di Sandro Chignola
Le lotte che segnano l’epoca dei governati mostrano
caratteristiche che le rendono molto differenti dalle lotte dell’operaio massa
che avevano in precedenza costretto il capitale al compromesso fordista. Sono
lotte trasversali che politicizzano
desideri e bisogni: la «vita» in senso largo. Sono lotte ‘an-archiche’ nel senso che sono
del tutto disinteressate al tema classico della conquista del potere. Esse sono
disposte semmai verso un processo costituente autonomo della moltitudine capace di porre in essere nuovi dispositivi di
democrazia diretta (nessuno rappresenta nessuno!) e sulla forza dei quali iniziare
a praticare sull’unico spazio oggi possibile –quello
europeo- l’incontro con la dimensione del «governo»
Impiantare
la verticalità dell’organizzazione sull’orizzontalità dei movimenti, si è
detto. Bene. Forse vale la pena tornare su quest’espressione per provare a
chiarirne il senso. Ciò a cui pensiamo non cambia nulla di ciò su cui abbiamo
insistito in questi anni. Per dirlo altrimenti, e forse in modo ancor più
radicale, il piano della critica della rappresentanza politica su cui ci siamo
assestati negli anni – anche in momenti nei quali altri pensava di poter
sfruttare il momento favorevole e capitalizzare una rendita di posizione
impancandosi a portaparola dei movimenti o di quello che allora si chiamava il
«movimento dei movimenti» – definisce per noi un punto inaggirabile. Quando
parliamo di verticalità non parliamo di rappresentanza, ma di vettori
organizzativi, di forza, di dinamiche costituenti. Vale allora la pena di
chiarire un paio di cose. La prima: il processo rappresentativo alimenta
processi di spoliticizzazione nell’esatta misura in cui lavora alla produzione
di sintesi unitarie. La seconda: è il modo in cui vengono evolvendo equilibri
politici e costituzionali che si assestano oltre gli assetti classici della
rappresentanza politica a marcare il punto di soglia che ci spinge a confrontarci
con la riemersione del fatto di governo.
Il
primo punto è essenziale. La logica della rappresentanza politica, sin dai suoi
esordi teorici in Thomas Hobbes, muove non già dall’idea di un «mandato» – come
invece vorrebbero tutt’oggi i fautori della democrazia diretta –, ma da quella
dell’«autorizzazione». Rappresentare significa «personificare» è non già
trasmettere un messaggio o portare la parola di qualcun altro. Ciò che si
presentifica attraverso l’azione rappresentativa è un assente, perché il rappresentante,
autorizzato a ciò da chi lo ha evocato o eletto, è libero di prendere le
decisioni che crede, dato che il soggetto rappresentato non ha realtà, né
esistenza politica, al di fuori o prima del suo essere, appunto, rappresentato.
L’esistenza di una volontà generale è possibile solo nell’operazione che la
sintetizza come un Uno; come il prodotto di una fictio giuridica.
Può sembrare complicato, ma non lo è più di tanto: una legge viene promulgata
«in nome del popolo italiano» dal Parlamento in cui si rappresenta appunto una
volontà collettiva, quella del popolo, che esiste solo per mezzo della sua
rappresentazione da parte degli eletti – e cioè: dei rappresentanti – che esso
ha «autorizzato» a parlare in suo nome, ritraendosi poi in una sfera di esistenza
prepolitica o «privata». Come ebbe modo di dire un grande reazionario come
Tocqueville: in democrazia si esce in fondo dalla servitù una volta ogni tanto
per eleggere il proprio padrone e per rientrarvi immediatamente dopo. Poco
varrebbe insistere su questo dato e ricordare che sarebbe per noi ferocemente
contraddittorio inseguire i movimenti – movimenti il cui statuto stesso eccede
la rappresentanza politica e la cui dinamica costituente si produce sempre, e
con maggior potenza ora, al di fuori e di fronte ai
governi e alle rappresentanze di partito – per ottenere l’autorizzazione a
parlare per loro conto. La verticalità che evochiamo non è e non può essere di
tipo rappresentativo.
