di Francesco Raparelli -
CLAP
è un acronimo, sta per Camere del Lavoro Autonomo e Precario. Le Camere nascono
nell'autunno del 2013, in tre spazi autogestiti della città di Roma, e si
connettono in una comune associazione sindacale. Gli spazi sono: la fabbrica
recuperata Officine Zero (Casal Bertone), l'atelier autogestito Esc (San
Lorenzo), lo studentato autogestito Puzzle (Tufello). Un esperimento giovane,
dunque, con tanta strada ancora da percorrere, molte verifiche da fare. Ma un
esperimento che tenta di affrontare, senza timidezze, il problema più
significativo del nostro tempo: l'insignificanza (o quasi) del sindacato che
c'è nella tutela del lavoro precario, intermittente, autonomo, migrante
Prima
di descrivere l'esperimento, presento lo sfondo o le scommesse all'interno
delle quali l'esperimento ha preso vita (§ 1). Uno sguardo alle premesse, uno a
quanto fatto fin qui (§ 2), infine la prospettiva politica (§ 3) che CLAP, tra
gli altri e con altri, contribuisce ad animare.
1. Le due trasformazioni
CLAP
ha scommesso, fin dall'inizio, su due traiettorie: la trasformazione degli
spazi autogestiti, dei centri sociali, in nuovo dispositivo sindacale; il
ritorno del sindacato alla forma Camera del lavoro. Le due traiettorie
convergono su un'esigenza decisiva: mettere fine alla dicotomia tra pratiche
mutualistiche e contrattazione, tra conflitto (verticale) e solidarietà
(orizzontale).
Sono
quasi tre decenni che in Italia i centri sociali e gli spazi autogestiti
innervano la scena urbana di socialità alternativa, formazione, difesa dei più
fragili (soprattutto i migranti), pur essendo del tutto ininfluenti nelle lotte
del e sul lavoro. In questi tre decenni – gli anni della contro-rivoluzione
neoliberale – il sindacato, salvo alcune nobili eccezioni (la FIOM, al pari del
sindacalismo di base, è una di queste), ha dismesso il conflitto e reso
possibili la precarizzazione e il conseguente impoverimento di un'intera
generazione. Con l'epilogo del movimento No Global e l'esplosione della Grande
Depressione, a partire dal 2008, l'impasse dei centri sociali da un lato,
incapaci di rinnovarsi e di funzionare da polo attrattore delle forme di vita
giovanili, l'impotenza sempre più marcata dei sindacati tutti di fronte
all'accelerazione neoliberale dall'altro, hanno reso più ruvida la verità: non
c'è comunità elettiva che possa sopravvivere al working poor e alla
disoccupazione di massa; non c'è sindacato che possa sopravvivere – pena il
prevalere della corruzione e della collaborazione subalterna con le imprese –
senza rimettere in campo il conflitto e, con esso, la ricerca e l'espansione di
nuove pratiche mutualistiche.
Traiettorie
soggettive, indubbiamente, che richiedono coraggio, impegno, tenacia.
Traiettorie imposte dalla svolta d'epoca nella quale siamo immersi. La gestione
bismarkiana e ordoliberale della crisi europea sta portando con sé un attacco
violentissimo al salario, quello diretto e quello indiretto, le prestazione del Welfare
State (formazione, sanità, previdenza). La sotto-occupazione,
soprattutto nei paesi del Sud Europa, da eccezione si è fatta norma. In Italia
salta lo Statuto dei lavoratori, la contrattazione collettiva nazionale, i
contratti a tempo determinato senza causale vengono liberalizzati: una nuova
scena, dove all'occupazione si sostituisce l'occupabilità, e dai sotto-salari
si procede speditamente verso il lavoro gratuito, non pagato (vedi EXPO). Pur
di lavorare, ogni lavoro va bene.
Di
fronte a tanta violenza, tutti gli strumenti esistenti sono spuntati, chi
lavora è senza diritti, senza forza, frammentato, quasi sempre immerso in una
competizione selvaggia con i più poveri (in particolare i migranti). Affermare
la solidarietà, dove vige la solitudine rassegnata e rancorosa, è la prima
grande battaglia. Così come costruire luoghi dove la frammentazione possa
essere ricomposta, la quotidianità con i suoi drammi condivisa, il poco tempo
che c'è messo in comune. Per far sì che le tante piccole vertenze, i tanti
rifiuti, che pure ci sono, non siano maledettamente fragili, inoffensivi.
