domenica 21 aprile 2013

La Sinistra di re Giorgio

di Giso Amendola

il ceto politico sale in pellegrinaggio al Colle, implorando l’inquilino uscente a compiere l’atto  sacrificale di immolare la sua autorità sull’altare della patria, accettando la rielezione per un nuovo settennato. Non hanno posto alcuna condizione, così come recita il comunicato quirinalizio. Ma è lecito pensare che l’accettazione della rielezione sia stata subordinata alla strategia politica sollecitata da Napolitano all’indomani dell’esito elettorale e certificata dall’agenda redatta dai saggi presidenziali irritualmente nominati? Ovvero le “larghe intese” richiamate come senso di responsabilità del parlamento, in continuità col governo tecnico da lui voluto e, soprattutto, per arginare la furia antisistema M5S? Non v’è dubbio che questa rielezione alla massima carica dello Stato è molto più di un evento straordinario, essendo un atto essenzialmente politico, oseremmo dire ai limiti dello spirito della costituzione vigente. Infatti la prassi costituzionale aveva sancito il principio di “non-rieleggibilità” del Capo dello Stato, conformemente alla funzione “notarile” a cui è chiamato,  proprio al fine di non dare alcuna valenza politica al mandato presidenziale. Certo non è il golpe, ma la logica emergenziale ancora una volta irrompe sulla scena e de facto sospende la dialettica politica dello spazio di rappresentanza istituzionale ed affida ad altri organi costituzionali, diversamente previsti dalla Carta, un ruolo di supplenza(ndr)

Giorgio Napolitano, nei giorni convulsi delle fallimentari consultazioni di governo, li aveva già richiamati alle proprie responsabilità; e aveva evocato un anno chiave, il 1976. Così è stato subito chiaro in cosa consistesse la vera responsabilità da assumersi: attenersi rigorosamente alla strada maestra delle larghe intese. Questo Paese va tenuto unito rigettando ogni cosa che sappia di conflitto, e mantenuto sui binari della concertazione eterna tra le forze politiche principali: evocando, a norma fondamentale del governo, la perpetua emergenza.
Non si può dire che non abbiano ascoltato il Presidente. Fa nulla che, nel solito passaggio da tragedia a farsa, le grandi forze popolari delle grandi intese del 1976 si siano ridotte, nel frattempo, a correnti litigiose del PD, e che le intese ora si facciano con la destra berlusconiana: lo schema non si tocca. Ciò che non s’era riuscito (ancora) a fare per la formazione del governo, si farà nell’elezione del Presidente della Repubblica. Il richiamo di Napolitano al 1976 suona come la riproposizione obbligata di una cultura politica perenne e inaggirabile: larghe intese, unità nazionale, emergenza. Così: “deve essere un cattolico”.
E allora recuperiamo l’uomo della CISL, insieme cattolico ed eroe della concertazione: Marini. Poi, quando pure ci si è spinti a rompere l’intesa e ad arrivare a un nome votato dal solo centrosinistra, allora è stato Prodi: mai Rodotà. Ma perché l’interdetto, quando in fondo, e lo ha pure rivendicato più volte, Rodotà proviene, nel bene e anche nel male, da quella stessa storia?
Più che per il marchio M5S, Rodotà è subito sembrato un extraterrestre, anche e proprio rispetto alla sua stessa storia, per motivi sostanziali, e radicati nelle sue battaglie recenti.
I beni comuni: in un partito diviso tra priorità del mercato e nostalgie statualiste, il solo evocare uno spazio non tradizionalmente pubblico e non proprietario è concepito come incomprensibile. Il reddito di base? Bersani e Fassina hanno scelto come bandiera, nella discussione della riforma Fornero, l’innalzamento della pressione fiscale sul lavoro precario, sognando evidentemente di spingere così al tempo indeterminato per tutti. Con gli esiti disastrosi già registrati.
E questi velleitari tardosocialisti, che risolvono la precarietà ammazzando il precariato, possono mai capire la rilevanza politica del reddito di base? Per chi ha il calendario che segna 1976, tutto questo è eresia. E allora, contro l’eresia, è evidente che bisogna ritornare ai Padri che più Padri non si può, e reincoronare re Giorgio. E certificare così l’ibernarsi definitivo di un’intera cultura politica. Anche in questo, davvero, hanno seguito il 1976: nella scelta di rompere definitivamente ogni ponte con intere generazioni, con i linguaggi e i desideri del presente, con la vita.
Fortunatamente, a sera, abbiamo finalmente lasciato questo eterno ’76. Le piazze si sono riempite: e non era l’effetto della chiamata di Grillo, il quale, anzi, ha innestato la retromarcia non appena ha capito che Piazza Montecitorio non sarebbe stata un “suo” teatro. Piuttosto, abbiamo visto, per una sera, anche a Roma qualcosa di simile alle convocazioni spontanee attorno ai palazzi arroccati della rappresentanza, le modalità di dissenso tipiche dell’Europa dell’indignazione di questi anni.
Ma anche qui, poco ci hanno capito, i reduci del ’76: quella gente è populista, è fascista, dicono. Rodotà stesso invita, come per la sua cultura è quasi inevitabile, a manifestare dissenso solo “nelle sedi istituzionali”.
Eppure, quello che si è visto non è che quello che nell’Europa della crisi accade spesso. Ma una sinistra agli occhi della quale anche solo un buon costituzionalista liberaldemocratico, riformista e legalitario, appare un sovversivo pericoloso, giusto perché aperto ai beni comuni, ai nuovi diritti e a un nuovo welfare, evidentemente ancor meno ne può sapere di indignados e di acampadas. Starà ancora rincorrendo gli “untorelli” e maledicendo il ’77.

alfapiu