sabato 20 aprile 2013

“La vera grande opera necessaria. L’introduzione di un reddito di base incondizionato”*

di Andrea Fumagalli

L’attuale mantra sulla crescita parte dall’ipotesi che sia l’eccessiva rigidità del lavoro a essere la causa prima della scarsa produttività italiana. La realtà invece ci dice l’opposto. È semmai l’eccesso di precarietà la prima responsabile del problema. Chi di precarietà ferisce, prima o poi di precarietà perisce

(…) lo Stato italiano spende circa 18 miliardi per garantire sicurezza di reddito a circa un terzo di coloro che ne avrebbero bisogno. Giusto per fare un minimo di comparazione internazionale, con riferimento alla Francia, una relazione del dicembre 2011 sui risultati e sui costi della Revenu de solidarité active (Rsa) consente di esaminare i costi sostenuti da un Paese considerato simile al nostro per popolazione, tasso di disoccupazione, struttura sociale e tradizioni giuridiche. Il Rsa è stato introdotto dal 2009 per sostituire il Revenu minimum d’insertion (Rmi), una forma di reddito minimo che esisteva dal 1988, il sussidio per i genitori soli e i diversi meccanismi di incentivo alla ripresa dell’attività lavorativa. Il Rsa spetta a tutti i residenti in Francia da almeno cinque anni, il cui reddito sia inferiore a una certa soglia (per un single è il salario minimo mensile, per una coppia senza figli circa 1,4 volte tanto) e la cui età sia compresa tra i 25 anni e l’età pensionabile. Il sussidio è pari a 483 euro per un single senza altri redditi, a 724 per una coppia, a 868 euro per una coppia con un figlio ecc. Nel 2010 i beneficiari del Rsa sono stati 1,8 milioni (intesi come nuclei familiari, quindi circa 4 milioni di individui), di cui il 64% risultava del tutto privo di reddito, mentre il restante 36% ha richiesto il sussidio “integrativo”. Ebbene, la spesa complessiva per il finanziamento del Rsa nel 2010 è stata di 9,8 miliardi di euro, comprensiva delle erogazioni dei sussidi (84,4%), delle spese per i percorsi di attivazione e di inserimento (14,1%) e delle spese amministrative per la messa in opera della misura (1,5%); è una cifra molto simile a quella che l’erario italiano spende attualmente per i suoi ammortizzatori sociali. Ciò significa che abbiamo speso per un sistema iniquo di welfare che tutela poco più di lavoratore in sofferenza la stessa cifra che Oltralpe ha garantito a tutti i cittadini per un programma di protezione universalistico e più equo, seppur condizionato all’inserimento lavorativo.

L’inutilità delle politiche di austerity - Il costo di un sistema universale di protezionale sociale in grado di garantire a tutti un reddito pari alla soglia di povertà relativa in Italia (ovvero 600 euro mensili, per 7200 euro l’anno) da garantire interamente a chi è ne è totalmente sprovvisto o integrando chi ha redditi inferiori, è di circa, nel 2011, pari a 23 miliardi di euro (http://quaderni.sanprecario.info/wp-content/uploads/2013/03/Q1-La-proposta-di-welfare-metropolitano.pdf). Considerando che circa 15 miliardi dei 18 miliardi spesi direttamente dallo Stato o tramite Inps garantiscono sussidi sino a 600 euro mensili, ne consegue che la cifra netta da aggiungere è di circa 8 miliardi o poco meno: una cifra del tutto abbordabile anche in tempo di fiscal compact e patti di stabilità.