Coniugare il conflitto sul lavoro con il mutualismo significa dunque tornare
alle origini, le Camere del lavoro appunto, con armi nuove: la comunicazione
informatica, la socializzazione dei saperi, la circolazione virale delle
istanze e delle lotte, la connessione transnazionale degli esperimenti
organizzativi.
2. Cos'è CLAP?
Ritorno
alle origini carico di innovazione: con tanti limiti, propri della giovinezza,
questa è la sfida delle Camere del Lavoro Autonomo e Precario. Ma conviene
entrare più nel dettaglio.
CLAP
prova a connettere tre funzioni che, nella crisi dei sindacati tradizionali,
tendono sempre più alla scomposizione: servizio, organizzazione,
mutualismo. In primo luogo la consulenza e l'assistenza
legale, per vertenze collettive come per quelle individuali, e quella fiscale,
per freelance e professionisti atipici, associazioni e cooperative. Strumenti
essenziali per entrare in contatto (con), inchiestare e tutelare un mondo del
lavoro frammentato, impaurito, non sindacalizzato. Di più, occasioni imprescindibili
per avviare un primo, semmai lacunoso, processo di alfabetizzazione sindacale.
In secondo luogo, quando la vertenza lo consente, l'avvio di una
vera sperimentazione organizzativa. Va da sé, e lo impone la composizione
tecnica di classe come la barbarie del contemporaneo mercato del lavoro, spesso
ci si trova di fronte a vertenze che coinvolgono pochi lavoratori, spesso
vertenze individuali. Il supporto organizzativo della Camere, in questo senso,
si fa decisivo: nell'organizzazione di un picchetto, nell'articolazione di una
campagna comunicativa, nella conquista del tavolo di trattativa istituzionale
(se a esser coinvolte sono le istituzioni di prossimità). In terzo
luogo il mutualismo, che significa soprattutto formazione fiscale e
sul diritto del lavoro (quel poco che rimane dopo il Jobs Act), ma anche banca
del tempo e mutualismo delle lotte. Solo il sostegno reciproco, infatti, può
rispondere alla debolezza, drammatica, che la frammentazione porta con sé.
Nelle
sue attività, dunque, CLAP prova a connettere figure del lavoro diverse, spesso
ostili l'un l'altra. La prima frattura è la linea del colore, indubbiamente.
Con la crisi, e in particolar modo la disoccupazione di massa, la forza-lavoro
migrante è una “minaccia”: ricattabile e ricattata, costa meno e impone un
abbassamento generalizzato del salario e delle tutele, ecc. La seconda frattura
riguarda la percezione di sé: seppur povero, con fatturati che non superano i
12-15 mila euro l'anno, un freelance tende a non confondersi con il precario di
McDonald's. Forza-lavoro qualificata la sua, sicuramente afflitta da bassi
compensi e pressione fiscale alle stelle, ma di certo capace, se la fortuna lo
vuole, di fare strada... Peccato che la fortuna, in Italia, è sparita da un
pezzo, la mobilità sociale un ricordo del passato. Per la forza-lavoro
qualificata, quando non c'è l'aiuto del paparino, ci sono due strade: l'esodo,
e sono 100.000 l'anno i giovani che scappano dal Bel Paese, o la
sotto-retribuzione. E il disastro del lavoro povero vale sempre più, non solo
per i professionisti atipici, ma anche per quelli degli ordini, dagli avvocati
ai giornalisti, dai para-farmacisti agli ingegneri. Dunque l'urgenza della
coalizione, oltre i corporativismi, comincia a farsi strada.
