materiali di una nuova politica comunista». Che significa tradurre non le lingue ma le esperienze? Significa con Gramsci che parafrasa Lenin il «non aver saputo “tradurre” nelle lingue europee» la lingua russa. Un’allusione linguistica che rinvia a un’analisi profondamente materialistica. Ancor più chiaramente: «fra le pratiche di traduzione che inseriscono i soggetti all’interno di distinte civiltà e quelle proprie del capitale esiste un parallelismo materiale. In gioco è il modo in cui la traduzione istituisce e trasforma i rapporti sociali. A questo proposito, è importante ricordare che lo stesso capitale è un rapporto sociale. I termini attraverso cui è istituito e i modi in cui può essere spiazzato o alterato sono profondamente implicati nella politica della traduzione»7.
La politica della traduzione è dunque un metodo fondamentale che consente di condividere pratiche e di intrecciare percorsi, quali basi per un nuovo internazionalismo, poiché segnala i soggetti inseriti in determinati punti di accumulazione. E chiama in causa, anzitutto nei territori subalterni e negli angoli “arretrati”, la grande varietà di mezzi di appropriazione dei commons messi in campo dal capitale, i molteplici strumenti adoperati per confinare il comune attraverso – e in particolar modo – l’uso dello «sviluppo come governo del Sud»8. Ci confrontiamo qui con questioni tecniche come l’appropriazione di idrocarburi, le forme di enclosures dei decreti emergenziali (“Sblocca Italia”); ma anche con questioni biopolitiche come l’inclusione differenziale dei migranti nella Fortezza Europa; oppure come le politiche dei fondi strutturali comunitari; e quindi le politiche del lavoro nell’UE (“Jobs Act”). Cogliere tramite la politica della traduzione i soggetti dell’antagonismo per «impostare un ragionamento sui “Sud”, sul cambiamento profondo che investe questa nozione»9, e soprattutto sul riproporsi della “questione meridionale” non più soltanto in Italia, bensì nello spazio europeo.
2. Traduciamo la “questione meridionale” in questione europea. Osservando i
dati dei Fondi europei per la coesione degli ultimi
quindici anni notiamo come il divario fra le regioni del Nord e quelle del Sud
d’Europa, anziché diminuire, sia cresciuto, contribuendo ad accelerare e
radicalizzare un processo di vera e propria scomposizione dello spazio europeo10.
Nei Fondi, rinnovati per il settennato apertosi nel 2014, non appaiono
chiaramente gli obiettivi. Viene sottolineato a più riprese il «riscatto della
qualità dell’azione pubblica nel Mezzogiorno» tramite l’utilizzo delle
«Politiche di coesione», con riferimento a generiche «best practice», a «comportamenti» e «condotte». Sullo
sfondo, lo scopo sarebbe la formazione di una classe dirigente e di un
complesso di attività direzionali di gestione e organizzazione delle aziende
pubbliche (management) che rispondano alla nuova ragione
universale, quella presupposta dalla razionalità neoliberale come entità
astratta permanente, ossia la «generalizzazione della concorrenza come norma di
comportamento e dell’impresa come modello di soggettivizzazione»11.
Nel dicembre 2012, nel documento Metodi e obiettivi per un uso efficace dei fondi strutturali, l’allora Ministro per la coesione territoriale Fabrizio Barca scriveva: «l’azione per la coesione deve destabilizzare queste trappole del non-sviluppo, evitando di fare affluire i fondi nelle mani di chi è responsabile dell’arretratezza e della conservazione. Aprendo invece agli innovatori nei beni pubblici e nel modo in cui si producono»12. Al netto di comportamenti e “buone pratiche”, nessun obiettivo è indicato, né tantomeno individuato qualche indice da raggiungere. Mentre vengono additate le «morse» del sottosviluppo quali l’«incapacità degli amministratori a non favorire lo sviluppo». Eppure dopo quindici anni di politiche comunitarie qualcosa si sarebbe dovuto pur ridurre nel divario Nord/Sud!
