di
Redazione Kainos
i
flussi finanziari dei derivati hanno permesso enormi profitti ad una élite
ristretta ma hanno avuto effetti deleteri per i ceti medio-bassi della
popolazione occidentale una volta tutelati dal welfare-state: la produzione
della ricchezza appare del tutto separata dalle condizioni sociali e materiali
dei lavoratori, mentre i saperi appaiono frammentati al punto da togliere ogni
capacità critica ai soggetti chiamati a produrre beni e servizi. La
contemporanea affermazione del capitalismo finanziario-virtuale del gioco
borsistico ( o “della scommessa”) e delle nuove forme precarizzate del lavoro
cognitivo-progettuale è il tema su cui si snodano le pagine del numero 13 della rivista Kainos
A
partire dagli anni Novanta dello scorso secolo, le forme del lavoro si sono
profondamente trasformate, non solo in virtù del crollo dell’economia
pianificata del blocco sovietico – evento che ha portato il mercato ad una fase
di definitiva mondializzazione e di potenziale saturazione –, ma anche e
soprattutto in ragione dell’impetuoso sviluppo dell’informatica che lo stesso
mercato aveva favorito (si pensi al fenomeno della Sylicon Valley in
California): per usare i termini di Marx, i vecchi rapporti di produzione sono
stati polverizzati da un accelerato processo di innovazione tecnologica, che,
insieme al ricorso alla robotizzazione, ha enormemente ridotto la necessità di
manodopera. Un intero modello di organizzazione sociale, che aveva il suo
centro propulsore nella fabbrica fordista, è entrato in crisi irreversibile,
mentre il mercato ha cominciato a presentare una nuova divaricazione, quella
che intercorre tra le grandi fabbriche ormai de-localizzate (dunque ormai
incapaci di creare legami sociali sul territorio: si pensi al declino delle
città minerarie degli Usa o al fenomeno dell’‘archeologia industriale’) da un
lato e, dall’altro, alla disgregazione atomistica e alla semi-privatizzazione
del lavoro cognitivo-progettuale, che nell’ultimo decennio del secolo appariva
ancora piuttosto concentrato in Europa, negli USA e in Giappone. È in quegli
anni che iniziano ad imporsi e a proliferare nuove forme di lavoro sempre più
“precarizzate” e semi-private, innescate dai suaccennati processi economici e
tecnologici ma, fin dagli anni ottanta, “facilitate” dall’adozione di nuove
“politiche del lavoro” liberiste.
In
quegli stessi anni inoltre, secondo un’inesorabile logica interna, il
capitalismo si va trasformando in senso finanziario, manifestando i prodromi
della sua ulteriore metamorfosi rispetto alla versione “iper-consumistica” del
ventennio Sessanta-Ottanta (il cosiddetto capitalismo della merce).
In
questa nuova fase tuttavia, anche in virtù dell’imperativo della crescita,
l’obbligo sociale di consumo (soprattutto di consumo digitale: è il boom
dell’high-tech) diventa addirittura coattivo nei paesi orientali, dove
funzionano forme ibride di capitalismo (ad esempio in Cina), e resta ancora
fortemente operante nell’assetto psicosociale della popolazione occidentale,
dove invece l’offerta fantasmagorica di merci – che Marx avrebbe classicamente
definito ‘sovrapproduzione’ – si accompagna ad una tragica contrazione di posti
di lavoro, con una conseguente precarizzazione della vita, dei legami,
dell’identità, che la sociologia (da Sennett a Bauman) non ha mancato di
analizzare con allarme, insieme al cosiddetto scarto tra economia virtuale ed economia
reale. Grazie a una progressiva virtualizzazione della merce, della sua
produzione e dunque dei prodotti del lavoro cognitivo, la rivoluzione digitale
ha modificato sia la percezione della realtà che il ‘sistema dei bisogni’ e le
relative modalità del consumo, mentre sul versante finanziario gli investimenti
di capitale si sono concentrati sempre meno in attività produttive,
indirizzandosi sempre più verso entità puramente virtuali e chimeriche – i
famosi derivati: creati all’interno di una speculazione borsistica
infinitamente potenziata dalla tecnologia informatica, i flussi finanziari dei
derivati hanno permesso enormi profitti ad un’élite ristretta ma, rendendo
sempre più difficile la ri-valorizzazione ‘solida’ dei capitali investiti,
hanno avuto effetti deleteri per i ceti medio-bassi della popolazione
occidentale una volta tutelati dal welfare state.
