domenica 22 marzo 2015

La crisi messa a valore - Introduzione

di COMMONWARE ed EFFIMERA

Frutto di due intensi giorni di discussione lo scorso 29 e 30 novembre al CS Cantiere di Milano, "La crisi messa a valore" (a cura di CommonwareEffimera e Unipop, CW Press / Edizioni Sfumature, marzo 2015) è un materiale agile che discute i nuovi scenari geopolitici interrogandosi sul rompicapo della composizione di classe. In questo senso, si propone di reinterpretare il rapporto tra articolazione capitalistica della forza lavoro e processi di soggettivazione, facendo tesoro delle ipotesi e degli sviluppi teorici compiuti nella cosiddetta transizione “postfordista”, assumendone al contempo i punti di blocco. Intende cioè provare a ripensare quelle ipotesi e assunti teorici dentro le trasformazioni dei processi storici e della lotta all’austerity  (Scarica l’ebook “La crisi messa a valore”)

Il 29 e 30 novembre 2014 presso il Centro sociale Cantiere e lo Spazio di Mutuo Soccorso a Milano si è svolto un convegno di due giorni organizzato da Effimera, Commonware e UniPop per discutere dell’evoluzione della crisi economica che ha investito il globo negli ultimi anni e che in Europa ha assunto proporzioni socialmente preoccupanti. Non solo: ci premeva anche analizzare l’impatto delle dinamiche della crisi sulla composizione sociale del lavoro e sui meccanismi di soggettivazione, cercando di allargare lo sguardo anche a realtà extra-europee, con particolare riferimento al Brasile e alla Cina.
Il convegno ha inteso fare il punto sulla situazione di crisi a sette anni dal suo inizio. La riflessione faceva tesoro, per i temi, i contenuti e la metodologia utilizzata, dei due convegni organizzati dal collettivo UniNomade a cavallo del 2008-09. Il primo, svoltosi a Bologna il 12 e 13 settembre 2008 (proprio due giorni prima del fallimento della Lehman Brother, quasi a prefigurarlo), il secondo, svoltosi a Roma, il 31 gennaio e 1 febbraio del 2009. Molti relatori di Milano erano presenti anche in quelle passate occasioni.
Le relazioni che presentiamo sono assai diverse per taglio di analisi e scrittura. Essendo state riviste dagli autori, dopo la sbobinatura iniziale, alcune hanno assunto la forma di un vero e proprio saggio analitico, altre hanno mantenuto invece la forma della comunicazione. Per questa e per altre caratteristiche il convegno, e conseguentemente questo libro, sono caratterizzati da contenuti estremamente eterogenei; riteniamo tuttavia che si tratti di una ricchezza, che abbiamo anche cercato, con l'obiettivo di mettere a confronto esperienze, lotte, punti di vista teorici differenti tra loro.
Nella prima giornata si è fatto un primo bilancio dei sette anni di crisi, cercando di definire le differenti traiettorie che hanno innervato i diversi territori del globo. Se c’è un effetto che la più grave crisi economica dell’ultimo secolo ha infatti evidenziato è l’esistenza di una struttura multicentrica, non assimilabile ad un processo capitalistico di valorizzazione omogeneo e unicamente definito. La valorizzazione capitalistica è diventata flessibile ma, allo stesso tempo, ha confermato il ruolo dei mercati finanziari come centro di comando e indirizzo della stessa valorizzazione.
Gli interventi di Raffaele Sciortino, Andrea Fumagalli, Massimiliano Guareschi, Christian Marazzi, Gabriele Battaglia, Bruno Cava, Orsola Costantini, nella prima giornata, da diversi punti di vista, hanno tracciato una linea d’analisi comune ma allo stesso tempo eterogenea sulla dinamiche geopolitiche internazionali (Sciortino), sulle varie fasi dell’evoluzione della crisi con i diversi effetti sui processi di espropriazione della ricchezza (Fumagalli), sull’evoluzione delparadigma di accumulazione in Cina (Battaglia), sulle contraddizioni e i nodi problematici dell’America Latina a fronte dell’ondata di lotte in Brasile nell’ultimo anno (Cava), sul ruolo biopolitico della gestione della crisi come processo di assoggettamento del lavoro vivo (Guareschi), sulla crescente instabilità dei mercati finanziari sino a poter prefigurare una nuova crisi (Marazzi), sul pervicace quanto stolto perseguimento delle politiche d’austerity in Europa (Costantini).
