di
Marco Iasci
questo contributo di
riflessione accompagna l’intervista a Étienne Balibar (http://www.dinamopress.it/news/etienne-balibar-leuropa-la-democrazia-cittadinanza), curata da Claudia
Bernardi e Luca Cafagna, incontrato in occasione del seminario “Europa,
cittadinanza e democrazia” tenutosi a fine maggio alla Sapienza, nell'ambito del Ciclo di seminari promosso dal Nuovo
Cinema Palazzo in collaborazione con l’Istituto Svizzero di Roma e la Libera
Università Metropolitana (LUM)
Nell’ultimo
periodo, in Italia e non solo, si sta riaprendo un acceso dibattito sul
presidenzialismo come possibile soluzione all’ingovernabilità e
all’impossibilità di riforme derivanti dal blocco politico-istituzionale del
paese. La forza di questo dibattito si basa sulla considerazione di un’anomalia
nella situazione italiana rispetto a quella europea, da un lato per il
radicalizzarsi della crisi del sistema dei partiti, precipitata recentemente
nella fine della cosiddetta “Seconda Repubblica”, dall’altro per il persistere
di una serie di questioni istituzionali mai risolte (corruzione, ruolo di
supplenza politica della magistratura, crisi del sistema di rappresentanza) che
proprio alla Seconda Repubblica hanno valso lo stilema di transizione infinita.
A
fronte di questo dibattito però è importante notare come nel nostro paese, a
seguito della crisi istituzionale del 2011 e alla conseguente espansione dei
poteri del Presidente della Repubblica, un presidenzialismo di fatto si sia già
dato.
Anche
ricollocando la crisi italiana all’interno dell’attuale contesto di crisi
europeo, ci accorgiamo subito che i limiti e i blocchi incontrati dai governi
non dipendono esclusivamente dalla specificità italiana. Ne è un esempio
lampante la situazione francese, in cui la forma di governo semi-presidenziale,
sancita dalla Costituzione, vede il presidente Hollande oscillare tra
impopolarità e sanzione dei mercati, una forbice che ha come conseguenza
principale un blocco del riformismo francese e più in generale una situazione
di immobilità politica. Le trasformazioni delle forme di governo in Europa, a
partire dai governi imposti dalla Troika (in primis in Italia con Monti e in
Grecia con Papademos), rientrano nella categoria schmittiana, di “dittatura
commissaria”, ovvero come l’introduzione di stati d’eccezione nazionali
funzionali ad una gestione neoliberale della crisi del capitalismo. Questa
rivoluzione dall’alto ha sempre più identificato la tecnostruttura, affiancata
da imprese finanziarie e imprese transnazionali, come “un potere forte in grado
di gestire sia il funzionamento politico che il ciclo economico impazzito”.
A
differenza, però, del contesto storico-politico nel quale Schmitt ha collocato
la sua riflessione sulla dittatura commissaria ancora legato allo Stato
sovrano, oggi la riproposizione di forme commissariali del potere politico si
situa in un contesto propriamente post-statuale. In altri termini, possiamo
dire che oggi la dittatura commissaria si confonde con la dittatura sovrana e
assume la natura di un dispositivo costituente, finalizzato al governo delle
popolazioni.
È
importante notare come il processo di finanziarizzazione in atto produca
immediatamente una trasformazione delle stesse forme politiche, impedendo di
proporre in alcun modo un discorso analitico che tenga separate politica ed
economia; assumendo questa prospettiva possiamo affermare che la dittatura
commissaria costituisca oggi una delle forme privilegiate della governance
europea.
Prendendo
in considerazione le differenze che attraversano lo spazio politico europeo e
la forma Stato moderna (con particolare attenzione per quella
democratico-rappresentativa) è evidente che l’Europa, al momento attuale, non
può essere pensata come un Super-Stato, né il processo europeo sembra,
d’altronde, andare in questa direzione. Ciò si evince dal fatto che l’Europa
pur non avendo una costituzione formale, bocciata in più paesi dai referendum,
possiede però di fatto un assetto costituzionale definito dalla fitta rete di
trattati, da un insieme di fonti normative ibride, pubblico-private, dallo
sviluppo incessante della giurisprudenza europea. Queste fonti delineano uno
statuto in divenire, una costituzione “processuale”, che si situa oltre lo
stesso rapporto dialettico tra costituzione materiale e costituzione formale.