Considerando
che questo processo si è svolto parallelamente all’intensificazione dello
sfruttamento della manodopera a bassissimo costo nelle aree più povere del
mondo (si pensi al recentissimo crollo del palazzo-fabbirca a Dacca, in
Bangladesh), si potrebbe dire che, all’inizio del XXI secolo, il capitalismo
getta la maschera e diviene ciò che da sempre era, fin dai tempi atroci della
prima rivoluzione industriale, quando nelle fabbriche lavoravano i bambini e le
donne incinte: le sue trasformazioni epocali e le sue crisi convulsive lo
rivelano come una struttura autosufficiente ma acefala e onnivora, priva di
ogni finalità che non sia la crescita infinita; una struttura di governance
meramente tattica, in cui da un lato la produzione della ricchezza, a vantaggio
di pochi, appare del tutto separata dalle condizioni sociali e materiali dei
lavoratori che rendevano o rendono possibile questa stessa produzione, mentre,
dall’altro lato, i saperi appaiono frammentati al punto da togliere ogni
capacità critica ai soggetti chiamati a produrre beni e servizi.
Oltre
ad avere enormi conseguenze sull’assetto psichico di tali soggetti, queste
metamorfosi hanno scosso radicalmente la nozione etico-politica, nonché la
configurazione socio-identitaria del mondo del lavoro, che è divenuto un campo
sociale di subalternità (soprattutto femminile) e un terreno di caccia aperto a
scorrerie di ogni tipo, in cui non bastano più spirito di iniziativa,
spregiudicatezza e calcolo (virtù tradizionali del capitalista), ma è
necessario lanciare audaci sfide al caso, esattamente come si fa quando si
gioca o si scommette. Chi oggi cerca, cambia o perde un lavoro anche
qualificato (‘cognitivo’), finisce perciò col presentare alcuni tratti psichici
quasi macchinali, tipici del giocatore d’azzardo che sfrutta compulsivamente le
sue chances di guadagno ma anche di perdita.
Ebbene,
è proprio la contemporanea affermazione del capitalismo finanziario-virtuale
del gioco borsistico o “della scommessa” – secondo la provocatoria definizione
del sottotitolo – e delle nuove forme precarizzate del lavoro
cognitivo-progettuale, che proponiamo come tema del numero 13 della nostra
rivista.
La
nostra ipotesi di ricerca e di riflessione è che tra queste forme di lavoro
pseudo-autonomo e il “capitalismo della scommessa” non ci sia solo
contemporaneità ma complicità, “sistema” – un sistema nel quale, anche grazie
alla digitalizzazione dei flussi di denaro con cui si ‘gioca’, sta emergendo
una nuova esperienza del tempo non più cumulativa, strategica e vettoriale
bensì puntiforme, tattica, narcisistica e sovreccitata, che a livello sia
collettivo sia individuale (o meglio individualistico) sembra declinarsi nella
forma delle pure, infinite possibilità.
Per
rendere ancora più concreta questa connessione, la nostra attenzione critica
intende volgersi ad alcune pratiche quotidiane delle società occidentali, che
sembrano essersi solidificate già prima della crisi economica ma che oggi
assumono dimensioni addirittura epidemiche: dalla compulsione, ormai
diffusissima in ogni fascia sociale, verso il gioco d’azzardo, all’abitudine di
scommettere su tutto, fino alla fortuna dei “giochi di ruolo” di rete.
Chi
ha una seppur minima conoscenza del mondo (anche linguistico) delle giovani
generazioni sa quanto queste pratiche siano ormai profondamente radicate nella
struttura esperienziale degli adolescenti, e in che misura costituiscano una
dimensione alternativa all’azione socialmente finalizzata o addirittura
all’impegno politico, ma non è facile trovare indagini critiche che le
accostino alle nuove forme a-tipiche del lavoro – forme che potremmo
provvisoriamente definire post-identitarie, se non addirittura postmoderne. Nella
sua crisi ideologica, che in Italia ha ormai raggiunto un punto di non ritorno,
la sinistra non è stata ancora capace di elaborare un’analisi adeguata del
fenomeno, attestandosi sostanzialmente su due posizioni: 1) quella del rifiuto
di tali forme di lavoro considerate semplicemente precarizzanti e poco
dignitose se confrontate alla “dignità” lavorativa degli operai alla catena di
montaggio di una fabbrica fordista (sic); 2) quella della regolamentazione
sindacale debole ed estrinseca di questi processi di trasformazione, che
coincide con una loro accettazione economico-politica ‘di fatto’. Non è un caso
che in quasi tutte le ultime elezioni politiche in Europa, i partiti
tradizionali siano stati incapaci di rappresentare l’universo metamorfico del
lavoro, lasciando che su questi temi si inserissero i nuovi ‘movimenti’ della
rete (“Movimento 5 stelle”, “Piratenpartei”, “Indignados”, per restare in
Europa, ma bisognerebbe allargare il discorso anche agli USA e al movimento
“Occupy Wall Street”). In questi movimenti il rifiuto dei sindacati e dei
partiti politici non è solo una reazione “anti-casta”, ma ha anche una profonda
ragione politica: i sindacati e i partiti sono stati incapaci di comprendere la
radicalità e la profondità delle “derive del lavoro”, attestandosi su evidenti
posizioni di conservazione e di protezione delle figure lavorative
tradizionali, nonché dei loro poteri residui.
Ma
che cosa proteggono, o meglio da cosa si difendono i potentati sindacali e
politici?
