venerdì 19 luglio 2013

La rivoluzione da Mosca a Cambridge

di Emiliano Brancaccio

facendo seguito alla sintesi del contributo sul pensiero di Paul Mattick, la cui critica - da sinistra-  ha tra i suoi principali bersagli il paradigma keynesiano, abbiamo ritenuto opportuno proporre un estratto dell’Introduzione alla ristampa del volume (originale del 1931)  “Esortazioni e profezie” (Il Saggiatore, Milano 2011) di John Maynard Keynes. Brancaccio evidenzia come, dopo il fallimento di Lehman Brothers (ottobre 2008) che segnò l’inizio della c.d. “Grande Recessione”, il nome di Keynes «è tornato improvvisamente a risuonare nei dibattiti di politica economica. Si tratta, beninteso, di una evocazione ancora spettrale, che per adesso incide solo in termini marginali e confusi sulle azioni pratiche delle autorità monetarie e di bilancio. Ma già il solo fatto che Keynes venga nuovamente menzionato nell’agorà politica appare a molti un segnale minaccioso, un potenziale incentivo all’eversione del precario ordine finanziario costituito»

(…) Esortazioni e profezie è un titolo estremamente indovinato. Lo stesso Keynes, nella prefazione, arriva a definirsi «una Cassandra che non è mai riuscita a influire in tempo sul corso degli eventi», e rivela che avrebbe egli stesso desiderato porre in luce, fin dal titolo, le virtù premonitrici del suo libro. Questa declamata preveggenza non può in effetti dirsi esagerata. Essa trova riscontri in numerosi passi del volume e raggiunge forse il suo apice in un brano inquietante, dedicato alle conseguenze del Trattato di pace del 1919. Keynes è certo che la Germania non sia materialmente in grado di provvedere al pagamento delle riparazioni e dei debiti di guerra imposti dai paesi vincitori. Per questo motivo decide di lasciare l’incarico di rappresentante britannico alla Conferenza di pace, e lancia un avvertimento: «Se diamo per scontata la convinzione che […] per anni e anni la Germania debba esser tenuta in miseria, i suoi figli rimanere nella fame e nell’indigenza, il paese circondato da nemici […] Se noi mirassimo deliberatamente alla umiliazione dell’Europa centrale, oso farmi profeta, la vendetta non tarderebbe». Nell’irrealtà delle decisioni della Conferenza, mentre tutti partecipano alla messinscena di un trattato insostenibile, Keynes dunque intravede già l’ombra di Hitler, l’incendio del Reichstag, l’abisso disumano del secondo conflitto mondiale. In questa tragica consapevolezza egli tuttavia è solo, impotente, e il suo allarme cade nel vuoto.
Molte altre volte Keynes vestirà i panni della Cassandra inascoltata. Col tempo tuttavia imparerà a diluire le sue istanze ideali in un materialismo intuitivo, sempre più smaliziato. Egli prenderà coscienza del fatto che le battaglie si vincono in primo luogo grazie «all’incontenibile pressione degli eventi», e solo in seconda istanza per «il lento decadere dei vecchi pregiudizi». I suoi scritti rivelano, in questo senso, il tentativo sempre più raffinato di situarsi sul crinale del processo storico, di cogliere in anticipo le congiunture, i punti di rottura, di intervenire nel modo e nel momento giusto per cercare di piegare il corso degli eventi nella direzione dei lumi piuttosto che del buio. Che per Keynes essenzialmente significava riformare il capitalismo, liberandolo dalla opprimente e desueta ideologia del laissez-faire.
