L’affermazione
della decrescita non serve e non si propone di acquisire un potere, un pò come
l’esperienza zapatista. Anzi, costituisce un contropotere sociale. Prima di
ogni altra cosa, la decrescita è una provocazione, un grido che contesta
l’invenzione stessa dell’economia. L’economia, infatti, come la sua
controfigura «green» o il lavoro salariato, esiste solo in un orizzonte di
senso, quello del capitalismo. È una ragione di speranza in questi tempi? Sì,
in alcune città della Grecia e della Spagna, a differenza di quanto accaduto in
Argentina dieci anni fa, pezzi di società che subiscono l’austerità hanno
cominciato a incontrare gruppi che sperimentano forme di decrescita. Per questo
il potere, che teme il cambiamento profondo dice: «Siate seri, non è il momento
di parlare di queste cose».
Cita il suo amico Cornelius
Castoriadis e poi il subcomandante Marcos. Parla di fotocopiatrici, di Gruppi
di acquisto solidale giapponesi e di un interessante documentario di Coline
Serreau. Intervistare Serge Latouche è sempre un viaggio piacevole che percorre
molti temi, con le sue risposte a volte in francese a volte in italiano. E se
gli chiedi di ragionare di lavoro e di lavoratori, come abbiamo fatto noi, è
piuttosto probabile che non userà francesismi: «Fare la cassiera in un
supermercato è un lavoro di merda»
D. Considerando quanto sta avvenendo
negli ultimi anni, quale rapporto esiste tra l’attuale struttura del potere e i
processi della decrescita?
R. Su
questi temi, cioè sulla relazione tra decrescita e Stato, e più in generale tra
decrescita e politica, sono stati scritti molti articoli negli ultimi mesi,
perché dentro il movimento della decrescita in Francia da tempo ci sono
dibattiti su questi argomenti. Anch’io ho scritto un saggio che mi ha richiesto
molto lavoro, perché confesso che su questo problema le mie idee non erano
chiare. Certo ho scritto spesso sul ruolo dello Stato e sulla politica. Ma
alcuni mi hanno accusato, soprattutto persone vicine alle culture e ai
movimenti anarchici, di aspettare dallo Stato la realizzazione della
decrescita. Allora ho capito che la cosa sbagliata che scrivevo era «la
decrescita è un progetto politico». Penso che la formula non sia felice. La
decrescita è un progetto sociale, non un progetto politico, Lenin aveva un
progetto politico. Tutti quelli che hanno un progetto politico vogliono
realizzarlo, per questo la tradizione rivoluzionaria, soprattutto in America
latina, resta legata alla presa del potere.
Pensiamo
a quando il subcomandante Marcos e le comunità zapastiste hanno preso San
Cristóbal de las Casas, in Chapas, il 1° gennaio 1994: la prima cosa che hanno
detto è stato: «Non vogliamo prendere il potere perché sappiamo che se
prendiamo il potere saremo presi dal potere». Per questo penso che avere un
progetto politico sia diverso dall’avere un progetto sociale. Un progetto di
una società alternativa deve essere pensato concretamente in funzione del
luogo, della cultura dove il movimento agisce, ma il problema è che ha a che
fare anche con il potere. Naturalmente è una buona cosa, se alcuni nostri amici
diventano deputati, ministri, consiglieri ma sappiamo bene che qualsiasi politico
è sempre sottomesso alla pressione dei grandi poteri, non esiste un governo
buono…Per queste ragioni penso che non dobbiamo fare un partito politico per la decrescita e partecipare alle elezioni. In alcuni casi possiamo sostenere dall’esterno un certo programma, oppure un partito, ma il movimento deve essere sempre un contropotere, un gruppo di pressione anche con il più cattivo dei poteri. Perfino quando la pressione è forte possiamo ottenere qualcosa, come dimostra la vicenda dgli accordi di Cochabamba sull’acqua, ottenuti nonostante in Bolivia allora, nel 2000, ci fosse un potere quasi fascista. Quel potere fu costretto ad ascoltare la protesta che chiedeva la cancellazione del contratto con la multinazionale Bechtel. Una grande vittoria. Perciò la strategia deve essere quella dei piccoli passi avanti, anche quando il potere cambia, come nella stessa Bolivia in cui oggi è presidente Evo Morales: la pressione deve essere mantenuta anche contro Morales. Insomma, credo che i movimenti della decrescita oggi debbano mantenere questo spirito di contropotere di ispirazione gandhiana.
Non dico che tutti i partigiani della decrescita condividono questa visione, per esempio alcuni miei amici propongono di non votare più alle elezioni, io invece sono favorevole. Naturalmente sappiamo bene che dalle elezioni non uscirà mai un governo buono; se per caso ci fosse un governo di nostalgici diventerebbe subito un cattivo governo. Su questo punto ho cambiato idea nel tempo: prima condividevo l’idea del mio amico Cornelius Castoriadis, che aveva un progetto politico, la democrazia radicale, che lui credeva possibile costruire … Oggi, invece, credo che quello possa essere soltanto un orizzonte di senso, che non si realizzerà mai. Tuttavia, dobbiamo cercare di realizzarlo ogni giorno. Non possiamo aspettare il cambiamento o la democrazia radicale per agire: dobbiamo utilizzare tutti i mezzi e agire al livello più basso, più concreto, dove si possono fare le cose.