Si tratta di interventi, valorizzati da un ricco dibattito, che hanno consentito di traghettarci alla seconda giornata del convegno, relativa all’analisi della nuova composizione sociale del lavoro, deformata e resa più complessa dall’incidere della crisi. A consentire questo passaggio, è stato particolarmente utile l’intervento di Carlo Vercellone che ha richiamato e ridefinito, alla luce dell’attualità del pensiero neo-operaista, alcuni concetti chiavi dell’approccio e della metodologia del marxismo eterodosso che negli anni Sessanta aveva dato vita a quel fecondo pensiero che è stato, appunto, l’operaismo italiano.
Gli interventi sono stati realizzati a partire dalle seguenti domande:
1. Risulta confermata dopo 7 anni di crisi che nel mondo occidentale anglo-sassone-europeo, pur con tutte le diversità tra le due sponde dell’Atlantico, la valorizzazione è basata prevalentemente su un processo di espropriazione di una capacità di cooperazione sociale autonoma? Oppure la crisi, intesa come crisi della gestione di tale processo di espropriazione, ha rimesso in gioco processi di sfruttamento più tradizionali, anche come esito dei processi di precarizzazione e di governance del lavoro vivo?
2. Nei paesi Brics, il processo di espropriazione delle risorse naturali ha lasciato il posto a forme di sussunzione reale o anche processi di espropriazione dell’immateriale? Più in generale, l’accumulazione per espropriazione riguarda solo i beni pubblici e i beni comuni o ha a che fare con il “comune”? E se riguarda il “Comune” si tratta di espropriazione, sfruttamento o di entrambi?
3. Come si collocano gli Usa nella divisione cognitiva del lavoro? E in quali rapporti con la Cina?
4. La Cina ha avuto un’evoluzione molto rapida verso forme di organizzazione della produzione via via sempre più cognitiva. Contemporaneamente, è stata teatro di un’elevatissima conflittualità operaia. Sono ravvisabili contraddizioni?
5. L’organizzazione dell’impresa multinazionale si è modificata verso forme ibride di management e finanziarizzazione che ne hanno mutato la struttura di comando. È ravvisabile un modello generale di organizzazione di impresa?
6. Nell’eterogeneità dei processi di sussunzioni, come si pone il tema della rappresentanza? È possibile parlare di biosindacalismo, come forma di resistenza alla sussunzione vitale?
7. È ancora valida la seguente affermazione di qualche anno fa?
“È in atto anche una crisi di valorizzazione capitalistica. Nonostante i profondi processi di ristrutturazione organizzativa e tecnologica che hanno allargato la base dell’accumulazione, imponendo – dietro il ricatto del bisogno – la messa a valore della vita, del tempo di vita e della cooperazione sociale umana, la valorizzazione attuale, proprio perché si fonda solo sull’espropriazione esterna della vita e del “comune” umano senza essere in grado di organizzarli, non si trasforma in crescita di plusvalore. Il processo di finanziarizzazione ha sì consentito una poderosa “accumulazione originaria” ma non è stato in grado di tradursi in valorizzazione diretta e reale. È questa la contraddizione centrale che sta alla base della crisi attuale”[1]. (www.uninomade.org/bilancio-di-fine-anno-crisi-permanente/- gennaio 2013)
8. I movimenti europei sembrano soffrire pesantemente non solo della crisi economica ma paradossalmente proprio della assenza di solidi assetti politici istituzionali. Diciamola meglio: se il mercato ha preso il posto dello Stato, ovvero se lo Stato si è ridotto a essere portavoce del mercato, aumenta la difficoltà a individuare una reale controparte. Chi è il nostro nemico? E ancora: come ci poniamo, di fonte a esso? Quali strumenti adeguati agitare e agire? Non è materia di poco conto nel momento in cui siamo tutti consapevoli, di per sé, della fragilità delle forme delle coalizione e della riposta comune che, faticando a trovare un vero perno al proprio interno, sbandano.