Nel dicembre 2012, nel documento Metodi e obiettivi per un uso efficace dei fondi strutturali, l’allora Ministro per la coesione territoriale Fabrizio Barca scriveva: «l’azione per la coesione deve destabilizzare queste trappole del non-sviluppo, evitando di fare affluire i fondi nelle mani di chi è responsabile dell’arretratezza e della conservazione. Aprendo invece agli innovatori nei beni pubblici e nel modo in cui si producono»12. Al netto di comportamenti e “buone pratiche”, nessun obiettivo è indicato, né tantomeno individuato qualche indice da raggiungere. Mentre vengono additate le «morse» del sottosviluppo quali l’«incapacità degli amministratori a non favorire lo sviluppo». Eppure dopo quindici anni di politiche comunitarie qualcosa si sarebbe dovuto pur ridurre nel divario Nord/Sud!
A ben guardare, leggendo in maniera contrappuntistica i termini crescita,
sviluppo, ripresa, probabilmente ne noteremmo la funzione di variabili
dell’accumulazione piuttosto che di misure d’incremento dello sviluppo o del
“prodotto pro capite”. Detto altrimenti: lo sottosviluppo e l’arretratezza sono
funzioni dello sviluppo capitalistico. Il dibattito sull’“età d’oro” del
capitalismo ci restituisce una fondamentale lezione, quella di Luciano Ferrari
Bravo e Alessandro Serafini in Stato e sottosviluppo. Il caso
del Mezzogiorno italiano, che tradotta all’attuale composizione dei
mercati europei si presenta di estrema attualità: «il sottosviluppo come
funzione materiale e politica, funzione nel processo di accumulazione e di
sfruttamento della cooperazione sociale, sviluppo come potere capitalistico
sulla società nel suo insieme, del suo governo della società […] come
ridefinizione del rapporto di forza politica fra le classi» e come «disgregazione
delle stesse possibilità materiali di attacco politico proletario al rapporto
di classe»13.
Una lezione che fa eco a Gramsci del Quaderno 19 su Il Risorgimento e del Quaderno 25, e prim’ancora del testo del 1926Alcuni temi della quistione meridionale. Nel “cantiere”
gramsciano leggiamo che la «disgregazione delle classi subalterne» è causata
dall’«egemonia» e dall’«iniziativa dei gruppi dominanti», dal loro «potere
governativo» e «prima» dal loro «essere dirigenti»; «i gruppi subalterni
subiscono» «l’iniziativa dei gruppi dominanti, anche quando si ribellano e
insorgono»; ciò nondimeno possono «diventare classe dirigente e dominante»
nella misura in cui riescano a creare un «sistema di alleanze di classe» che
gli consentano di «mobilitare contro il capitalismo e lo Stato borghese la
maggioranza della popolazione lavoratrice»14.
L’analisi del rapporto fra angoli “arretrati” e angoli “avanzati” all’interno dello spazio europeo permette di riprendere, con i necessari distinguo relativamente all’uso, alcuni studi di Rosa Luxemburg sulla «società non capitalistica». Efficaci sono le sue analisi riguardo a ciò che chiama all’«infuori», all’esterno, quale necessario sbocco della «riproduzione allargata» e della «trasformazione del sovraprodotto in capitale». Scrive Luxemburg: «la realizzazione del plusvalore richiede come prima condizione un cerchio di acquirenti e non di consumatori all’infuori della società capitalistica […] gli strati sociali non-capitalistici gli occorrono come mercati di sbocco del plusvalore, come fonti di approvvigionamento dei mezzi di produzione, come riserve di forze-lavoro per il sistema salariale»15.
L’analisi del rapporto fra angoli “arretrati” e angoli “avanzati” all’interno dello spazio europeo permette di riprendere, con i necessari distinguo relativamente all’uso, alcuni studi di Rosa Luxemburg sulla «società non capitalistica». Efficaci sono le sue analisi riguardo a ciò che chiama all’«infuori», all’esterno, quale necessario sbocco della «riproduzione allargata» e della «trasformazione del sovraprodotto in capitale». Scrive Luxemburg: «la realizzazione del plusvalore richiede come prima condizione un cerchio di acquirenti e non di consumatori all’infuori della società capitalistica […] gli strati sociali non-capitalistici gli occorrono come mercati di sbocco del plusvalore, come fonti di approvvigionamento dei mezzi di produzione, come riserve di forze-lavoro per il sistema salariale»15.