Vale
la pena, piuttosto, insistere sul secondo dei due punti sui quali richiamavo
l’attenzione in apertura. Se c’è qualcosa che caratterizza la più recente
evoluzione degli assetti istituzionali è il loro assestarsi in direzione
governamentale e postrappresentativa. È il modo in cui il comando viene
esercitandosi sui molti e differenti livelli che lo caratterizzano nelle sue
forme contemporanee, ciò che mi sembra marcare questa tendenza. Sempre di più,
e tanto più in Europa, dove esso si ammanta di competenze non delegate e non
delegabili, dove esso si caratterizza per profili di alta tecnicità e recluta expertises indipendenti,
dove esso opera in termini amministrativi e con richieste o con Diktat che
prevalgono sulle scelte e sulle politiche nazionali assegnando un ruolo
marginale e residuale ai singoli parlamenti, il potere si ritira e si concentra
in istituti e in autorità la legittimità della cui azione si indirizza al
futuro (e cioè: sul successo che essa promette di realizzare) e non si
fonda sul passato (il modo in cui le decisioni che la mettono
in moto si sono formate, secondo le procedure classiche della democrazia
rappresentativa). L’autonomia del politico si fa a quest’altezza pura
rivendicazione dell’azione di governo. Un’azione di governo sciolta da
qualsiasi forma di controllo e commisurata soltanto alla propria promessa di
efficacia.
Abbiamo
già avuto modo di discutere in altra
occasione come questa «governamentalizzazione» del potere sia stata
consapevolmente prodotta proprio allo scopo di intervenire su quella che, dopo
la grande stagione di mobilitazione degli anni ’60, veniva interpretata come
una «crisi» di governabilità della democrazia. I parlamenti erano diventati il
recettore di claims e di rivendicazioni che non erano
letteralmente più in grado di processare e le maggioranze di governo
decisamente troppo difficili da comporre. «Governamentalizzare» le istituzioni
avrebbe significato poter sciogliere la situazione di stallo reclutando
comitati e competenze all’azione di governo, risignificando il termine
democrazia (o quello di riforma) in senso efficientista e tecnocratico. E non è
certo un caso che, una volta resosi evidente l’assestamento di questa nuova
tecnologia, un autore attento al presente come Michel Foucault, potesse
salutare l’ingresso nell’epoca della «governamentalità».
Ciò
che però rileva di questo passaggio – ed è ovviamente questo che ci interessa –
è che cosa ciò sia venuto a significare sul rovescio di questo processo e cioè
sul lato del «governato». In che modo questa figura entra prepotentemente sulla
scena tra la fine degli anni ’70 e la prima metà degli anni ’80, marcando la
linea di fuga che si tratta di provare a catturare e a ricomporre? In un testo
dei primissimi anni ’80 è sempre Foucault a tentare di tracciarne il profilo.
Non soltanto le resistenze attraversano come forze il campo che il potere si
sforza di perimetrare, ma quelle che si esprimono in quella che egli identifica
come l’«epoca dei governati» caratterizzano quest’ultima a partire dal lato
soggettivo del genitivo: è cioè l’irruzione del «governato» come figura
eccedente le sintesi rappresentative (il falso universale repubblicano del
«popolo»; il Partito come macchina organizzativa cui si debba indiscussa
fedeltà; i quadri della cittadinanza democratica e il loro fare astrazione dai
corpi, dalle differenze di genere, dall’inscrizione dei singoli e delle singole
in ambienti di regolazione parziali e stratificati che possano essere
immediatamente politicizzati e attraversati da campagne e da lotte) ciò che
sospinge alla risignificazione del potere nel senso del «governo».
Vale
forse la pena insistere un momento su questo punto. Le lotte che segnano l’epoca
dei governati – e sono proprio esse a riorientare la genealogia e l’analitica
del potere foucaultiana – mostrano caratteristiche che le rendono molto
differenti dalle lotte dell’operaio massa che avevano in precedenza costretto
il capitale al compromesso fordista.