D. Hai conosciuto esperienze in giro
per il mondo che consideri particolarmente valide come strategie per la
decrescita?
R. Non
esiste un’esperienza che si può etichettare come la vera esperienza della
decrescita, della società frugale o della prosperità senza crescita. Quando ad
esempio tre anni fa abbiamo incontrato quelli della Conai, la Confederazione
delle comunità indigene dell’Ecuador, a Bilbao, abbiamo capito come la loro
concezione del buen vivir è esattamente il progetto della decrescita, se pur in
un contesto diverso e nonostante il coinvolgimento dei governi locali. In ogni
caso penso che il progetto delle Transition town dell’amico Robert Hopkins, che
ha partecipato con me alla Conferenza interazionale sulla decrescita di
Venezia, sia l’esperienza che a livello locale realizza meglio ciò che per me
corrisponde al progetto della decrescita: sviluppare la resilienza, ridurre
l’impronta ecologica, ritrovare l’autonomia alimentare ed energetica. A un
livello più limitato credo che il movimento dei Gruppi di acquisto solidale e
il loro corrispondente giapponese, quello dei Teikei, che letteralmente
significa «il cibo che ha la faccia del contadino», piuttosto che alcune
esperienze della Rete francese delle imprese alternative e solidali, siano
esperienze che vanno nella direzione del progetto della decrescita.
D. Se avessimo il potere e la
capacità di suggerire delle strategie per la decrescita, cosa bisognerebbe fare
tra le cose più urgenti?
R. Questo
è un esercizio di politica virtuale, me lo hanno chiesto anche i verdi greci
cosa fare adesso … Credo che la cosa più importante oggi sia cercare di
realizzare il programma concettuale delle otto «R», rivalutare, ridefinire,
ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare,
la cui priorità è sintetizzabile con la riduzione dell’impronta ecologica. Ma
tra le prime cose da fare c’è la necessità di dare lavoro: per questo ho
proposto un programma che poggia su tre piedi rilocalizzare, riconvertire e
ridurre. Rilocalizzare l’attività produttiva significa demondializzare e questo
implica avere i mezzi per farlo, tra cui l’autonomia finanziaria monetaria.
Occorre pensare anche a una politica protezionista: il libero scambio è il
protezionismo più forte dei predatori e allora dobbiamo fare un protezionismo
dei deboli e progetti di conversione ecologica. La riconversione più importante
è quella dell’agricoltura: dobbiamo uscire dall’agricoltura produttivista e
sostenere un’agricoltura senza pesticidi e concimi chimici. Su questi temi
vengono pubblicati sempre più libri e documentari interessanti.
Il
film-documentario Maison du future, ad esempio, è stato pensato in Francia dopo
un dibattito alla televisione, nel quale Josè Bovè contestava due esperti di
agricoltura secondo i quali è impossibile nutrire il mondo senza Ogm, pesticidi
e concimi chimici: gli autori hanno girato il mondo per raccontare esperienze
alternative che dimostrano come l’agricoltura più produttiva, e non più
produttivista, è quella contadina. Quel film sarà presentato in diversi paesi
nei prossimi mesi, dall’India ai paesi latinoamericani. Un altro documentario
molto interessante è Solutions locales pour un désordre global, di Coline
Serreau, una regista francese molto brava, che ha messo insieme esempi di
coltivazioni alternative dal Brasile all’India, dalla Francia all’Ucraina.
D. Il progetto delle otto «R» è
piuttosto chiaro, ma molti continuano a temere che la decrescita sia
soprattutto sinonimo di rinuncia, di ritorno al passato…
R. È
importante far capire alle persone che non si tratta di rinunciare alla
lavatrice ma di avere una buona lavatrice, che non siamo obbligati a buttarla
ogni due anni per comprarne una nuova, perché subito qualcosa non funziona più.
La stessa cosa con il computer. Quelli nuovi sono più veloci? Allora si devono
progettare e diffondere, come si faceva all’inizio, computer modificati ai
quali aggiungere qualcosa per farli progredire. Un’esperienza importante di
questo tipo è quella della Rank Xerox, con le sue fotocopiatrici pensate come
dei moduli che si possono prendere e rinnovare. La Rank Xerox oggi vende più
servizi di fotocopiatura e meno fotocopiatrici, di cui si prende cura nel
tempo. Gettare oggetti pensati per durare poco è un’assurdità, io ho già buttato
tre computer. È uno spreco di risorse incredibile. Si può concepire un computer
che si può migliorare, che si può riparare e alla fine si può riciclare. Questo
discorso vale per tutti i nostri strumenti, è la dimostrazione che si deve
ancora sviluppare, si deve pensare la struttura produttiva del futuro meno come
industria pesante è più come insieme di piccole imprese, ma anche singoli
artigiani che lavorano per il riciclo e riuso, per le riparazioni.