Quando quindi parliamo di “crisi e nuove forme di valorizzazione economica” intendiamo discutere dei processi di soggettivazione del lavoro e dei processi di interdipendenza e compenetrazione tra i vari tipi di espropriazione e sfruttamento.
E su questi punti ci siamo soffermati nella seconda giornata di discussione.

Il rompicapo della composizione di classe
La crisi è giunta oramai al suo settimo anno e il suo approfondirsi ha lasciato dietro di sé un corpo sociale in larghe fasce devastato. La lettura della composizione di classe, già assai complessa durante la restaurazione neoliberista dei decenni precedenti, si è ulteriormente aggrovigliata. Dentro la crisi, a partire dalla sponda sud del Mediterraneo, si è anche aperto un ciclo di lotte globali e insurrezioni locali, che ha attraversato il “vecchio mare” per espandersi dalla Spagna alla Grecia, deflagrare nel ventre della bestia a Wall Street, esplodere nel cuore dei Brics (in Brasile) e in altri paesi “dal PIL galoppante” come la Turchia. Quando le lotte sono declinate hanno lasciato dietro di loro eredità diverse, come accade ad ogni ciclo di movimento e persino a ogni insurrezione (tali sono state quelle tunisina ed egiziana). Cosa hanno esattamente sedimentato, in termini di soggettività e infrastrutture di movimento, resta una questione aperta, a cui talora non si presta sufficiente attenzione: uno sguardo rivolto solo all’evento, infatti, trascura quello che c’è prima e quello che viene dopo, genealogie e accumuli. Il dato sicuro è che una composizione simile a quella in varie forme insorta sulle due sponde del Mediterraneo non si è sollevata in Italia. Non sono mancate le lotte (da quella della logistica a quella dell’abitare, analizzate o accennate in questo volume); tuttavia, queste lotte hanno faticato a generalizzarsi e creare connessioni, incontrando limiti e problemi di cui è utile discutere collettivamente. Inutile dire come nella crisi non manchino affatto rabbia e ragioni “oggettive” per il conflitto: il punto è capire perché abbiano spesso imboccato la forma della disperazione individuale o di azioni che non riescono a ricomporsi.
Le domande che ci attanagliano partono anche da questo dato, dalle nostre difficoltà e dalle battute d’arresto. Ciò non significa tracciare una lettura incentrata sull’Italia, al contrario abbiamo voluto confrontare i limiti delle lotte che attraversiamo con l’analisi di quelle che accadono in diversi luoghi del mondo e, contemporaneamente, comprendere le ragioni strutturali di tali limiti per cercare la strada giusta da intraprendere per sfidarli e superarli. Per fare ciò, questa è una delle ipotesi del seminario, riteniamo necessario riprendere in mano proprio il concetto di composizione di classe.
Ben prima che la crisi avesse inizio abbiamo detto e ripetuto che il rapporto tra composizione tecnica e composizione politica non si poteva più porre negli stessi termini in cui era stato forgiato nella conricerca e nell’intervento militante dentro e contro la fabbrica taylorista e la società fordista. Il punto, però, non è limitarsi a ripetere questa verità diventata ovvia, ma comprendere come si può oggi reimmaginare e reinterpretare il rapporto tra articolazione capitalistica della forza lavoro, nella sua relazione con le macchine, e processi di soggettivazione. Per farlo, è necessario fare tesoro delle ipotesi e degli sviluppi teorici compiuti nella lunga e irrisolta transizione “postfordista”, assumendone però al contempo i punti di blocco e i giri a vuoto. Gli arnesi concettuali, infatti, non si costruiscono mai una volta per sempre: da buoni materialisti, sappiamo che vanno continuamente modificati, adattati o cambiati dentro le trasformazioni dei processi storici e del conflitto. In questi anni, nelle pratiche teoriche sperimentate dentro le lotte e nell’inchiesta militante, abbiamo potuto registrare avanzamenti conquistati e necessità di verifica del discorso politico: l’assorbimento nel lavoro vivo – insieme alle macchine – della sofferenza e del comando capitalistico; una parziale autonomia della cooperazione che funziona più per l’accumulazione che per le lotte; una composizione tecnica che fatica a diventare politica, ovvero la diventa soprattutto nei termini della soggettivazione operata dal potere. Il tema della composizione politica indica infatti un campo di tensione e battaglia, al cui interno la soggettivazione capitalista può confliggere con la soggettivazione autonoma. Al contempo sappiamo che la composizione tecnica è impregnata di lotte, cosa che ci ha sempre portato a guardare le nuove forme del lavoro senza le nostalgie per il passato tipiche della cultura sindacale e di sinistra.