La
più recente sociologia del lavoro ha reso ormai chiaro che l’affermazione delle
nuove forme “liquide” e “flessibili” dell’occupazione è stata il segno della
crisi irreversibile del modello sociale fordista (non certo del modello
taylorista dell’organizzazione del lavoro in fabbrica, che col toyotismo ha
subito una metamorfosi aziendalista e cognitivista, e che non sembra affatto
tramontato); ciò ha significato la fine di un modello di organizzazione sociale
caratterizzato dalla “piena occupazione” (tendenziale), dalla produzione seriale,
dal consumo di massa e, per quello che ci interessa, dalla più o meno rigida
partizione tra “tempo di lavoro” e “tempo libero” (da dedicare certo al
consumo, ma anche alla vita di relazione, alla riappropriazione culturale, e,
perché no, alla pura e semplice perdita di tempo...). Nelle nuove forme di
lavoro, invece, questo partage non funziona più: non resta alcuna possibile e
praticabile differenziazione tra tempo libero e lavoro, che sembra aver
completamente perduto i suoi “confini” identitari, simbolici e weberianamente
professionali (beruflich: non a caso alcuni sociologi tedeschi parlano di
Entgrenzung der Arbeit). Ma non si tratta di una liberazione, perché dietro le
apparenze di lavoro “autonomo”, “flessibile” e “competitivo”, esso assume
sempre di più le caratteristiche di “lavoro servile”.
In
secondo luogo, il nuovo lavoro cognitivo appare sempre più sottratto, nella sua
strutturazione temporale puntiforme, al classico primato del “progetto”
(Entwurf) e dell’ad-venire – al futuro come costruzione. Non solo perché tali
forme di lavoro, nel loro essere “a tempo”, hanno un futuro di breve respiro,
ma soprattutto perché il lavoro consiste innanzitutto (a volte esclusivamente)
in una (iper)competizione che, come asseriscono molti sociologi, porta da un
lato a vivere in un presente indefinito (senza futuro), dall’altro è causa di
inattività, frustrazione, rinuncia al lavoro (e, quindi, al futuro).
In
terzo luogo, nell’epoca dei “derivati finanziari” la modalità di retribuzione
dei manager e dei dirigenti, che attraverso il meccanismo delle stock options lega il lavoro al
risultato monetario a breve termine per l’azienda e lo trasforma ipso facto in
prodotti azionari o in obbligazioni, può essere considerata come la nuova
tendenza post-sindacale delle retribuzioni e dei compensi di tutte le nuove
forme flessibili di lavoro.
In
buona sostanza, crediamo che tra le “derive” del lavoro e i “derivati”
finanziari ci sia una profonda complicità, che spaventa il vecchio assetto
sociale del capitalismo, ma sembra strutturare psichicamente e perfino sedurre
i giovani. Bisognerà certo chiarire meglio le relazioni tra le forme di
retribuzione e il capitalismo finanziario della scommessa. Tuttavia, se
riflettiamo sul meccanismo economico e psicologico dei derivati, vi troviamo un
inquietante paradosso (che, attraverso alcune mediazioni, è possibile ritrovare
nelle nuove forme di lavoro tout court): attraverso tale strumento finanziario
il singolo operatore economico può assicurarsi rispetto al rischio di perdita,
scommettendo (anche) sulla propria “perdita”, sulla propria “sconfitta”. Ma le
soggettività che si trovano coinvolte in questo gioco alla perdita assicurata
o, potremmo dire, alla sicura sconfitta, non hanno più le caratteristiche
semi-tragiche dei giocatori d’azzardo descritti nella letteratura
otto-novecentesca. Si tratta piuttosto di soggettività
narcisistico-adolescenziali addestrate ai “giochi di ruolo”, in cui non si
vince mai davvero e non si muore che per finta. Solo che queste stesse
soggettività sono poi costrette a fare i conti con le sconfitte reali,
assolutamente inattese e, quindi, tendenzialmente (auto)distruttive, della
propria esistenza sociale – ed è forse questo potenziale distruttivo che fa
paura ai vecchi potentati del lavoro.
In
altri termini e in estrema sintesi, il lavoro (compreso quello intellettuale,
cognitivo: la cultura) non è più la strada hegeliana del servo che si
“emancipa” attraverso la trasformazione della natura, così come sembra non
costituire più il teatro dell’emancipazione sociale ed economica della donna;
esso sembra essersi ormai trasformato nel gioco dei “padroni” di-midiati o dei
padroncini mediatizzati (si pensi a Mark Zuckerberg), che mettono in conto la
propria morte (di)sperando di guadagnarci, in una specie di corsa post-carrieristica
alla dépense “controllata” divenuta motore del profitto, in un’economia
generale contro la quale le politiche neo-liberiste tentano invano di imporre
le ristrettezze dell’austerity e che le politiche social-democratiche cercano
inutilmente di arginare rimettendo al centro dell’economia il Lavoro come
valore.