Ci dice Foucault: sono lotte trasversali e che politicizzano desideri e bisogni: la «vita» in senso largo. Sono lotte an-archiche nel senso che esse sono del tutto disinteressate al tema classico della conquista del potere. Sono lotte – e il riferimento va alle lotte delle donne, del movimento gay, di quello antinucleare e ambientalista che in quegli stessi anni, dopo la crisi petrolifera, sabota i progetti di riconversione della produzione dell’energia, il riferimento va alle lotte dei movimenti radicali in Europa e negli USA – che non cercano un nemico ultimo, ma quello più prossimo e immediato che esse incontrano sui molti ed eterogenei livelli della circolazione del potere. Esse mettono di nuovo di fronte il «governato» – la donna il cui corpo si pretende di trattenere ad una cura di tipo patriarcale, l’abitante di un territorio che deve essere attraversato da un trasporto di scorie nucleari, la potenza destituente esercitata nei confronti della socialdemocrazia e del suo supposto compromesso progressivo tra capitale e lavoro, che si esprime nel rifiuto del lavoro dei giovani proletari, l’esodo dei migranti, il diritto di fuga di quest’ultimi, che riconfigura le geografie coloniali – e il «governo», inteso quest’ultimo come la macchina amministrativa e decentrata che con il primo si confronta.
Ci dice Foucault: sono lotte trasversali e che politicizzano desideri e bisogni: la «vita» in senso largo. Sono lotte an-archiche nel senso che esse sono del tutto disinteressate al tema classico della conquista del potere. Sono lotte – e il riferimento va alle lotte delle donne, del movimento gay, di quello antinucleare e ambientalista che in quegli stessi anni, dopo la crisi petrolifera, sabota i progetti di riconversione della produzione dell’energia, il riferimento va alle lotte dei movimenti radicali in Europa e negli USA – che non cercano un nemico ultimo, ma quello più prossimo e immediato che esse incontrano sui molti ed eterogenei livelli della circolazione del potere. Esse mettono di nuovo di fronte il «governato» – la donna il cui corpo si pretende di trattenere ad una cura di tipo patriarcale, l’abitante di un territorio che deve essere attraversato da un trasporto di scorie nucleari, la potenza destituente esercitata nei confronti della socialdemocrazia e del suo supposto compromesso progressivo tra capitale e lavoro, che si esprime nel rifiuto del lavoro dei giovani proletari, l’esodo dei migranti, il diritto di fuga di quest’ultimi, che riconfigura le geografie coloniali – e il «governo», inteso quest’ultimo come la macchina amministrativa e decentrata che con il primo si confronta.
«Governare»
significa in questo senso affrontare in permanenza il «governato» come una
resistenza che deve essere vinta e superata, ma della quale non si può fare
astrazione come invece è possibile fare quando si proceduralizza la decisione e
la si fa parlare per nome e per conto del generale di una volontà per
definizione irresistibile. E ancora: «governare» significa dover operare
con la consapevolezza che il fatto di governo mai si esaurisce su di un unico
livello, né può tagliare l’ellisse che lega nella riproduzione di un confronto
aperto governo e governato.
Governo
è una parola antica del lessico politico occidentale. Così come l’ellisse è una
figura chiave della storia costituzionale. Per secoli, in epoca preassolutista,
principe e ceti si affrontano in assemblee che sono, nella ricostruzione di
molti storici delle istituzioni, il motore della giuridificazione in Occidente.
Si tratta in quel caso di un confronto che convoca governante e governato l’uno
di fronte all’altro per misurarne la forza. Le prime carte costituzionali
vengono concesse su iniziativa dei ceti e come riconoscimento della loro potenza
sociale. Potrebbe allora dirsi: è l’incitamento reciproco –
non la neutralizzazione o la spoliticizzazione dei singoli per opera del
dispositivo di rappresentanza – a trainare il movimento dell’ellisse di
governo. Storicamente sono i ceti, i governati, ad incitare i principi e a
costringerli a redarre statuti e carte che riconoscano libertates e
immunità. E viceversa, è l’incitamento che i principi esercitano sui ceti,
cercando di trattenerli al confronto e di «governarne» l’altrimenti
irriducibile resistenza, ciò che concorre a tracciare il contorno dell’ellisse.