Per riprendere in mano questi fili interrotti o aggrovigliati, nelle premesse del seminario abbiamo aperto delle possibili piste di ricerca, che abbiamo cominciato ad affrontare nella discussione collettiva. Per esempio il concetto di sussunzione, nel suo classico rapporto tra reale e formale, va oggi probabilmente rivisitato, per qualcuno addirittura riformulato, alla luce delle nuove forme del lavoro e di organizzazione della valorizzazione capitalistica. Mettendo in discussione una contrapposizione tra un’idea puramente “estrattivista” del capitale e un’immagine basata sulla sostanziale continuità dell’impresa tayloristica, abbiamo poi posto il problema di indagare a fondo le modalità e le variazioni dell’articolazione tra sfruttamento ed espropriazione. Su questi e altri aspetti, dalla discussione seminariale emergono punti di vista che interloquiscono con posizioni differenziate, all’interno però di una cornice e di un’urgenza comune: la necessità cioè che tale dibattito non rimanga vittima di una sorta di disputa “teologica” dal sapore conciliare, per aprirsi invece alla materialità dei processi in cui siamo immersi.
La crisi ha indubbiamente tolto alcune armi alle mani della macchina di creazione del consenso del capitale, come per esempio l’evidenza della crescita perpetua e le promesse realizzate negli anni dello sviluppo economico foraggiato dal debito. Allo stesso tempo, tuttavia, il peggioramento delle condizioni materiali si traduce in un più ampio margine di ricatto sul lavoro vivo, mentre le aspettative decrescenti possono dare vita a una diffusa rassegnazione. Proprio la possibilità di ricatto che accompagna il peggioramento generalizzato delle condizioni di vita tende a rompere i legami sociali e contribuisce alla segmentazione della classe, costituendo una delle più potenti armi in mano ai nostri nemici. È questo, in fondo, quello che possiamo definire uno degli usi capitalistici della crisi. Ecco alcuni dei problemi cui ci troviamo di fronte nei tentativi, per esempio, di organizzazione dei lavoratori cognitivi, perché all’individuazione della loro centralità nelle gerarchie dell’accumulazione, non corrisponde in termini automatici la loro centralità nelle lotte. Proprio su questi segmenti della composizione del lavoro hanno operato con più forza dispositivi di individualizzazione, segmentazione e disciplinarizzazione capaci di far funzionare la loro parziale autonomia tecnica per e non contro il capitale. Non possiamo poi trascurare i cambiamenti e l’ulteriore stratificazione che hanno allungato e diviso il lavoro cognitivo, composto di “net slave” così come di nuovi pionieri che propongono e impongono un nuovo spirito del capitalismo. Sotto lo stesso tetto “cognitivo” troviamo soggetti con un certo grado di autonomia (ancorché spesso precari) insieme a un vasto strato inferiore di lavoro relativamente standardizzato o in via di standardizzazione; un nucleo di super-creativi o soggetti in posizione di potere che hanno anche formidabili possibilità di nuocere al sistema, come nel caso dei wisteblower, ma sono per la stragrande maggioranza completamente coinvolti e soggettivati innanzitutto dal capitale. Arrivati a questo punto della crisi, inoltre, a fronte di generalizzate dinamiche di declassamento e impoverimento, le passioni del lavoro cognitivo sono innanzitutto quelle tristi e dell’oppressione, che talora sfociano in vere e proprie patologie e sofferenze psichiche. Passioni di cui disfarsi più che riappropriarsi. Dobbiamo allora comprendere come agire la tensione che si cela dietro all’utilizzo capitalistico di alcune caratteristiche del lavoro cognitivo che contengono un certo potenziale di antagonismo e autonomia, il quale sembra essere ben neutralizzato dai processi meritocratici, illusionistici o ricattatori di creazione del consenso da parte del capitale. Anche a proposito dell’autovalorizzazione, il prefisso “auto” è pregno di ambivalenza, dentro il rapporto storicamente determinato tra retorica neoliberale e indipendenza della cooperazione, tra individualismo e comune. Dobbiamo collocarci all’interno di questa ambivalenza, scioglierla dentro la formazione di autonomia, combinare rottura e processo costituente.