Una nuova politica fiscale - È necessario procedere al riguardo ad una riforma del sistema fiscale, per renderlo adeguato alle nuove forme di produzione. I criteri sono due:
-        Progressività forte delle aliquote
-        Tassazione omogenea di tutti i redditi (fattori produttivi e nuove fonti di valorizzazione capitalistica), a prescindere dal cespite di provenienza
Si rende necessario così un sistema fiscale, compatibile con lo spazio pubblico e sociale europeo, capace di cogliere i nuovi cespiti di ricchezza e tassarli in modo progressivo. Ed è proprio coniugando principi equi di tassazione progressiva e relativa a tutte le forme di ricchezza a livello nazionale ed europea con interventi “sapienti” sul piano della specializzazione territoriale che si possono reperire le risorse necessarie per far sì che i frutti della cooperazione sociale e del comune possano essere socialmente ridistribuiti.
Al momento il nostro referente è contemporaneamente il livello nazionale e il livello regionale.
Riguardo la fiscalità generale (livello nazionale), si può ipotizzare:
-        introduzione di nuovo scaglione Irpef (con aliquota al 45%) per i redditi superiore ai 70.000 euro l’anno e del 49% sui redditi oltre i 200.000 euro, aumentando la progressività delle imposte; si potrebbe recuperare così 1,2 miliardi di euro, per il 77%  a carico dei contribuenti con più di 200.000 euro l’anno lordi (fonte: Banca d’Italia  e Sbilanciamoci, 2011 ).
-        introduzione di una tassa patrimoniale dello 0,5% sui patrimoni superiori ai 500.000 euro, con una stima di incassi pari a 10,5 miliardi di Euro (fonte: Sbilanciamoci, 2011)
-        introduzione di una tassa indiretta (Iva) sull’intermediazione di lavoro a carico della società interinale (5%) e dell’impresa committente (5%), calcolata sul valore lordo della prestazione lavorativa in oggetto (introito stimato pari a circa 700 milioni di lire). Secondo gli ultimi dati dell’Osservatorio Centro Studi Ebitemp, il volume di affari per il 2011 è pari a circa 5,1 miliardi di euro, per un introito pari a circa 260 milioni di euro);
-        riforma della tassazione delle rendite. Oggi gli interessi sui depositi vengono tassati al 27%, mentre gli interessi sulle obbligazioni, le plusvalenze e i rendimenti delle gestioni collettive e individuali subiscono un prelievo fiscale del solo 12,5%. E’ possibile portare la tassazione di tutte le rendite finanziarie agli stessi livelli dell’Europa (per evitare fughe di capitali), cioè al livello del 23%. Secondo Sbilanciamoci, tale misura porterebbe ad un incremento delle entrate di circa 2 miliardi di Euro.
-         interventi contro l‘evasione fiscale. Non è sufficiente introdurre il limite di 1000 euro per i pagamenti in contanti, è necessario intervenire con misure appropriate, quali:  a. il ripristino dell’elenco clienti-fornitori per le imprese; b. l’aumento delle detrazioni tramite lo sviluppo dei controlli incrociati (oggi limitati alle sole spese farmaceutiche e alla ristrutturazione di immobili); c. la reintroduzione del reato di falso in bilancio;  d. il ripristino dell’Alto Commissario per la lotta alla Corruzione (abolito due anni fa). Sicuramente si verificherà un aumento delle entrate fiscali, ma difficile da quantificare.
Sommando gli effetti fiscali di queste proposte (al netto della lotta all’evasione fiscale) si ottiene un introito fiscale complessivo pari a poco meno di 14 miliardi di euro. A tale cifra si dovrebbero aggiungere gli introiti reperibili a livello locale, stimabile per una cifra tra i 2 e i 5 miliardi di euro a livello nazionale (a seconda delle regioni).
Più in particolare, a livello locale, si potrebbe ragionare sui seguenti punti specifici:
-        introduzione di progressività nell’IMU a seconda della destinazione d’uso dell’immobile, e non solo per la seconda casa;
-        addizionali Ire/Irpef basata su due scaglioni, il primo dello 0,7% per i redditi annui tra 30.000 e 70.000 annui e dell’1,3% per quelli superiori. Si tratta di una misura in parte prevista nella manovra varata dal governo Monti, ma non in modo progressivo (incasso previsto 2,5 miliardi di euro)
-        introduzione e riforma di una tassa di localizzazione per le attività produttive (modello Irap) che sfruttano posizione territoriali vantaggiose, destinate all’attività di consumo, magazzinaggio, turismo e svago.
Il totale delle entrate è così di circa poco inferiore a 20 miliardi. Tale cifra potrebbe essere ridotta se si volesse procedere a ridurre l’imposizione fiscale per i redditi più bassi, accentuando la progressività delle aliquote in seguito alla riduzione di quelle minori o tramite l’estensione della cd. “no-tax area”. Già di per sé, simili manovre, riducendo la concentrazione dei redditi e migliorandone la distribuzione, avrebbero l’effetto di incrementare il valore della propensione marginale media al consumo della collettività con effetti positivi sulla domanda , quindi sul Pil, quindi sulle stesse entrate fiscali.

