di Franco Berardi Bifo
Nello scacchiere del
mondo islamico si combattono diverse guerre, e nessuna di queste ha molto a che
fare con la democrazia, questo feticcio che, svuotato di contenuto e di
efficacia in Occidente, viene pubblicizzato con insistenza come un prodotto di
scarto che gli occidentali sperano di rifilare a chi non l’ha mai visto
Verso la fine degli anni Novanta, a
un giornalista che gli chiedeva se non fosse stato un errore armare gli
islamisti afghani, Zbigniew Brzezinski, consulente della Presidenza Carter, rispondeva,
con l’arroganza di chi ha non capito l’essenziale: «Cos’è più importante nella storia del mondo? I Talebani o il collasso
dell’impero sovietico? Qualche esaltato musulmano o la liberazione dell’Europa
centrale e la fine della guerra fredda?» Adesso sappiamo che la fine della
guerra fredda non ha aperto un’epoca di armonia universale con qualche
marginale disturbatore esaltato, ma ha inaugurato un’epoca di aggressività
identitaria e di follia suicida. Il suicidio non faceva parte dell’armamentario
dei sovietici, mentre è un elemento essenziale dell’islamismo contemporaneo.
Perciò la guerra che Bush dichiarò infinita ha caratteri di asimmetria e
d’imprevedibilità che non si possono ricondurre ad alcun pensiero strategico.
L’illuminismo protestante che sta a fondamento dell’episteme strategica
americana è incapace di interpretare i segni della cultura islamica, e la
nozione formale di democrazia è inadatta per interpretare l’evoluzione attuale
della guerra che si va diffondendo nel continente euroasiatico. Nessuna potenza
militare pare in grado di ridurre la violenza contemporanea perché questa
sfugge alle categorie della politica.
«La
disperazione non è una categoria della scienza politica ma il movimento
islamista non è pensabile se non lo si comprende come testimonianza di
disperazione delle masse» scrive Fethi Benslama, nel suo libro La psychanalyse face à l’Islam, un’indagine
sulle origini psicoanalitiche dell’infelicità congenita alla cultura degli
arabi, discendenti di Agar, la madre ripudiata e rimossa nella memoria dei suoi
figli. L’islamismo contemporaneo è una sfida al razionalismo della politica
moderna e della democrazia: interpretare quel che accade tra Kabul a Bengasi
con la terminologia della democrazia e dell’illuminismo protestante è un modo
per andare incontro alla sconfitta.
Nello scacchiere del mondo islamico
si combattono diverse guerre, e nessuna di queste ha molto a che fare con la
democrazia, questo feticcio che, svuotato di contenuto e di efficacia in
Occidente, viene pubblicizzato con insistenza come un prodotto di scarto che
gli occidentali sperano di rifilare a chi non l’ha mai visto.
Sullo sfondo, naturalmente, la guerra
che Israele non può vincere. Ma quella guerra promessa per un futuro
in(de)finito è il premio per il vincitore delle guerre che intanto si
combattono. Anzitutto la guerra religiosa che oppone Islam sciita e Islam
sunnita. Il disegno strategico dell’emirato sunnita che appariva una follia
quando Osama Bin Laden lo dichiarò all’inizio del secolo, è oggi in piena
sanguinosa realizzazione. Intere zone dell’Asia centrale sono militarmente
governate dalla logica dell’Emirato: da Falluja ad Aleppo l’emirato sunnita è
forza dominante, come nell’area che copre larga parte del territorio afghano ed
intere regioni pachistane. La guerra civile siriana è ormai soltanto una guerra
per il predominio sunnita, cui la minoranza alawita oppone una resistenza
insormontabile.
Vi è poi la guerra sociale: la
ricchezza è concentrata nelle mani dei padroni del petrolio (integrati al ciclo
della finanza globale), e la miseria di massa che ne consegue alimenta in paesi
come l’Egitto o come il Pakistan una conflittualità disperata perché incapace
di aggredire il nodo essenziale della distribuzione della ricchezza e delle
risorse. Democrazia non significherà niente fin quando la proprietà del
petrolio, principale risorsa dell’area, rimarrà nelle mani di una minoranza
culturalmente retriva e finanziariamente globalizzata. La rivoluzione egiziana
del 2011 è stata preparata da un quinquennio di lotte operaie intense e vaste,
ma dopo la rivoluzione del 2011 le condizioni di vita degli operai sono
peggiorate e l’economia egiziana non dà segni di ripresa. Le rivolte arabe non
cambieranno la realtà di quell’area fin quando non aggrediranno il forziere
saudita.
Vi è infine la guerra culturale che
il lavoro cognitivo cosmopolita conduce contro l’autoritarismo politico e
contro l’oscurantismo religioso. Milioni di studenti, di lavoratori della rete
globale, di blogger giornalisti e artisti hanno messo in contatto la dimensione
culturale della rete con la strada provocando un cortocircuito che ha rimesso
tutto in movimento. Ma questo terzo fronte è per il momento minoritario, e
scatena processi che non è in grado di governare. A Tunisi come al Cairo come a
Istanbul come a Damasco i movimenti sono iniziati da lavoratori precari ad alto
grado di scolarizzazione e di integrazione nel lavoro cognitivo globale. Ma
questi movimenti sono stati utilizzati ed emarginati dalle forze islamiste,
oppure repressi dall’islamismo al governo, come nel caso della Turchia, dove
l’esercito è, almeno per il momento, integrato e sottomesso al neoliberismo
islamista di Erdogan. Questi movimenti continueranno a produrre rivolte che
rimarranno subalterne sul piano politico, ma serviranno per consolidare ed
estendere l’autonomia di una parte crescente della nuova generazione
dall’oscurantismo e religioso e dalla violenza militare.
Ero al Cairo in aprile, quando è
uscito in alcune sale della città il film di Ibrahim El Batout, El sheita elli fat (Winter of discontent),
presentato a Venezia l’anno scorso. Sono andato a vederlo con gruppo di amici
che lavorano nel mondo dell’arte e che viaggiano molto spesso nei paesi
occidentali. Il film non è piaciuto a nessuno. Tutti lo trovavano ipocrita
perché presentava la rivoluzione come l’inizio di un tempo nuovo in cui
finalmente il popolo egiziano potrà prendere in mano il suo destino nella
libertà.
I miei amici avevano tutti
partecipato alle rivolte dell’inverno 2011 come attivisti, giornalisti o come
media-artisti, ma nessuno di loro sembrava attendersi un mutamento positivo né
(certamente) dal governo islamo-liberista della Fratellanza islamica, né da
alcun altro rivolgimento possibile nel prossimo futuro.
Ciò mi ha fatto riflettere su questa
generazione che si ribella con forza e radicalità senza nutrire alcuna
speranza, senza attendersi alcun miglioramento. Come se la rivolta fosse, in
sé, la sospensione temporanea di una condizione intollerabile – e il momento di
riconoscimento di tutti coloro (e il numero cresce) che non vogliono più
condividere nulla, credere in nulla, né partecipare a nulla. Solo vivere,
inventando un altro mondo, non importa quanto impossibile.