D. Agricoltura, riuso e riciclo,
sostenibilità… Alcuni dicono che sono pezzi di un processo, quella della green
economy, con il quale il capitalismo si trasforma per sopravvivere. Quali
pericoli vedi nella green economy?
R. Non
uso mai l’espressione green economy perché resta nell’orizzonte del capitalismo
e questo è un problema. Ho molti amici che non hanno capito oppure non
condividono il mio punto di vista quando dico «si deve uscire dall’economia».
Il problema è la parola «economia», vale a dire il capitalismo, verde va bene
ma economia no, al massimo potremmo dire «vogliamo una società verde».
Naturalmente questo significa che si deve ancora produrre e consumare ma non
più nella logica economica, utilitarista e quantitativa. È un discorso
complesso e difficile da far capire, per questo molto spesso lo lascio dire ai
miei amici nel parlare di altra economia, lo accetto come un compromesso. Ma in
fondo tutto il mio lavoro, la mia ricerca, il mio pensiero, comincia dal
contestare l’invenzione dell’economia, un’invenzione teorica, storica e
semantica, dalla quale dobbiamo uscire. Il progetto della decrescita implica
l’uscita dall’economia. Allora il discorso dell’economia verde è effettivamente
ambiguo: se produciamo pannelli solari a livello industriale, inquinando, come
avviene in alcuni casi, siamo di fronte al green business, e questo non può far
parte della nostra ricerca.
D. A proposito di nuova ricerca: c’è
il tema del lavoro che sembra ancora poco esplorato. Abbiamo la sensazione che
serva una critica più profonda del concetto di lavoro che è stato finora il
volano dello sviluppo, cioè del capitalismo. Cosa ne pensi? Come si organizza
il lavoro in una fase di transizione come quella attuale?
R. La
riduzione degli orari di lavoro, che è nel progetto della decrescita, è anche
un compromesso, una misura transitoria. È un compromesso che può aiutarci ad
affrontare il problema della disoccupazione, cioè una prima soluzione è
lavorare meno per lavorare tutti. Questo è un punto sul quale non dobbiamo
transigere. Ma è importante ridurre gli orari di lavoro anche perché
l’obiettivo, l’orizzonte di senso, resta la democrazia diretta. Che si nutre
anche di trasformazione del lavoro, propone, come obiettivo di lungo periodo,
di abolire il lavoro salariato. Insomma, non si può più riprendere il discorso
della nobiltà del lavoro quando si fa un lavoro di merda alla cassa di un
supermercato… Dobbiamo smettere di pensare a creare posti di lavoro qualsiasi.
Dobbiamo prima di tutto mettere al centro il valore dell’autonomia e per questo
la forma cooperativa è un orizzonte di senso, è qualcosa che aiuta. Ma anche in
questo caso dobbiamo essere consapevoli dei limiti. Lo dimostra pure una mia
piccola esperienza: abbiamo voluto fare una cooperativa, una casa editrice
sotto forma di cooperativa, ma ho capito subito che sarebbe stato molto
difficile, che non poteva funzionare, perché non tutte le persone vogliono
essere cooperatori, ci sono alcuni che preferiscono avere il salario, avere un
orario di lavoro e basta. Si può capire. Si deve rispettare questo. E allora il
problema è che nell’ingranaggio di una società salariale non per tutti è
importante la cooperativa. Di certo, resta importante oggi reinventare il
lavoro in settori come l’agricoltura biologica e il riciclo e riuso, esistono
già esperienze importanti ma restano una nicchia.
D. La crisi è sufficiente per favorire nuovi stili di vita? Un esempio: quando è scoppiata la crisi in Argentina, dieci anni fa, si sono diffusi i mercati del trueque, cioè il baratto, insieme ad alcune esperienze di moneta locale e alle fabbriche recuperate, ma quando è ripresa la crescita quei mercati e quelle monete sono stati spazzati via…
R. Non
conosco bene quanto accaduto in Argentina, ma è evidente che in quel caso l’uso
per un certo periodo di monete complementari o alternative, quasi su scala nazionale,
è stato possibile perché la crisi aveva toccato la borghesia, la piccola
borghesia. Quando la moneta nazionale è tornata come prima, quell’esperienza è
terminata. Nel frattempo gli operai che si erano impossessati di alcune imprese
hanno continuato a lavorare in quel modo. Non solo non potevano più tornare
indietro, ma speravano in una trasformazione sociale profonda. Ora sembra che
in Grecia sia diverso: c’è infatti un incontro tra coloro che subiscono
l’austerità e coloro che hanno avviato progetti di decrescita. Qualcosa di
simile accade anche in alcune città della Spagna. Allora dobbiamo essere
coscienti che la crisi è al tempo stesso un disastro, perché può favorire forme
di vero fascismo, ma anche un’opportunità. In Francia, ad esempio, la politica
ha totalmente cancellato qualsiasi progetto di alternativa e qualsiasi
dibattito sulla decrescita. «Siate seri, siamo in crisi», dicono, «non è il
momento di parlare di queste cose». Un bel modo per rendere invisibile un
desiderio diverso di cambiamento.