Nell’analisi del «pacchetto legislativo sulla politica di coesione
2014-2020» emerge direttamente dalle voci di finanziamento quale sia la
funzione dei discorsi di sviluppo e di crescita all’interno dei meccanismi di governance16,
ossia una funzione materiale e politica dei processi di accumulazione. In
particolare, oltre alle “solite” voci sull’efficienza e la semplificazione
della Pubblica Amministrazione, 23,4 mld verranno destinati nei prossimi 7 anni
principalmente a due settori: la formazione di forza lavoro specializzata
(cognitiva) e la valorizzazione del territorio (infrastrutture, in particolare
web) e dell’ambiente. Tradotto nel Mezzogiorno italiano: saranno finanziati
progetti di espropriazione di risorse naturali – con David Harvey, «accumulation by dispossession»17 –
e l’accumulazione tramite la formazione del lavoro vivo. Vale a dire:
l’inaugurazione di nuovi insediamenti industriali; le bonifiche ambientali in
Campania, a seguito del decreto legge “Terra dei fuochi”; l’estrazione di
idrocarburi (in Basilicata e Campania ma anche, a macchia di leopardo, in altre
regioni del Meridione d’Italia); e la formazione (universitaria, post-universitaria,
corsi regionali, stage, ecc.), destinata alle regioni d’Europa che ne avranno
bisogno e che potranno assorbirne le specializzazioni.
A chi giova il rapporto sviluppo/sottosviluppo e la dialettica
dentro/fuori? Anzitutto va detto che dal 2000 al 2014 i Fondi comunitari hanno
garantito un certo grado di subalternità al discorso egemone dell’unione, della
costituzione e dell’integrazione dello spazio europeo; nel frattempo hanno
incanalato la mobilità della forza lavoro meridionale all’interno di uno sviluppo
complessivo del mercato europeo. In questo modo, la dualità
sviluppo/sottosviluppo non è stata superata, bensì integrata nel sistema
europeo. Non più il Sud d’Europa come rapporto esterno, ma come rapporto
interno allo sviluppo. In altri termini: l’unificazione capitalistica
dell’Europa come «dominio capitalistico totalizzante di uno specifico rapporto
sociale e politico»18.
Dunque, il mercato europeo funziona grazie al rapporto sviluppo/sottosviluppo
che attiva delle variabili di accumulazione indispensabili: «fonti di
approvvigionamento» di lavoro vivo a basso costo, «mercati di sbocco» e di
«accumulazione di plusvalore». La “questione meridionale” è così diventata
questione europea. E chissà quanti meridionalisti hanno speso fiumi
d’inchiostro a favore di questa svolta, auspicando dapprima il suo divenire
italiana e poi europea, per approdare infine al suo superamento. Pie illusioni
di uno storicismo d’altri tempi.
In realtà, sviluppo e sottosviluppo sono condizioni strutturali del capitalismo. Tramite la messa a valore degli angoli “arretrati” del mercato europeo, gli scarti temporali garantiscono un’estrazione violenta di rendita e profitto; provano continuamente a imbrigliare la mobilità della forza lavoro; intersecano la classe, la “linea del colore” e i dispositivi di genere, nel tentativo di ricostruire il rapporto di sfruttamento e la sua capacità di valorizzazione; e favoriscono nuove accumulazioni sulla cooperazione e sul lavoro vivo. Come ha ben notato Giso Amendola: «l’alternativa sviluppo/arretratezza si è così riproposta come dispositivo di governo delle vite: il rifiuto meridionale dell’integrazione nello sviluppo neocapitalistico industriale è stato bollato come “colpa”, come irresponsabilità. Il neoliberalismo ha riscritto così l’imperativo dello sviluppo: lo ha fatto diventare uno strumento di costruzione della soggettività […] lo stereotipo del Sud “arretrato” e bisognoso d’essere messo alla pari coi tempi dello sviluppo, si è così trasformato nella stigmatizzazione dell’aver vissuto al di sopra dei propri mezzi»19.