È forse proprio a causa di questa ambizione, eminentemente politica, che gli stessi scritti teorici di Keynes risultano mutevoli, talvolta sfuggenti. L’urgenza politica di persuadere sembra cioè costringere anche il teorico in un limbo perenne, tra conservazione e rivoluzione concettuale. I saggi contenuti in questo volume appaiono in tal senso emblematici...Il principio della domanda effettiva e la connessa eresia della disoccupazione di equilibrio, contenuti nella Teoria generale del 1936, sono però ancora di là da venire. Ciò nonostante si può già trovare, in queste pagine, una descrizione dei tipici paradossi del risparmio e quindi anche una critica cristallina ai dogmi indiscussi della austerità: «Vi sono oggi molti benpensanti, animati da amor di patria, i quali ritengono che la cosa più utile [..] sia risparmiare più del solito. Costoro [..] ritengono che la giusta politica in un momento come questo consista nell’opporsi all’allargamento della spesa per lavori pubblici [..]. Ma quando vi è già una forte eccedenza di manodopera [..] il risultato del risparmio è soltanto quello di aumentare questa eccedenza [..] Inoltre, quando un individuo è escluso dal lavoro [..] la sua ridotta capacità di acquisto determina ulteriore disoccupazione [..] La valutazione migliore che posso formulare è che quando si risparmiano cinque scellini, si lascia senza lavoro un uomo per una giornata». Ineccepibile eppure eversivo, forse ora ancor più di allora. Perché negare che il risparmio si tramuti interamente in investimento significa di fatto evidenziare una gigantesca contraddizione insita nel capitalismo individualistico governato dalla finanza privata. Un capitalismo che proprio sulla separazione tra risparmio e investimento vive e prospera, ma a quanto pare su di essa rischia pure di implodere. Inoltre, letta da un’altra angolazione, la critica dell’austerità pone in luce un problema di coordinamento del mercato che sotto date condizioni può rivelarsi fatale: «i singoli produttori ripongono qualche speranza illusoria su iniziative che, intraprese da un singolo, lo avvantaggerebbero, ma che non giovano a nessuno nel momento in cui diventano condotta generale [..] se un determinato produttore, o un determinato paese, taglia i salari, si assicurerà così una quota maggiore del commercio internazionale fino al momento in cui gli altri produttori o gli altri paesi non facciano altrettanto; ma se tutti tagliano i salari, il potere d’acquisto complessivo della comunità si riduce tanto quanto si sono ridotti i costi». Per giunta, la spirale deflazionista così attivata potrebbe determinare una crescita del valore reale dei debiti in grado di scatenare insolvenze e fallimenti. Se poi la caduta dei salari, dei prezzi e dei redditi oltrepassa un certo limite, anche le banche potranno esser trascinate nel precipizio. È  questo un pericolo che i banchieri negheranno fino all’ultimo, essendo connaturato al loro mestiere «salvare le apparenze». Ma la realtà è che una reiterata competizione al ribasso potrà determinare tali e tante bancarotte da scuotere le fondamenta stesse dell’ordinamento capitalista, «creando terreno fertile per agitazioni, sedizioni, rivoluzioni». Recentissimo del resto era il successo dei bolscevichi in Russia, e il borghese Keynes non perdeva occasione di ricordarlo agli apologeti dell’ortodossia, quei «vecchi signori rigidamente abbottonati nelle loro finanziere».
(...) Di tracce della eversione keynesiana il lettore ne troverà dunque molte, in queste pagine. Anche quando il nostro avanza la proposta massimamente conservatrice, nonché tardiva, di tenere la Gran Bretagna dentro la gabbia del gold standard pur di ricandidarla alla leadership del sistema monetario internazionale, il criterio suggerito risulta scandalosamente eterodosso: «l’introduzione di un forte dazio straordinario» all’importazione di merci, al fine di rendere la rigida difesa del cambio compatibile con una politica di espansione dell’occupazione. Una evidente provocazione per gli acritici fautori del liberoscambismo, ieri come oggi numerosi tra le alte schiere e persino tra gli eredi del movimento operaio. Una indicazione tuttavia ancora una volta difficilmente contestabile sul piano della logica, e che fornisce pure qualche utile spunto di riflessione per l’oggi, in una Unione monetaria europea afflitta da un assetto istituzionale autocontraddittorio e forse insostenibile.