Di recente Christian Marazzi ha sottolineato come uno dei tratti del ciclo di lotte nella crisi che ha in occupy uno dei propri simboli sia la rivendicazione di una nuova stanzialità contro i flussi deterritorilizzanti del capitale, ossia il “ritorno di un rapporto dialettico antagonistico tra spazio conquistato e despazializzazione. Ciò significa che conquistare, occupare e quindi costituire degli spazi laddove tutto congiura contro lo spazio, è un presupposto importante per ragionare nel senso della ricomposizione”. Ricomposizione, appunto: ecco un concetto da rileggere alla luce della potenza espressa dalle piazze “riterritorializzate” (Tahrir, Zuccotti, Puerta del Sol), ma anche dalla fragilità dei processi costituenti che hanno innescato. Per noi ricomposizione non è, e storicamente non è mai stata, sinonimo di omogeneità e reductio ad unum: significa invece la costruzione di una linea di forza che contiene, compatta, riassume e libera molte linee di forza, capace di determinare direzione. Dire ricomposizione significa porre il problema della rottura, in quanto la ricomposizione attorno alla produzione del comune, come risultante dei processi di autovalorizzazione autonoma spacca la ricomposizione operata dal capitale attorno alla propria valorizzazione e riproduzione. È questa la strada necessaria per distruggere i progetti di riterritorializzazione fascista, ponendosi all’altezza dello scontro con l’“austeritarismo” delle istituzioni europee, a cominciare dalla BCE. Al contempo agire nel territorio, nella metropoli come fabbrica delle relazioni, è un altro processo in cui mettere a verifica la possibilità di connettere lotte portate avanti da figure molto diverse. Anche in questo caso la crescente disponibilità a lottare, conquistando l’accesso a bisogni sociali fondamentali come la casa oppure rifiutando le nuove schiavitù sul lavoro, porta con sé molte sfide problematiche. Soltanto per citarne alcune, maggiormente sviluppate all’interno del volume, ci sono la necessità di produrre solidarietà (cosa non facile quando peggiorano le condizioni materiali) per connettere materialmente soggetti differenti, il rischio dello scatenarsi di guerre tra poveri, la vulnerabilità determinata dall’isolamento, nel quadro di una tessuto sociale allarmato, scoraggiato e dunque egoista.
In questo groviglio di nodi irrisolti obiettivo del seminario non era scioglierli, ma cominciare a metterli in fila e porre ordine tra le domande, poggiandole su solide piste e basi di analisi. Questa griglia di questioni deve ovviamente essere messa a verifica e implementata dall’inchiesta militante e dall’intervento politico. Tuttavia, crediamo che aver indicato questo obiettivo sia già un passo importante dal punto di vista del metodo. Nel porre l’accento sui problemi delle categorie da noi elaborate, sui loro giri a vuoto e limiti, abbiamo evitato di sostenere e ribadire le buone ragioni che hanno portato alla loro elaborazione, alcune delle quali crediamo che permangano ai colpi della crisi e alla mutazione dei contesti “oggettivi” e soggettivi. Lo abbiamo fatto perché dal nostro punto di vista dei concetti per noi sono arnesi per intervenire nel reale, per forzarlo, romperlo e trasformarlo. Per costruire soggettività, percorsi e prospettive rivoluzionarie.