Torniamo
allora alla verticalità e all’orizzontalità dalle quali siamo partiti. Di che
verticalità e di che orizzontalità si tratta? Dovrebbe essere ormai chiaro che
non si tratta della verticalità propria alla dimensione rappresentativa. E ancora,
che quando si parla di orizzontalità dei movimenti non si parla di pratiche
radicalmente democratiche votate alla dispersione proprio qualora non si
articolino ad una rappresentanza. Al contrario, si tratta di pensare (e di
praticare) una relazione organizzativa che faccia leva da un lato
sull’autonomia dei movimenti, sulla loro capacità di imporre agende, sulla
diffusività dei processi di soggettivazione dei «governati» e sul loro
tracimare i perimetri dell’assoggettamento e della codificazione e dall’altro
sulla capacità di tenuta di istanze della durata (quello che potremmo chiamare
il «governo» dei movimenti, di nuovo nel senso soggettivo del genitivo) senza
che il rapporto di «incitamento» venga interrotto o chiuso.
Detto
altrimenti, si tratta di pensare in maniera totalmente diversa il rapporto tra
movimento e organizzazione: nessuno rappresenta nessuno. Tantomeno sulla base
di meccanismi capziosi come quelli già tante volte sperimentati in modo
fallimentare: coalizioni, doppie o triple tessere, rappresentanze di
associazioni o partiti che si incontrano e decidono di «rappresentare» chi si
mobilita proprio perché non si sente rappresentato, né intende esserlo.
Ripulire le stalle di Augia, è stato detto. Questa indiscutibilmente
l’operazione preliminare. E ripulirla specialmente dei professionisti della
rappresentanza dei movimenti. Ma non solo. Iniziare a praticare sino in fondo,
piuttosto ed inoltre, l’autonomia costituente dei movimenti sull’unico livello
nel quale si incontra oggi il «governo» e cioè l’Europa. Vale forse la pena di
sottolinearlo un’ultima volta: non solo i movimenti non si «rappresentano» –
tantomeno quando sono in grado, come sarà di qui a poco, di «presentarsi»
direttamente da sé all’uscio di chi esercita sull’Europa un’autentica dittatura
commissaria –, ma pretendere di rappresentarli relegandoli ad un ruolo di
«autorizzazione» o di investitura su scadenzari definiti dalle elezioni
nazionali ci sembra, ed è, demenziale e perdente. Non si governa, nemmeno
laddove si possa pensare di costruire coalizioni di «sinistra», in nome o per
conto dei movimenti. Si governa piuttosto con i movimenti.
Si
governa con i movimenti quando si opera nella piena
consapevolezza che i movimenti esprimono processi di soggettivazione e agende
del tutto autonomi. Si governa con i movimenti quando il
rapporto tra governante e governato eccede le maglie dell’identità o
dell’identificazione e si riproduce secondo il dualismo – o l’ellisse – che lo
caratterizza. Si governa con i movimenti quando il governo, la
dimensione verticale, esprime la capacità o la potenza
di durata dei movimenti. Quando il costituirsi della moltitudine non
viene contratto nel passato mitologico della fondazione (il potere costituente
come «eccezione terribile» e sovrana), ma si distende in avanti nel
rapporto in tensione e sempre resistito con le istanze che quel processo di
costituzione traducono, «governano» e, talvolta, rendono possibile. Si governa di
fronte ai movimenti. Attraversando ogni volta il rischio di
sconfessione, resistenza o disconoscimemto che la loro presenza, mai dissolta
nell’Uno di una rappresentazione, rende possibile come perno dell’operatività
della stessa macchina di governo.