È andata così costituendosi una cittadinanza europea fatta non tanto e non solo in senso binario (Sud/Nord, centro/periferia, modernità/arretratezza), dove la spazialità ormai non cartografa più gli angoli attardati e quelli sviluppati, ma una cittadinanza in cui lo sviluppo convive accanto al sottosviluppo in un sistema più largo, molteplice e integrato. Per dirla con Aníbal Quijano assistiamo all’esercizio della «colonialità del potere», all’unificazione delle modalità attraverso cui il capitalismo mantiene insieme l’«eterogeneità» e le «differenze», nei «rapporti di produzione» e nei «modi di produzione»20.
In realtà, sviluppo e sottosviluppo sono condizioni strutturali del capitalismo. Tramite la messa a valore degli angoli “arretrati” del mercato europeo, gli scarti temporali garantiscono un’estrazione violenta di rendita e profitto; provano continuamente a imbrigliare la mobilità della forza lavoro; intersecano la classe, la “linea del colore” e i dispositivi di genere, nel tentativo di ricostruire il rapporto di sfruttamento e la sua capacità di valorizzazione; e favoriscono nuove accumulazioni sulla cooperazione e sul lavoro vivo. Come ha ben notato Giso Amendola: «l’alternativa sviluppo/arretratezza si è così riproposta come dispositivo di governo delle vite: il rifiuto meridionale dell’integrazione nello sviluppo neocapitalistico industriale è stato bollato come “colpa”, come irresponsabilità. Il neoliberalismo ha riscritto così l’imperativo dello sviluppo: lo ha fatto diventare uno strumento di costruzione della soggettività […] lo stereotipo del Sud “arretrato” e bisognoso d’essere messo alla pari coi tempi dello sviluppo, si è così trasformato nella stigmatizzazione dell’aver vissuto al di sopra dei propri mezzi»19.
È andata così costituendosi una cittadinanza europea fatta non tanto e non solo in senso binario (Sud/Nord, centro/periferia, modernità/arretratezza), dove la spazialità ormai non cartografa più gli angoli attardati e quelli sviluppati, ma una cittadinanza in cui lo sviluppo convive accanto al sottosviluppo in un sistema più largo, molteplice e integrato. Per dirla con Aníbal Quijano assistiamo all’esercizio della «colonialità del potere», all’unificazione delle modalità attraverso cui il capitalismo mantiene insieme l’«eterogeneità» e le «differenze», nei «rapporti di produzione» e nei «modi di produzione»20.
Dunque, se il dispositivo sviluppo/sottosviluppo e la dialettica
dentro/fuori sono l’ordinario funzionamento del sistema economico europeo, le
politiche di austerità sono l’ordine del discorso che ne rendono possibile
l’attuazione. Che l’austerità non arridi alla Germania e ai paesi del Nord
Europa per superare la crisi e per riattivare la crescita è dimostrato
dall’andamento dello stesso mercato tedesco: il barcamenarsi tra il blocco
della crescita e un forte rischio di deflazione ha spinto le agenzie di rating,
sì a confermargli la “tripla A”, ma a non riporre grossa fiducia nella sua
stabilità. Ciò non toglie, però, che la sua bilancia commerciale si mantenga in
avanzo, che sia forte la competitività dei suoi prodotti, e che i bilanci
pubblici in attivo gli consentano di fronteggiare i rischi di stagnazione e al
governo Merkel di contrastare qualsiasi ragione contraria al rigore. Se finora
le politiche comunitarie hanno consentito l’integrazione del sottosviluppo
nello sviluppo, il prossimo settennato servirà alla formazione di forza lavoro
specializzata nelle regioni periferiche e “poco sviluppate”; al controllo della
mobilità della forza lavoro verso i mercati “avanzati” dell’UE, in particolare
verso il mercato tedesco; e all’apertura di processi violenti di «accumulazione
per spoliazione» nelle regioni “arretrate”, come ricostruzione del rapporto di
sfruttamento, secondo una logica estrattiva.