l’introduzione di un reddito di base incondizionato - Ma la vera grande opera che dovrebbe essere finanziata è quella dell’introduzione di elementi di “commonfare” (welfare del comune), tramite l’istituzione di un reddito minimo incondizionato e l’accesso libero e il più possibile gratuito ai beni comuni immateriali (conoscenza, istruzione, mobilità, casa, socialità, ecc.) . Riguardo al primo punto, la stima del costo per un intervento di 600 euro mensili è – come abbiamo visto – di circa 8 miliardi di lire. Cifra che potrebbe aumentare di altri due miliardi se il parametro dell’ incondizionatezza produce (come auspichiamo) la possibilità di rifiutarsi di fare lavori nocivi, malpagati, intermittenti. E’ infatti l’attributo “incondizionato” che qualifica questa proposta di reddito minimo di base e la distingue da altre in campo, tese comunque a condizionare il beneficiario a qualche forma di inserimento lavorativo.
Tale reddito di base incondizionato dovrebbe diventare l’unico ammortizzatore sociale, uguale per tutte e tutti, che vada progressivamente a sostituire quelli attuali (una bestemmia oggi per le cd. “parti sociali”). È importante al riguardo che la sua introduzione venga accompagnata  dalla netta separazione tra previdenza e assistenza e che quindi il suo costo sia a carico al 100% della fiscalità generale e non dei contributi sociali (come in buona parte succede oggi).  Ciò – detto per inciso -, consentirebbe di ridurre quel cuneo fiscale sul lavoro rappresentato proprio dai contributi sociali, a favore di un maggiore salario in busta paga.
In secondo luogo, è auspicabile che venga introdotto un unico bilancio di welfare, in grado di tagliare qualunque intervento svolto o da ministeri o da assessorati, così da rendere più trasparente il suo finanziamento e la sua distribuzione, evitare che ci possano essere doppioni negli interventi e quindi razionalizzare anche le procedure di erogazione.
L’attuale attualità del reddito di cittadinanza - Il tema del reddito di cittadinanza è entrato nell’agenda del dibattito politico in Italia. Su tale termine regna tuttavia una grande confusione. In linea di massima esistono tre interpretazioni principali, a cui si fa normalmente riferimento.
La prima (reddito di cittadinanza vero e proprio), scarsamente presente nel dibattito italiano e inesistente nelle varie piattaforme politiche (nonostante il termine “reddito di cittadinanza” venga usato in modo estensivo, ma inappropriato), è quella che ha natura più etico-filosofica in quando definisce il diritto al reddito come un diritto inalienabile dell’essere umano, al pari del diritto al lavoro, alla libertà religiosa, alla libertà di parola e espressione politica, di stampa di non discriminazione per genere, razza (ammesso che esistano) e orientamento sessuale. La giustificazione primaria del reddito del cittadinanza universale sta nel considerare che il diritto, inalienabile e valido sin dalla nascita, a un reddito come porzione della ricchezza sociale è una sorta di risarcimento dell’esistenza di una qualche forma di proprietà escludente (più privata che pubblica). Di conseguenza, in quanto diritto fondamentale dell’essere umano, esso è necessariamente universale e incondizionato, ovvero nessuno, giovane o vecchio, uomo o donna, ricco o povero, ne può essere escluso. La determinazione del suo livello è quindi dettata dal rapporto tra l’ammontare di risorse che si decide di utilizzare a tale fine e la popolazione nel suo complesso (con il risultato che l’ammontare erogato può essere molto ma molto piccola). Tale proposta è già operativa, ad esempio, in Alaska (Usa) , dove si è deciso che i proventi dell’estrazione del petrolio, una volta pagati i costi, costituisca un fondo sociale che diviso per gli abitanti nel 2012 ha distribuito in modo paritario a tutte/i un sorta di rendita pari a circa 