mercoledì 29 maggio 2013

Archiviare la disobbedienza

di Elvira Vannini

Alla mostra Disobedience Archive (The Republic) Alfabeta2 - n.30, giugno 2013 (nelle edicole, in libreria e in versione digitale a partire da mercoledì 5 p.v.) dedica lo speciale «alfaDisobedience» a cura di Manuela Gandini, un inserto di 8 pagine con testi di: Marco Scotini, Manuela Gandini, Omar Robert Hamilton / Mosireen, Silvia Maglioni, Graeme Thomson, Nomeda & Gediminas Urbonas, Laboratorio di comunicazione militante, Céline Condorelli, Giovanni Anceschi, Critical Art Ensemble, Piero Gilardi, Gerald Raunig

Rispetto all’emersione attuale delle biennali e mostre cosiddette politiche, che non hanno prodotto alcuna trasformazione reale (ne lo vogliono), Disobedience Archive (The Republic), a cura di Marco Scotini, assume invece una precisa posizione già a partire dalla sua prima apparizione a Berlino nel 2005, e permette di sviluppare un ragionamento sulla genealogia della mobilitazione antagonista a partire dai modi della sua rappresentazione dentro lo spazio dell’arte.
“Dopo diversi progetti artistici e attivisti di rilievo come Collective Creativity di WHW, Ex Argentina di Andreas Sieckmann, The Interventionists di Nato Thompson e Disobedience di Scotini, possiamo affermare – scrive Gerald Raunig – che si è sviluppato un ambito transnazionale (anche se fragile) di pratiche trasversali. Se qualche volta sono viste come egemoniche lo sono nell’ottica del sistema artistico borghese”. Ma l’attuale proliferare di large-scale exhibitions con velleità sociopolitiche, a cui non sfugge nemmeno l’ultima edizione di Kassel o della biennale di Berlino, si limita a esibire superficialmente la politica come oggetto d’attrazione, senza uscire dalle formule codificate degli apparati museografici ed espositivi tradizionali. “La politica di queste biennali, come di altre, non è interventista – precisa Charles Esche sulle pagine di ArtForum – come invece lo sono le proteste documentate nell’importante video-archivio Disobedience”, che dopo 10 anni di occupazioni itineranti nelle maggiori istituzioni e strutture museali internazionali finalmente approda in Italia, al Castello di Rivoli, proprio in quella Torino, dove storicamente un ciclo di lotte operaie è deflagrato a partire dall’estensione del lungo ‘68.
Rispetto al trend dominante che propone la politica come documento d’indagine, Disobedience non è sommariamente una mostra-archivio, se così si può definire, ma ospita molteplici “focolai d’enunciazione”, seppur irriducibili a qualsiasi tassonomia del potere e della storia: è piuttosto la forma che la contingenza assume in quella ridistribuzione sociale della creatività che Hal Foster ha indicato come una “miriade di interventi”, riarticolazione di pratiche di lotta affermative legate alla disobbedienza sociale e a una moltitudine di insorgenze molecolari – dall’uscita italiana del ’77 alle proteste post-Seattle, fino alle recenti insurrezioni del mondo arabo – preludio inconsapevole delle forme di sollevazione globale, dentro la crisi, dei vari Occupy.
Disobedience vive nel tempo e nello spazio dell’esposizione e lascia al fruitore la scelta di cosa guardare e cosa selezionare, perché tutto in esso è posto in modo orizzontale, paratattico e senza successione lineare: nei suoi dieci anni di spostamenti l’archivio ha assunto ogni volta una nuova configurazione spaziale e adesso occupa un parlamento di legno disegnato da Céline Condorelli, che perde ogni efficacia normativa in quanto la sovranità è solo tecnica di governo, istituzione di rappresentanza che non ha più valore, e si sovrappone al Circo di Martino Gamper, sullo sfondo del wallpainting di Erick Beltran, ispirato a Spinoza e al concetto di democrazia (naturalmente upside down).

Precedono l’ingresso due anticamere, che contengono ephemeral, documenti e opere, la prima dedicata alla defezione italiana degli anni Settanta, in cui il concetto di autonomia diffusa si applicava a istanze di rottura, rifiuto del lavoro, comportamenti sovversivi e illegali – dalle radio libere come fuoriuscita dalla letteratura, il libro come agente di enunciazione collettiva con Nanni Balestrini, all’Oratorio di supporto agli scioperi operai del Living Theatre, fino a Rivolta femminile nel momento fondativo in cui Carla Lonzi lascia il mestiere della critica d’arte e irrompe come soggetto imprevisto, che abbandona una cultura della presa del potere maschile, rovesciando anche il canone che la storia ci aveva consegnato nella dialettica dello scontro tra operai-capitale, servo-padrone, in un processo artistico che diventa atto politico ma di cui non ne conosciamo ancora i confini.
L’assetto complessivo della seconda sala dedicata agli anni 2000 della controrivoluzione neoliberale, rappresenta invece il cambio di paradigma nella storia del dissenso civile (Negri-Hardt) in cui l’avversario è ben identificato, a cominciare dalla rivolta contro il vertice del WTO di Seattle che inaugura un nuovo ciclo di lotte, reticolare, moltitudinario e non ancora concluso, di sperimentazione politica e sociale aperta a processi orizzontali, in uno spazio indistinto tra attivismo e militanza, dentro il quale l’artista fornisce gli strumenti della protesta, soprattutto gadgets e props, e i suoi modi di organizzazione anche linguistica.
Riprendendo teoricamente il laboratorio politico post-operaista Scotini colloca giustamente al vertice della riflessione filosofica il problema di escogitare pratiche di lotta che facciano male a chi comanda e decostruisce così il display espositivo all’interno di uno spazio della contestazione che crea luoghi di self-empowerment, in cui l’organizzazione conosce, nella struttura assembleare e interrotta del parlamento, una discontinuità. Disobedience è una mostra politica non perché mette in scena, nel teatro della rappresentazione contemporanea, una grammatica del dissenso attraverso format sperimentali, ma perché proprio in quella discontinuità è in grado di produrre nuove soggettività radicali.
La riattivazione di memorie contro-storiografiche militanti, sia storicamente che sul terreno dei nuovi protagonismi sociali, trasforma lo spettatore in soggetto politico e a differenza di altri dispositivi narrativi l’archivio diventa un tool, che sfuggendo all’autorità della storia produce emancipazione e traiettorie di fuga: perché in fondo non obbedire più all’ordine sociale apre uno spazio costituente dove non riconosci più il potere ma solo il conflitto.