di
Augusto Illuminati
agomento
controverso sul piano filosofico e politico, l'Italian Theory è stata trattata
in convegni e in raccolte antologiche* preziose dal punto di vista
documentario per la ricchezza dei punti di vista e per la loro stessa parziale
divergenza, suscitando pertanto ulteriori polemiche in sede accademica e
mediatica. Vogliamo quindi affrontare il tema con valutazioni differenziate e
in interlocuzione con quanti si riconoscono in quell'operazione e/o ne hanno
curato la testimonianza
L’Italian
Theory è un’ottima etichetta – tipo il Brunello o la burrata d’Andria – per
acchiappare borse doc e post-doc e marchette di visiting professor all'estero,
cosa di tutto rispetto in tempi di restrizione drammatica per l’emigrazione
accademica di tanti giovani capaci. Fin qui ci sta bene e in bocca al lupo ai
ragazzi. Nous sommes tous I.T.
A
considerarla, con il dovuto distacco, una categoria storiografica, sorgono però
alcune perplessità, derivanti dall’eccessiva eterogeneità dei contributi che
spaziano dagli angeli all’immunizzazione, dall’ermeneutica alla rivoluzione,
dalla lotta di classe alla contemplazione del tramonto, dal potere costituente
all’inoperosità. Un arco di argomenti e intenzioni che eccede di troppo gli
spazi di compatibilità caratterizzanti altri indirizzi culturali –che so,
l’idealismo tedesco o lo stesso strutturalismo e post-strutturalismo francese,
che pure furono movimenti variegati e dissonanti. Ma di tali scrupoli
classificatori forse non interessa troppo a nessuno e, d’altronde, come scriveva
il saggio Machiavelli nei Ghiribizzi, «ciascuno secondo lo ingegno
et fantasia sua si governa».
Invece
è importante riflettere sull’uso politico possibile di tale operazione –o
meglio dell’insieme di operazioni e usi politici che confusamente entrano in gioco.
A me –cioè a uno fuori dal giro, se non per partecipazione all’antologia
Hardt-Virno, Radical Thought in Italy (1996) che per fortuna
di quell’etichetta non si fregiava– sembra piuttosto trattarsi di una
tendenziale neutralizzazione della differenza italiana, come hanno sostenuto
con accenti diversi A. Negri, N. Martino, S. Chignola e J. Revel in interventi
e recensioni.
La
tesi, derivata da Pensiero vivente di R. Esposito, che
determina la differenza italiana nel rapporto di lunga durata con la vita e
l’insopprimibilità del conflitto dice troppo dunque troppo poco, risale fino a
Machiavelli e Bruno, abbraccia Gramsci e infine si spalma sulle molteplici
articolazioni del dibattito italiano fra togliattismo e dellavolpismo,
operaismo, post-operaismo e autonomia del politico (fumisterie, quest’ultima,
da sinistra Pci e ben più miserevolmente Pd). Vita, ma quale vita o bios o zoé?
Conflitto, ma vince chi? Il tratto comune di tutti quegli autori è l’aver fatto
leva su un ritardo (la formazione dello Stato assoluto, la riforma religiosa,
la precoce irruzione del fascismo) per suggerire al mainstream vincente delle
alternative (la repubblica tumultuaria, l’immanentismo, l’egemonia
costituente), ma allora in cosa consiste lo scarto italiano novecentesco e dove
si traccia, in quale direzione, a partire da quale frattura, un percorso
alternativo?
A mio parere, la frattura sta, con anticipi e code, nel ciclo di
lotte strutturali e sovrastrutturali che va dal 1962 al 1977 ovvero, in termini
sommari, nell’operaismo e nella complementare ricezione di altri momenti del
pensiero rivoluzionario contemporaneo (Marcuse, Krahl, Foucault, Althusser,
Deleuze) e di riscoperte (Benjamin, il Marx dei Grundrisse). Una
potente prassi di soggettivazione che –al di là dell’agonizzante ideologia
lavorista e partitica e dell’incipiente rilancio dell’individualismo liberale–
trovava il suo referente nei movimenti e il suo limite nella loro sconfitta. Da
questo punto di vista è precoce tanto la rottura teorica di Tronti nel 1966
quanto la sua rapida involuzione successiva con il rientro nel Pci, a
dimostrazione della fragilità del pensiero nella sua articolazione con la
prassi –fragilità meravigliosa nella coincidenza, miserabile nel declino. Con
il risultato che, scontando il ben diverso livello intellettuale, a livello di
procedura parlamentare il voto favorevole sul Jobs Act ha a che vedere con Operai
e capitale quanto la tradizione liberale di Quagliarello con la
certificazione di Ruby quale nipote di Mubarak. Di conseguenza, mantenere al
centro dell’Italian Theory l’intero percorso trontiano neutralizza
e rende equivoci sia l’assunto generale dell’operazione sia il ruolo in essa
dell’operaismo. Prendendo il secondo per nucleo continuo fondatore a impronta
trontiana si legittima per post-operaismo qualsiasi variazione sul tema, mentre
la specificità della presunta tradizione italiana con quel percorso saliente
oscilla fra un nuovo “primato morale e civile degli italiani” e la traduzione
metafisica di un processo politico mancato –avvenga ciò come katechon apocalittico
o messianica inoperosità.
Il
rapporto fra operaismo e post-operaismo sta invece nella problematica
continuità dell’esercizio di una soggettivazione moltitudinaria (dunque
stipulativa e non identitaria, da costruire di volta in volta, come spiega
Chignola) nel passaggio dal fordismo al post-fordismo. Non sappiamo se
funzionerà, se troverà una sufficiente base sociale e politica, ma questa
scommessa è alternativa alla definizione di una dottrina pacificata e
accademicamente rappresentabile.
Sappiamo
invece cosa rischia di essere (al di là delle meritorie collezioni di testi
citate in nota) la presentazione di una serie disomogenea di materiali in una
formula mediatica: un’eccellenza nazionale di bio-diversità e di packaging, un
prodotto di punta per il bilancio delle esportazioni culturali, gestibile in
due gamme di offerta (con e senza Negri, secondo i giornali e i destinatari).
Non solo un surrogato in ritardo rispetto a processi rivoluzionari, ma forse
anche un momento di rivoluzione passiva corrispondente a una gestione
neo-liberale di sinistra. Il contro ma dentro la
globalizzazione, assomiglia troppo alle interpretazioni “evolutive” di
flessibilità e austerità…
Eccola
qui l’Eatalian Theory, al cui vertice poniamo allora di
diritto Oscar Farinetti, il vero supporto ideologico di Renzi, in grado più
ancora degli scostanti finanzieri e del poco patriottico Marchionne di captare
il consenso veicolando tutti i luoghi comuni della differenza italiana. L’Expo
(appaltato da Eataly senza gara) non è forse il legittimo successore di tutte
le esposizioni universali, di cui parlava Walter Benjamin, sciorinamento di
prodotti, emozioni e pensieri che sottomette la creatività del pensiero e del
lavoro alla logica della merce e della più spietata competizione?
*Dario
Gentili, Italian Theory. Dall’operaismo alla biopolitica, Il
Mulino, Bologna 2012; Differenze italiane. Politica e filosofia: mappe
e sconfinamenti, a cura di Dario Gentili ed Elettra Stimilli,
DeriveApprodi, Roma 2015. Il secondo raccoglie gli atti del convegno napoletano
del 15-17 maggio 2014 su Italian Theory, Categorie e problemi della
filosofia italiana contemporanea