Sempre nel Mezzogiorno e nell’area mediterranea riscontriamo altri fenomeni
particolarmente significativi delle politiche comunitarie, cui vale la pena
prestare attenzione. Sono i fenomeni di mappatura di nuove regioni geopolitiche
per la gestione della popolazione e dei territori. Ci riferiamo ad esempio alla
Macroregione Adriatico-Ionica. Dai documenti ufficiali si evince l’importanza
strategica di quest’area all’interno della Politica macroregionale dell’UE che
vede coinvolti un numero elevato di Paesi extra unionali (Albania,
Bosnia-Erzegovina, Montenegro e Serbia) insieme agli Stati membri (Croazia,
Grecia, Italia e Slovenia) che fanno da garanti dell’accordo. Gli scopi sono
l’estrazione di risorse ambientali ed energetiche; la gestione delle
migrazioni; e nel complesso la governance dello
sviluppo economico delle regioni coinvolte21.
Essa appare come una nuova regione del Mediterraneo in cui sono applicate
«tecnologie di zoning», ossia «sono introdotti calcoli economici nella gestione
della popolazione». In questo caso abbiamo un esempio, fra i tanti nel
meridione d’Europa, ma probabilmente tra i più rappresentativi, di
moltiplicazione dei confini in aree “arretrate”: vale a dire di «gestione,
limitazione, arresto» della «mobilità dei migranti» e, al contempo,
dell’esistenza di «corridoi ed enclave per la costituzione di zone economiche
speciali»22;
dove convivono le lotte dei migranti con gli interessi delle multinazionali
petrolifere, con il progetto noto come Gasdotto Trans-Adriatico (TAP,
Trans-Adriatic Pipeline) per l’afflusso di gas naturale proveniente
dall’Azerbaigian in Italia e in Europa.
In ultimo, vale brevemente la pena analizzare un altro caso di «enclave» e
«zona economica speciale» per eccellenza, all’interno dello spazio europeo: il
porto di Gioia Tauro. Qui è difficile parlare di periferia o di Sud Europa
oppure di zona arretrata, allorché su questi cliché si staglia non la
marginalità e l’eccezione ma la realtà della globalizzazione capitalistica. Il
porto di Gioia Tauro è uno dei punti più alti dell’accumulazione capitalistica
e del flusso di merci globale; e la zona circostante è un contenitore esplosivo
di sfruttamento, tensioni, attriti e conflitti. La sua condizione di frontiera
contraddistingue una sovranità ambivalente. Il flusso di merci ne istituisce
gli spazi caratterizzati dalla «confusione tra legale e illegale, pubblico e
privato, disciplinato e selvaggio»23.
Così, in una manciata di kilometri, in una delle tante periferie dell’Europa
ormai assurta a ventre della bestia, è concentrata tutta la violenza del
capitale: processi di sfruttamento del lavoro vivo, di estrazione di profitto e
di finanziarizzazione; e un po’ più in là, nella Piana di Gioia Tauro, vi è la
brutalità dell’inclusione differenziale: lo sfruttamento “schiavistico” e la
ghettizzazione della forza lavoro migrante.