Questo
assetto costituzionale genera due conseguenze principali: una prima conseguenza
è la messa in crisi dell’identità tra il monopolio della produzione di diritto
e quello dell’uso della forza per come si è data nello Stato moderno.
L’orizzonte europeo, infatti, scinde i due monopoli; da un lato le fonti
normative comunitarie hanno immediata effettività all’interno degli ordinamenti
nazionali; dall’altro gli Stati-membri continuano a monopolizzare l’uso della
forza.
L’altra
conseguenza riguarda il venir meno della coincidenza tra Stato e Territorio.
L’Europa, configurandosi come un campo di tensione tra gli interessi dei
singoli stati risente della mancanza di uniformità nella produzione di diritto.
Infatti, a differenza dello stato moderno, in cui lo spazio fisico di applicazione
delle norme aveva dei confini ben definiti, lo spazio politico europeo non si
configura più come unitario; assistiamo invece alla moltiplicazione dei livelli
politici che frammentano lo spazio comunitario (né è un esempio la non
coincidenza dello spazio dell’Euro con lo spazio dell’Europa dei 27). Più in
generale lo stesso processo di integrazione, attraverso l’individuazione di
indicatori ed obiettivi economici, ridisegna continuamente lo spazio politico
europeo.
La
stessa Banca Centrale Europea non eredita le funzioni delle banche centrali dei
singoli stati nazione, ovvero quella di supportare l’azione politica tramite il
monopolio della sovranità monetaria. La BCE, nonostante abbia uno statuto
privato, esercita una vera e propria funzione di indirizzo politico che,
sfruttando questo periodo di crisi economica e in continuità con gli interessi
delle componenti private che la compongono, si risolve nell’imposizione di
politiche di chiaro stampo neoliberale.
Si
pone qui il problema del controllo democratico della moneta, ma più in generale
la necessità di immaginare una risposta al deficit di democraticità dell’intera
Europa, messo in evidenza dalla mancanza di mediazione tra le istituzioni
europee e la cittadinanza.
A
riguardo risulta molto interessante riprendere il dibattito, dello scorso anno,
tra Habermas e Balibar. Habermas ha molto insistito sulla necessità di una
rilegittimazione dell’Europa che passi attraverso un rafforzamento dei poteri
del Parlamento europeo, e attraverso la costituzione di un’opinione pubblica
europea in grado di ripristinare l’antico schema dialettico Stato-Società
civile. L’analisi di Habermas tende a scindere in due momenti ben distinti la
formazione del demos europeo e la
democratizzazione delle istituzioni, aprendo la possibilità di un riformismo
che parta dalla spinta dei cittadini facendo coincidere il ruolo dei movimenti
sociali con la dimensione dell’opinione pubblica. Tuttavia non tiene conto del
fatto che le stesse istituzioni politiche europee sono state concepite fin
dall’inizio come post-democratiche, in alcun modo aperte alle proposte della
cittadinanza. In questo contesto, quindi, non pare sufficiente riproporre
un’ipotesi “parlamentarista” su scala europea; di fronte alla crisi di
democraticità dell’Europa non è sufficiente riproporre le coordinate della
democrazia rappresentativa su scala europea.
Balibar,
al contrario, ha insistito sulla necessità di un surplus di democrazia, agito in primo luogo dai movimenti, che sia
capace di superare i confini stessi degli stati nazione e dell’Unione europea;
occorre reinventare nuovi poteri democratici, definiti da Balibar come dei
“contropoteri insurrezionali”. Al contrario di ciò che sostiene Habermas, è
impossibile pensare separati il processo di costituzione della cittadinanza e
quello di democratizzazione delle istituzioni; è necessario pensarli come un
unico momento dove la spinta conflittuale e di dissenso dei movimenti generi
contemporaneamente nuova soggettivazione e la possibilità di creazione di nuove
istituzioni democratiche.
Infine,
è a partire dalla frammentarietà dello spazio europeo che si può e si deve
ragionare su nuove istituzioni. Il campo d’azione dei movimenti deve essere
capace di reinventare continuamente, proprio a partire da una prassi democratica
conflittuale, la spazialità europea e i suoi confini. In questo quadro non si
possono ignorare le spinte che arrivano sia dall’Europa dell’Est che dal nord
Africa, i cui movimenti migratori ormai da anni mettono in tensione la rigidità
dei confini ed evidenziano la centralità della cittadinanza come terreno di
conflitto. Lo spazio europeo e la sua continua ridefinizione rappresentano,
quindi, una delle principali poste in palio dei movimenti.