di Elvira Vannini
Alla mostra Disobedience
Archive (The Republic) Alfabeta2 - n.30, giugno 2013 (nelle edicole, in
libreria e in versione digitale a partire da mercoledì 5 p.v.) dedica lo
speciale «alfaDisobedience» a cura di Manuela Gandini, un inserto di 8 pagine
con testi di: Marco Scotini, Manuela Gandini, Omar Robert Hamilton / Mosireen,
Silvia Maglioni, Graeme Thomson, Nomeda & Gediminas Urbonas, Laboratorio di
comunicazione militante, Céline Condorelli, Giovanni Anceschi, Critical Art
Ensemble, Piero Gilardi, Gerald Raunig
Rispetto all’emersione attuale delle
biennali e mostre cosiddette politiche, che non hanno prodotto alcuna
trasformazione reale (ne lo vogliono), Disobedience Archive (The
Republic), a cura di Marco Scotini, assume invece una precisa posizione
già a partire dalla sua prima apparizione a Berlino nel 2005, e permette di
sviluppare un ragionamento sulla genealogia della mobilitazione antagonista a
partire dai modi della sua rappresentazione dentro lo spazio dell’arte.
“Dopo diversi progetti artistici e
attivisti di rilievo come Collective Creativity di WHW, Ex Argentina
di Andreas Sieckmann, The Interventionists di Nato Thompson e Disobedience
di Scotini, possiamo affermare – scrive Gerald Raunig – che si
è sviluppato un ambito transnazionale (anche se fragile) di pratiche
trasversali. Se qualche volta sono viste come egemoniche lo sono nell’ottica
del sistema artistico borghese”. Ma l’attuale proliferare di large-scale
exhibitions con velleità sociopolitiche, a cui non sfugge nemmeno l’ultima
edizione di Kassel o della biennale di Berlino, si limita a esibire
superficialmente la politica come oggetto d’attrazione, senza uscire dalle
formule codificate degli apparati museografici ed espositivi tradizionali. “La
politica di queste biennali, come di altre, non è interventista – precisa
Charles Esche sulle pagine di ArtForum – come invece lo sono le proteste
documentate nell’importante video-archivio Disobedience”, che dopo 10
anni di occupazioni itineranti nelle maggiori istituzioni e strutture museali
internazionali finalmente approda in Italia, al Castello di Rivoli, proprio in
quella Torino, dove storicamente un ciclo di lotte operaie è deflagrato a
partire dall’estensione del lungo ‘68.
Rispetto al trend dominante che
propone la politica come documento d’indagine, Disobedience non è
sommariamente una mostra-archivio, se così si può definire, ma ospita
molteplici “focolai d’enunciazione”, seppur irriducibili a qualsiasi tassonomia
del potere e della storia: è piuttosto la forma che la contingenza assume in
quella ridistribuzione sociale della creatività che Hal Foster ha indicato come
una “miriade di interventi”, riarticolazione di pratiche di lotta affermative
legate alla disobbedienza sociale e a una moltitudine di insorgenze molecolari
– dall’uscita italiana del ’77 alle proteste post-Seattle, fino alle recenti
insurrezioni del mondo arabo – preludio inconsapevole delle forme di
sollevazione globale, dentro la crisi, dei vari Occupy.
Disobedience vive nel tempo e
nello spazio dell’esposizione e lascia al fruitore la scelta di cosa guardare e
cosa selezionare, perché tutto in esso è posto in modo orizzontale, paratattico
e senza successione lineare: nei suoi dieci anni di spostamenti l’archivio ha
assunto ogni volta una nuova configurazione spaziale e adesso occupa un
parlamento di legno disegnato da Céline Condorelli, che perde ogni efficacia
normativa in quanto la sovranità è solo tecnica di governo, istituzione di
rappresentanza che non ha più valore, e si sovrappone al Circo di Martino
Gamper, sullo sfondo del wallpainting di Erick Beltran, ispirato a
Spinoza e al concetto di democrazia (naturalmente upside down).
Precedono l’ingresso due anticamere,
che contengono ephemeral, documenti e opere, la prima dedicata alla
defezione italiana degli anni Settanta, in cui il concetto di autonomia diffusa
si applicava a istanze di rottura, rifiuto del lavoro, comportamenti sovversivi
e illegali – dalle radio libere come fuoriuscita dalla letteratura, il libro
come agente di enunciazione collettiva con Nanni Balestrini, all’Oratorio di
supporto agli scioperi operai del Living Theatre, fino a Rivolta
femminile nel momento fondativo in cui Carla Lonzi lascia il mestiere
della critica d’arte e irrompe come soggetto imprevisto, che abbandona una
cultura della presa del potere maschile, rovesciando anche il canone che la
storia ci aveva consegnato nella dialettica dello scontro tra operai-capitale,
servo-padrone, in un processo artistico che diventa atto politico ma di cui non
ne conosciamo ancora i confini.
L’assetto complessivo della seconda
sala dedicata agli anni 2000 della controrivoluzione neoliberale, rappresenta
invece il cambio di paradigma nella storia del dissenso civile (Negri-Hardt) in
cui l’avversario è ben identificato, a cominciare dalla rivolta contro il
vertice del WTO di Seattle che inaugura un nuovo ciclo di lotte, reticolare,
moltitudinario e non ancora concluso, di sperimentazione politica e sociale
aperta a processi orizzontali, in uno spazio indistinto tra attivismo e
militanza, dentro il quale l’artista fornisce gli strumenti della protesta,
soprattutto gadgets e props, e i suoi modi di organizzazione
anche linguistica.
Riprendendo teoricamente il
laboratorio politico post-operaista Scotini colloca giustamente al vertice
della riflessione filosofica il problema di escogitare pratiche di lotta che
facciano male a chi comanda e decostruisce così il display espositivo
all’interno di uno spazio della contestazione che crea luoghi di self-empowerment,
in cui l’organizzazione conosce, nella struttura assembleare e interrotta del
parlamento, una discontinuità. Disobedience è una mostra politica non
perché mette in scena, nel teatro della rappresentazione contemporanea, una
grammatica del dissenso attraverso format sperimentali, ma perché proprio in
quella discontinuità è in grado di produrre nuove soggettività radicali.
La riattivazione di memorie
contro-storiografiche militanti, sia storicamente che sul terreno dei nuovi
protagonismi sociali, trasforma lo spettatore in soggetto politico e a
differenza di altri dispositivi narrativi l’archivio diventa un tool,
che sfuggendo all’autorità della storia produce emancipazione e traiettorie di
fuga: perché in fondo non obbedire più all’ordine sociale apre uno spazio
costituente dove non riconosci più il potere ma solo il conflitto.