3. Parafrasando un classico di Giovanni Arrighi, forse sarebbe necessario
mandare Adam Smith a Gioia Tauro. Cosa vuol dire questo? Che cosa ci dicono
quelle coordinate che abbiamo provato a rincorrere e riacciuffare nel corso di
queste analisi? Queste domande in realtà ci aprono le porte a quelle sfide che
rimandano alla comunicabilità delle differenze e alla traducibilità delle
lotte; al ripensamento radicale della politica della traduzione delle lotte,
tanto a livello europeo quanto a livello globale. Non si tratta di andare da
una lingua a un’altra tenendo ferma la barra delle coordinate Nord/Sud,
centro/periferia, che solo a pronunciarle farebbero idealmente alleare i
subalterni meridionali. Questo tipo di traduzione non tiene conto dei processi
di accumulazione, delle forme di sfruttamento, dei differenti livelli della
lotta di classe e dell’eterogeneità degli stessi “Sud”. Certo, una sorta di
“geografia della percezione” potrebbe essere uno strumento tra i tanti di una
politica della traduzione delle lotte. Tuttavia non va trascurato come
all’interno delle periferie pulsi il cuore della belva: alti livelli di
accumulazione così come violente forme di sfruttamento; e come nel centro della
finanza internazionale convivano pratiche di precarietà e povertà. Si tratta di
una traduzione che di fatto non passa più per la lingua della spazialità. Ma al
contempo va preso atto come le politiche nello spazio europeo proprio tramite
la retorica del sottosviluppo, i proclami sul rigore, i discorsi orientalistici,
abbiano ormai riconfigurato i processi di accumulazione, il mercato del lavoro,
la mobilità dello sfruttamento, la formazione di sacche da cui attingere «mezzi
di produzione» e dove praticare nuove forme di «accumulazione originaria».
Tentare di sperimentare la traducibilità fra subalternità eterogenee, ad esempio nei paesi del Sud d’Europa, significa creare ambiti di connessione e comunicazione di «contro-condotte», esperienze di solidarietà e di resistenza, nuove forme di sindacalismo e mutualismo fra classi subalterne, e individuare dei momenti e dei luoghi di accumulo in cui misurare i rapporti di forza. Attingendo dal “cantiere” gramsciano, varrebbe forse la pena di interrogarsi sul come produrre «egemonia» in grado di divenire discorso pubblico. Che tenga insieme pratiche conflittuali e consenso sempre più diffuso: «egemonia» in grado di parlare la lingua delle subalternità e di creare un «sistema di alleanze di classe» che consentano di «mobilitare contro il capitalismo», e contro la cultura e la solitudine neoliberiste, la «maggioranza» di quell’eterogeneità precaria.
Tentare di sperimentare la traducibilità fra subalternità eterogenee, ad esempio nei paesi del Sud d’Europa, significa creare ambiti di connessione e comunicazione di «contro-condotte», esperienze di solidarietà e di resistenza, nuove forme di sindacalismo e mutualismo fra classi subalterne, e individuare dei momenti e dei luoghi di accumulo in cui misurare i rapporti di forza. Attingendo dal “cantiere” gramsciano, varrebbe forse la pena di interrogarsi sul come produrre «egemonia» in grado di divenire discorso pubblico. Che tenga insieme pratiche conflittuali e consenso sempre più diffuso: «egemonia» in grado di parlare la lingua delle subalternità e di creare un «sistema di alleanze di classe» che consentano di «mobilitare contro il capitalismo», e contro la cultura e la solitudine neoliberiste, la «maggioranza» di quell’eterogeneità precaria.
1. Dall’incontro del 16 maggio 2014, presso
l’Università degli studi di Napoli, “L’Orientale”, Lo spazio europeo: sguardi da Sud per inventare il comune –
dialogo con Toni Negri. Si vedano qui materiali e video. ↩
2. S. Hall, Cultural Studies Identity and
Diaspora, in J. Rutherford (a cura di),Identity, Community, Culture,
difference, Lawrence & Wishart, London1990, cit. in M. Mellino, La critica postcoloniale. Decolonizzazione, capitalismo e
cosmopolitismo nei postcolonial studies, Meltemi, Roma 2005, p.
