«La tradizione degli
oppressi ci insegna che lo “stato di eccezione” in cui viviamo è la regola». Ci
piace mettere sullo sfondo dell’intervista, pubblicata su l’ultimo numero
«alfabeta2» n. 25 – dicembre 2012, questa citazione di Walter Benjamin che
Virno fa propria per descrivere i processi costituenti delle soggettività
disobbedienti del nostro tempo, prefigurando però la possibilità di rovesciamento
del paradigma politico secondo cui lo «stato d’eccezione», così come sostenuto
dalla dottrina postdivinistica (da Hobbes allo Stato-moderno), è esclusiva
prerogativa giuridica della sovranità statuale
D.
Vorrei ripartire dal tuo testo Virtuosismo e Rivoluzione apparso nel lontano
‘93 sulla rivista «Luogo Comune» per affrontare quello strano soggetto politico
che definiamo disobbedienza. Facendo seguito alla riflessione sulla
«disobbedienza civile» di stampo liberale, e molto lontano da questa, proponevi
allora un’idea di disobbedienza sociale (o di disobbedienza radicale) che
sarebbe diventata una delle parole-chiave per identificare l’azione del
movimento globale. Dopo quel tuo intervento (confluito poi nella Grammatica
della moltitudine) altri contributi teorici rilevanti non mi sembra ci siano
stati
R. Per me il
problema era quello di pensare a una forma di disobbedienza radicale, tale cioè
da andare al nocciolo stesso della forma moderna di Stato. Non si trattava e
non si tratta di disobbedire a una legge reputata ingiusta in nome di un’altra
legge, di una legge più basilare o di una legge anteriore e più autorevole,
come per esempio il dettato costituzionale. Questo naturalmente è possibile ma
non è il nostro problema. Il nostro problema è corrodere quello stesso obbligo
di obbedienza, ancora vuoto di contenuti, che precede le singole leggi e che
sta alla base dell’istituzione dello Stato moderno. Come a dire: lo Stato si
forma su un obbligo preventivo a obbedire alle leggi che verranno, quali che
esse siano. È una sorta di obbligo preliminare che si tratta di mettere in
questione. In sostanza la domanda fondamentale per ogni riflessione sulle
istituzioni politiche è: perché bisogna obbedire? Se si risponde a questa
domanda dicendo «perché lo impone la legge» ci si condanna a un regresso
all’infinito, nel senso che è fin troppo facile – a quel punto – chiederci:
«Perché bisogna obbedire alla legge? alla legge che impone l’obbedienza?» e
così via, naturalmente… Su che cosa si può fondare l’obbedienza? Su un’altra
legge ancora? Ma non c’è termine a questo pensiero, non c’è un punto d’arrivo.
A suo modo questo è
il problema di Hobbes (ma al posto di Hobbes non c’è nessuna difficoltà a
leggervi Sarkozy, Blair, Monti), di un Hobbes tra virgolette, un Hobbes che
indica in maniera approssimativa la statualità moderna e contemporanea. Egli
scioglie questo problema dicendo «bisogna obbedire perché si esce dallo stato
di natura». Nel momento in cui si esce dallo stato di natura e si forma una
società politica lì occorre giuridicizzare la vita. Cioè giuridicizzare quella
vita fatta di desideri, di abitudini, ecc. che esisteva prima e
indipendentemente dallo Stato. Stato di natura questo vuol dire: una vita
pregiuridica, non una vita animale. Quando la vita prende una forma giuridica,
reinterviene quest’obbligo di obbedire che è preliminare alle leggi. Su questo
Hobbes è molto chiaro, ci sono delle sue frasi nel De Cive e in altre opere in
cui dice che l’obbligo di obbedienza in forza del quale le leggi sono valide
precede ogni legge. Più chiaramente di così non si potrebbe dirlo. Allora il
problema della disobbedienza da parte dei movimenti è quello di mettere in
questione esattamente quest’obbligo preliminare e far riemergere quella vita
pregiuridica che, a torto, si chiama stato di natura. «A torto» perché quando
si dice stato di natura sembra di opporre la natura alla storia, l’istinto alla
cultura in modo fuorviante e sbagliato. Dovremo pensare invece questa vita
pregiuridica fatta di abitudini, linguaggio, opere, amicizia, conflitti, che
non ha ancora una veste giuridica e alla quale si sottrae quell’obbligo
preliminare che è vuoto di contenuto e obbedienza. Questo mi pareva che fosse
(in termini ovviamente molto generali, schematici) la questione di allora.