Verrebbe a questo punto lecito chiedersi se questa perenne determinazione illuminista a sfidare il pregiudizio costituisse in ultima istanza un tratto irriducibile della personalità profonda di Keynes, una sorta di compulsione bene indirizzata.
(…) Sarebbe tuttavia un errore ridurre il “caso Keynes” a mera eccezione individuale. La modernità di Esortazioni e profezie non è la semplice risultante di una personalità fuori dal comune. Il vero motivo per cui, a distanza di ottant’anni dalla pubblicazione, questo libro arriva ancora oggi a sorprenderci, è che esso venne scritto nel corso di uno straordinario momento dialettico nella storia dell’umanità. La nascita dell’Unione sovietica da un lato e la crisi delle potenze capitalistiche dall’altro permisero a Keynes di osare quel che nel recinto del potere borghese era stato fino ad allora considerato inosabile. Non va dimenticata, a questo riguardo, la previsione contenuta in Prospettive economiche per i nostri nipoti, forse una delle più ardite in tutta l’opera keynesiana: in un futuro non lontano «l’amore per il denaro come possesso, e distinto dall’amore per il denaro come mezzo per godere dei piaceri della vita, sarà riconosciuto per quello che è: una passione morbosa, un po’ ripugnante, una di quelle propensioni a metà criminali e a metà patologiche che di solito si consegnano con un brivido allo specialista di malattie mentali». Ebbene, proprio nell’avventura sovietica Keynes non nasconderà di intravedere una occasione di sperimentazione, di accelerazione del tempo … L’uomo di Cambridge dovette insomma rendersi conto che quel che avveniva a Mosca rappresentava il pungolo necessario per scuotere il mondo borghese, per aprire una vera dialettica. Lo scopo era di render concreta anziché utopica la diversa “rivoluzione” che egli aveva in mente per l’Occidente capitalistico, della quale avrebbe poi nella Teoria generale delineato con maggior precisione i contorni: in estrema sintesi, una politica monetaria e di bilancio centrata sulla socializzazione di una certa ampiezza dell’investimento, al fine di determinare sviluppo economico in condizioni di piena occupazione, una distribuzione più equa delle ricchezze ed anche la definitiva eutanasia del rentier.
Keynes fu dunque figlio di un’epoca straordinaria, durante la quale lo scontro fra capitalismo e socialismo raggiunse livelli di massima tensione. Il suo intelletto venne chiaramente forgiato dalla disputa tra i due sistemi, le sue idee furono modellate su di essa, e il suo successo dipese anche dal fatto che egli riuscì perennemente a situarsi nel mezzo di quella colossale controversia. Non tutti i biografi rimarcano questo aspetto, eppure esso risulta decisivo e suscita pure alcuni fondamentali interrogativi per il tempo presente. In un’epoca in cui la minaccia di un Grande Altro sembra poco avvertita, viene infatti da chiedersi se possa davvero crearsi uno spazio politico per l’eresia keynesiana o ci si debba invece accontentare di un Keynes sempre più depotenziato, ridotto all’osso di una flebile politica di attenuazione del ciclo economico. Ad avviso di chi scrive, è proprio l’apparente mancanza di un’alternativa di sistema che impone oggi di rileggere Keynes esaltando gli aspetti più innovativi del suo pensiero. In particolare, vi è motivo di ritenere che l’unico modo per impiegare efficacemente Keynes nella dialettica delle idee sia di portare alle estreme conseguenze la sua critica del laissez-faire attraverso un rinnovato approfondimento del rapporto fra la dottrina keynesiana e la pianificazione statale. Keynes riteneva, a questo riguardo, che la socializzazione dell’investimento atta a garantire la piena occupazione potesse avvenire senza necessariamente intaccare la proprietà e il controllo privato dei mezzi di produzione. Ma accennò pure alla esigenza di pianificare nel campo dei trasporti, dell’urbanistica, della conservazione dell’ambiente naturale, in tutti i settori in cui il singolo individuo non sarebbe in grado di raccogliere i benefici della sua attività, e persino in materia di localizzazione territoriale dell’industria. Molti hanno giustamente sottolineato le ambiguità e le contraddizioni insite in questa posizione. Si tratta però di contraddizioni feconde, che la crisi in atto impone di riesaminare e sviluppare. Potremmo dire, in questo senso, che una lettura di Keynes al tempo stesso più fedele e più innovativa rispetto alla vulgata, consentirebbe di estrarre dal suo pensiero l’idea che lo Stato non dovrebbe più relegarsi nella mera e abusata funzione di ancella dei mercati finanziari e prestatore di ultima istanza per il capitale privato, ma dovrebbe piuttosto diventare un creatore di prima istanza di nuova e stabile occupazione. Di prima istanza, si badi, è cioè non per fini di mera assistenza, ma in primo luogo per la produzione di quei beni collettivi che dovrebbero considerarsi fondamentali per il progresso civile dell’umanità e che sfuggono alla ristretta logica dell’impresa capitalistica privata. In un futuro non lontano questa idea tuttora scabrosa potrebbe costituire il vero discrimine tra una prospettiva di benessere materiale condiviso e un nuovo tracollo economico mondiale. Che tuttavia essa riesca o meno ad affermarsi politicamente è questione indeterminata, che atterrà alla dinamica ventura dei rapporti sociali di riproduzione delle merci, delle vite e delle idee.

per la lettura integrale della Introduzione dell’autore clicca www.emilianobrancaccio.it