128. ↩
3. M. Foucault, Microfisica del potere. Interventi politici, Einaudi,
Torino 1977, p. 153. ↩
4. C. Marx, Il Diciotto brumaio di Luigi
Bonaparte, con pref. di F. Engels, Feltrinelli Reprint, Milano,
1896, p. 16. ↩
6. S. Mezzadra, Leggere Gramsci oggi. Materialismo geografico e subalternità,
inBriganti o emigranti. Sud e movimenti fra conricerca e studi
subalterni, a cura di Orizzonti meridiani, ombre corte, Verona 2014,
p. 37. ↩
7. S. Mezzadra, B. Nielsen, Confini e frontiere. La moltiplicazione del lavoro nel mondo
globale, il Mulino, Bologna 2014, p. 357. ↩
8. G. Amendola, La norma dello sviluppo, la rottura meridiana, in Briganti o emigranti, cit., p. 52. ↩
9. S. Mezzadra, op. cit. p. 37. ↩
10. I dati sull’uso dei fondi comunitari nelle
«aree sottoutilizzate» parlano chiaro, anche se vanno relativamente commisurati
alla capacità degli enti periferici dell’UE di farne richiesta e di investirli
in modo da ottenerne il rientro. Ad ogni modo sono cartina di tornasole della
funzione e dello scopo dei fondi di cui andremo parlando nel corso del presente
articolo. Dal 2007 al 2011, l’investimento è stato del 21,7% (6,1 mld) a fronte
del ciclo precedente, 2000-2006, di 36,1 % (9,7 miliardi), quindi assistiamo a
una sostanziale riduzione. ↩
11. P. Dardot., C. Laval, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista,
Derive Approdi, Roma, 2013, pp. 8-9. ↩
13. L. Ferrari Bravo, A. Serafini, Stato e sottosviluppo. Il caso del Mezzogiorno italiano,
ombre corte, Verona 2007, p. 28. ↩
14. A. Gramsci, Alcuni temi della quistione meridionale, intr. e cura
di F. De Felice, V. Parlato, Editori Riuniti, Roma, 1974, p. 135; Id., Quaderni del carcere, III, a cura di V. Gerratana,
Einaudi, Torino, 1975, p. 2283; Id., Risorgimento italiano. Quaderno
19, a cura di C. Vavanti, Einaudi, Torino 1977 p. 70. ↩
15. R. Luxemburg, L’accumulazione del capitale, Einaudi, Torino 1972, pp.
343 e 363. ↩
16. Il pacchetto legislativo sulla politica di
coesione 2014-2020 che introduce cambiamenti significativi, quali «un
coordinamento rafforzato della programmazione dei quattro fondi comunitari
collegati al Quadro Strategico Comune 2014-2020 in
un unico documento strategico, e una stretta coerenza rispetto ai traguardi
della strategia Europa 2020 per la crescita intelligente, inclusiva e
sostenibile dell’UE e rispetto agli adempimenti previsti nell’ambito del
Semestre europeo». Il documento è stato istruito dal «processo di preparazione
[…] avviato con la presentazione da parte del Ministro per la coesione
territoriale, d’intesa con i Ministri del Lavoro, e delle Politiche Agricole,
Forestali e Alimentari, nel dicembre 2012, del documento “Metodi e obiettivi
per un uso efficace dei fondi strutturali”, che ha definito l’impianto
metodologico del nuovo ciclo, individuando sette innovazioni volte a rafforzare
l’efficacia e la qualità della spesa dei fondi [qui]». ↩
17. Per un’analisi critica della nozione di
Harvey, si veda M. Mellino, David Harvey e l’accumulazione
per espropriazione, qui. ↩
18. L. Ferrari Bravo, A. Serafini, op. cit.,
p. 25. ↩
19. G. Amendola, op. cit., p. 55. ↩
20. A. Quijano, Colonialità del potere ed eurocentrismo in America Latina,
in G. Ascione, a cura di, America latina e modernità.
L’opzione de coloniale: saggi scelti, Edizione Arcoiris, Salerno
2014, p. 77. ↩
21. Sull’Iniziativa Adriatico-Ionica si veda questo documento ministeriale. ↩
22. A. Ong, Neoliberalismo come eccezione.
Cittadinanza e sovranità in mutazione, La casa Usher, Lucca, 2013,
cit. in S. Mezzadra, B. Nielsen, op. cit., pp. 267. ↩
23. Ibidem, p. 268. ↩
euronomade