Ritengo che la disobbedienza (la disobbedienza dei movimenti, quella radicale)
abbia qualcosa a che fare con lo stato d’eccezione. Cioè come se i movimenti, i
poveri, gli sfruttati, coloro che non ci stanno, proclamassero una sorta di
stato d’eccezione nel momento in cui disobbediscono. È interessante pensare a uno
stato d’eccezione proclamato dal basso, anziché nel senso della dottrina
politica per cui esso sarebbe una prerogativa del sovrano e dello Stato. Questo
stato d’eccezione proclamato dagli oppressi attraverso la disobbedienza in
fondo ricorda una pagina di Walter Benjamin che diceva «La tradizione degli
oppressi ci insegna che lo “stato di eccezione” in cui viviamo è la regola».
D.
Hai sempre definito la disobbedienza come conditio sine qua non dell’agire
politico della moltitudine. Oggi dopo il movimento Occupy e le insurrezioni
Nordafricane e del MedioOriente, ti sentiresti ancora di affermare la stessa
cosa?
R. Naturalmente
penso di sì. È ben possibile che il termine disobbedienza non sia oggi il
termine più adatto, quello più chiaro, perché anche le parole hanno una storia
ed è probabile che su questa parola si siano depositati equivoci e
incomprensioni. Ma ritengo che alla base di ogni esodo o intrapresa costruttiva
della moltitudine ci sia questo momento di distacco dall’obbligo di obbedienza,
ci sia questa disobbedienza fondamentale. Si può disobbedire su un punto (ad
esempio a proposito dello smantellamento dell’assistenza sanitaria o su
qualsiasi altra questione dei nostri giorni) però su quel punto far valere
questa sorta di indipendenza dal patto preliminare di obbedienza. Come posso
dire? Si può essere radicali proprio perché ci si sente autonomi da un impegno
a obbedire alle leggi quali che siano, anche se questa disobbedienza si applica
necessariamente all’uno o all’altro obiettivo, sull’uno o sull’altro terreno.
D.
Se ancora recentemente Raffaele Laudani rileggeva la disobbedienza (e la sua
storia) in senso destituente, la tua lettura è invece tutta focalizzata sulla
sua dimensione costituente
R. Penso che la
disobbedienza sia il punto di partenza d’una prassi carica d’invenzione e che
cambia gli scenari, rimescola le carte del mazzo con cui si sta giocando,
addirittura lo cambia. Quindi la disobbedienza non è un atteggiamento liminare,
nel senso di un punto d’arrivo – «c’è troppa ingiustizia su questo e dunque non
obbedisco alla norma data» – al contrario è un incipit, è l’inizio di un
movimento di distacco che consiste nel costruire diverse istituzioni. In fondo
la disobbedienza è un punto di rottura con le istituzioni come le abbiamo conosciute
dal Seicento in poi, nella forma dello Stato centrale, che è stato giustamente
definito come il monopolio della decisione politica. Ecco che la disobbedienza
rompe il monopolio dello Stato, ma è sempre un punto di partenza costituente,
se vogliamo usare questo termine: costituente di istituzioni non più statali,
di una sfera pubblica non più statale. Quindi quest’azione va concepita come
carica di opere o grondante di positività, come accade nell’esodo, quello
biblico. Si è ripetuto mille volte nella storia politica occidentale che nel
disobbedire al faraone ti allontani, e allontanandoti (nel nostro caso
naturalmente l’allontanamento non è né fisico né geografico), costruisci forme
di vita. Naturalmente anche attraverso contraddizioni, mormorazioni nel deserto
e lotte intestine di coloro che hanno intrapreso l’esodo e che tuttavia
costruiscono istituzioni non più statali. Ora io credo che queste istituzioni
non più statali, queste forme politiche di democrazia che si sottraggono al
monopolio della decisione politica, in qualche modo dovrebbero far propri – è
questo l’esito costituente della disobbedienza – alcuni aspetti che abbiamo
sempre vissuto in negativo, come lo stato d’eccezione. Qual è il succo dello
stato d’eccezione? In uno stato d’eccezione – che non sia proclamato dallo
Stato, dal sovrano – le regole sono sospese, e si mostra che le regole non sono
altro che fatti della vita che si sono per così dire cristallizzati,
irrigiditi. Ogni norma ha un’origine empirica, ovvero: era un fatto che a un certo
punto diventa un criterio regolatore per poi tornare a essere un fatto, mentre
altri fatti possono diventare regole.