Dalla
sua nascita, poco più di un anno, CLAP ha incrociato una trentina di piccole e
medie vertenze, che hanno visto e vedono coinvolti: partite Iva del settore
sanitario, operatori sociali, precari dei servizi e delle catene commerciali,
lavoratori della logistica, lavoratori migranti. Si contano quasi 200 iscritti,
età media giovane, in alcuni casi giovanissima. Dramma ricorrente: il mancato
pagamento del lavoro svolto. Non sempre la vertenza è motore di
politicizzazione, ma nuovi legami stanno nascendo, un piccolo tessuto di
resistenze, laddove prima vigeva la solitudine, sta prendendo forma.
3. L'urgenza della Coalizione
Perché
dare vita a una piccola struttura sindacale piuttosto che immettere forze
giovani nei sindacati già esistenti? Le risposte a questa domanda sono almeno
due. La prima: il sindacato che c'è, anche quando sinceramente conflittuale,
insiste su una figura specifica: il lavoro subordinato. Con il Jobs Act anche
per il lavoro subordinato si mette male, malissimo, ma persistono le
differenze, quanto meno sul piano della percezione di sé dei soggetti e, di
conseguenza, sul piano delle pratiche organizzative. La seconda: parlare di
lavoro, oggi, significa fare i conti con una pluralità irriducibile di forme di
sfruttamento, di profili etici, di linguaggi e di relazioni. La stessa
pluralità deve qualificare i dispositivi organizzativi e sindacali. Fa da
sfondo a queste due risposte, poi, una convinzione: i sindacati confederali
sono ormai irriformabili, la loro conversione neoliberale, in diversi casi, ha
raggiunto un punto di non ritorno.
Se
valgono le due risposte, si impongono due sfide: la piena politicizzazione
dello scontro economico; la Coalizione sociale. Meglio chiarire.
Obiettivo
principale della governamentalità neoliberale, oltre la piena affermazione del
principio di concorrenza, vera e propria legge divina che occorre rendere
vigente sulla Terra senza troppe storie, è la spoliticizzazione della sfera
economica. Cosa significa? Significa destituire di ogni senso e marginalizzare
con violenza il conflitto tra capitale e lavoro. Conta solo un interesse,
quello di impresa, perché, secondo le retoriche dominanti, siamo tutte e tutti
imprenditori di noi stessi, capitale umano. Anche quando fatichiamo ad arrivare
a fine mese. Meglio, se a fine mese non arriviamo, la colpa è nostra, abbiamo
vissuto al di sopra delle nostre possibilità. Riconquistare il “due”, la
separazione, il conflitto verticale, vuol dire ri-politicizzare il lavoro e le
sue lotte. Ma la politicizzazione necessaria è anche quella capace di mettere
in scacco, una volta per tutte, la divisione tra Politico e Sociale. Organizzare
e difendere il lavoro non sindacalizzato deve coincidere, sempre più, con un
processo di soggettivazione politica: è la nuova composizione tecnica di
classe (scolarizzazione di massa, accesso alle tecnologie della comunicazione,
ecc.) che, da anni, impone questo salto di qualità!
La
Coalizione sociale, in questo senso, è il modo di intendere il sindacato che
viene. Tradizione
vuole che il sindacato tutela il mondo del lavoro e, quando vuole far politica,
costruisce alleanze con la “società civile”, il tessuto associativo. Al centro
il sindacato, attorno tutti gli alleati, ognuno stretto nella sua identità. Con
la nozione di Coalizione, invece, si chiama in causa quel pluralismo di figure
e di pratiche organizzative che respinge ogni reductio ad unum. Il
multiplo, per riprendere le parole del filosofo, si fa sostantivo. C'è sì il
sindacato che difende il lavoro subordinato, ma poi ci sono i tanti
dispositivi, piccoli o grandi, utili alla tutela del lavoro precario, delle
partite Iva e del professionismo, degli studenti, del lavoro migrante. Lo
Strike Meeting e lo Sciopero sociale dello scorso 14 novembre, due fatti ai
quali con generosità e tra gli altri ha contribuito CLAP, sono esperimenti di
Coalizione sociale. Nulla più di un debutto, ma l'atteso imprevisto al quale
dedicare le energie migliori.
Un contributo
dell'ultimo numero della rivista "Inchiesta" (ed. Dedalo, in questi
giorni in libreria) sulle Camere del Lavoro Autonomo e Precario e sul tema
della coalizione sociale