900 dollari/anno. Una simile prospettiva fa parte anche di una proposta di raccolta di firme in Europa, consentita dal Trattato di Lisbona  (Ice sul reddito, iniziativa dei cittadini europei). In Italia, essendo il dibattito e il welfare più arretrato,  tale proposta è di difficile comprensione, in quanto richiederebbe una riforma del sistema fiscale fortemente più progressivo, in modo che anche il ricco che percepisce la sua somma di reddito (mettiamo 50 euro l’anno, in quanto le risorse sono limitate) si trova a pagare come imposizione fiscale una cifra dieci o più volte superiore. Il principio di base è lo stesso che sta alla base dell’erogazione del servizio sanitario o dell’istruzione gratuita per tutte/i a prescindere dal reddito.
La seconda proposta, quella più gettonata in questo periodo, è quella di un reddito minimo condizionato allo stato professionale e a livello di reddito percepito, finalizzato all’inserimento lavorativo. Tale proposta assume diversa valenza a seconda dell’obbligo dell’accettazione di una proposta di lavoro. Negli 8 punti che Bersani ha presentato al M5S al fine della presentazione di un possibile governo, si parla espressamente di “avvio della universalizzazione delle indennità di disoccupazione e introduzione di un reddito minimo d’inserimento”, oltre che dell’introduzione di un “salario o compenso minimo per chi non ha copertura contrattuale”. È però sufficiente il rifiuto di una qualsiasi proposta di lavoro, perché il beneficio decada. Inoltre, poiché tale reddito minimo di inserimento è collegato alle indennità di disoccupazione, sembra di capire (il punto non è molto chiaro) che la platea dei possibili beneficiari è composta esclusivamente dai disoccupati. Quest’ultima posizione è in sintonia con la proposta di “reddito di cittadinanza” del M5S (che compare al primo posto dei 20 punti programmatici). Nei suoi numerosi interventi Grillo ha chiarito che tale proposta si traduce in un reddito di 1000 euro al mese, per un massimo di tre anni, ai soli disoccupati. A differenza del PD, tuttavia, Grillo ha ribadito che il beneficiario può permettersi al massimo il rifiuto di tre opportunità di lavoro, se ritenute non congrue agli studi e alla sua professionalità.  Secondo le stime di Tito Boeri, una misura di reddito minimo condizionato ai soli disoccupati di 600 euro al mese  avrebbe un costo lordo tra gli 8 e i 10 miliardi di euro all’anno (da cui bisognerebbe sottrarre quanto già lo Stato spende per forme esistenti di sussidio al reddito).
La terza proposta parla invece di reddito di base incondizionato (e non di cittadinanza, in quanto aperta anche ai residenti che vivono stabilmente – in quanto domiciliati -  nel nostro paese senza esserne formalmente cittadini) ma non completamente universale, in quanto verrebbe erogato solo a coloro che si trovano al di sotto di una certa soglia di reddito. È quindi rivolta non solo ai disoccupati ma anche a coloro che, pur lavorando, spesso in modo precario, sottopagato, intermittente o in nero, non riescono a fuoriuscire dal girone della povertà e del ricatto, a prescindere dalla loro condizione professionale. È  evidente che la determinazione del livello di reddito gioca qui una questione fondamentale. Si fa qui riferimento alla proposta di reddito di base incondizionato che è in linea con ciò che abbiamo trattato nelle pagine precedenti. Ed è su questo proposta, che appare praticabile economicamente, ma che assume i connotati dell’eccedenza sovversiva, che si deve – è necessario definire il discrimine del conflitto precario, oggi, in Italia. È questo il crinale su cui si può pensare un processo costituente sociale e economico.

* estratto da Il discrimine del conflitto precario, oggi, in Italia, verso un processo costituente sociale ed economico (http://www.uninomade.org/il-discrimine-del-conflitto-precario/)