Ecco, questa
reversibilità fra norma e vita e, viceversa, tra vita e norma è un po’
l’aspetto concettuale che costituisce lo stato d’eccezione. Se dovessi
immaginare delle istituzioni non più statali (che sono il bottino, la posta in
palio della disobbedienza radicale) avrei a che fare con delle regole. Ma che
cosa sono le regole? Sono come degli strumenti per misurare l’azione. Ebbene bisognerebbe
pensare che questi strumenti per misurare l’azione siano a loro volta
misurabili ed eventualmente revocabili. Ecco che questa revocabilità delle
regole, questo loro poter tornare alla loro origine empirica mi parrebbe
qualcosa che le istituzioni della moltitudine, le istituzioni non più statali,
le istituzioni che nascono dalla disobbedienza, dovrebbero acquisire come un
loro criterio «costituzionale», se si può giocare con questo termine.
D.
L’impressione è che non si riesca però a far precipitare questo potenziale
eversivo, questo affrancamento dalla rappresentanza, in un orizzonte politico
di rottura decisiva o in quelle istituzioni non statali di cui tu parli
R. Quello che tu
menzioni è il problema fondamentale degli ultimi dieci o venti anni, vale a
dire una straordinaria empasse nel tradurre operativamente, in forme di
organizzazione e in forme di lotta incisive, cioè che facciano del male a chi
comanda, le nuove forme del lavoro e della vita. Su questo sono possibili molte
risposte. Io credo che ci sono stati molti tentativi a livello internazionale e
anche italiano, e si è proceduto con prove ed errori, come è inevitabile quando
si esplora un continente sconosciuto e che questi tentativi non riusciti,
parzialmente falliti, vadano tutti in qualche modo onorati come una sorta di
bottega artigianale. Resta però il fatto che di questa sostanziale impotenza
pratica, di cui si misura la gravità in questi anni di crisi radicale del modo
di produzione capitalistico, io ho sempre avuto l’impressione che il motivo di
fondo di questa difficoltà, di questa empasse, di questa impotenza stia nel
fatto che quando la produzione assorbe in sé alcuni aspetti fondamentali della
natura umana – dalla capacità linguistica, alla capacità di relazione, alla
sensibilità estetica, alle passioni, e via dicendo – è ovvio che ribellarsi
alla organizzazione della produzione richiede in qualche modo l’organizzazione
di tutto ciò, un po’ come dire l’organizzazione di un’intera forma di vita:
l’organizzazione sovversiva della capacità linguistica, delle passioni e via
dicendo. Quindi è tutto enormemente complesso, anche per vincere su una singola
rivendicazione è come se si dovesse costruttivamente esibire un nuovo modo di
vivere, e questo è straordinariamente difficile. Oppure, per dirlo in maniera
ancora più semplice e più diretta: perché vi sia una lotta incisiva in grado di
colpire l’organizzazione del lavoro e del tempo sociale, perché ci sia una
lotta incisiva non è necessario niente di meno che la costruzione delle istituzioni
della democrazia.
Questo si capisce
nella condizione precaria: come è possibile costruire una lotta efficace dei
precari senza organizzarli per ciò che è la loro vita complessiva? Occorre
dunque molto per colpire, occorre un’insieme di gesti positivi e questa è
certamente una delle cause di fondo della stagnazione, nonostante la capacità,
l’esperienza, le prove e gli errori di cui ti dicevo. Tutto quello che manca in
fondo è il gesto più elementare e più potente della politica, cioè rivolgerci a
quella parte della nostra gente che è restia a lottare nonostante ne avrebbe
tutta la necessità, cioè rivolgersi ai corrotti e ai crumiri di quel 99% di
Occupy Wall Street, e fargli sapere che un’iniziativa pratica non coinvolge
solo chi è già d’accordo, la tribù che è già dalla nostra parte. Dopo di che
credo che la grande politica a venire sia quella in grado di costruire
istituzioni non statali e di colpire il capitalismo finanziario e postfordista,
di mettere in moto un meccanismo che i teorici delle scienze cognitive chiamano
di coevoluzione tra crescita di nuove istituzioni non statali e invenzioni di
forme di lotta all’altezza del precariato universale.
D.
Le forme di lotta e di azione diretta contemporanee sono molte ma ne dovremmo
trovare almeno una che abbia la stessa efficacia che ha avuto lo sciopero
generale in epoca fordista
R. Il problema è che
l’equivalente funzionale dello sciopero oggi deve coinvolgere non solo il tempo
passato in un ufficio o in una fabbrica, ma dovrebbe coinvolgere quel tempo
sociale più generale fatto di relazioni, affetti, comunicazione ecc. che in
realtà è la base effettiva della produzione contemporanea. Alla fine è anche la
vecchia idea di Lenin, che pensava che il partito come una fabbrica rovesciata,
cioè come una fabbrica che si rovescia contro chi comanda. Soltanto che la
fabbrica da rovesciare ora è straordinariamente vasta, se per fabbrica
intendiamo tutte le forze produttive che sono sollecitate e mobilitate nella
produzione contemporanea.