sabato 22 dicembre 2012

La crisi si supera salvando il Pianeta

di Elvio Dal Bosco

“La crisi economica è drammatica e brutale, ma se ciò dovesse condurre a trascurare la difesa del clima sarebbe un disastro, secondo lo slogan prima facciamo ripartire l’economia e poi ci preoccuperemo di nuovo del clima. Che incredibile cinismo: noi riteniamo più importante la conservazione di un benessere spropositato di una ristretta elite economica che non il futuro di intere generazioni” (J. Schellnhuber). Questa dichiarazione, ripresa anche da Dal Bosco nel suo saggio (del quale proponiamo la lettura della parte conclusiva, segnalando a piè di pagina il link di rinvio alla versione integrale), lancia un grido di allarme sulla totale indifferenza per la “questione climatica” assunta dalle forze dominanti la globalizzazione, nel loro tentativo di porre in essere efficaci misure anticrisi e d’inscenare nuove dinamiche accumulative di capitale. All’interno di questo quadro critico Dal Bosco -partendo dalle dimensioni della crisi finanziaria e dalla divaricazione della forbice distributiva di ricchezza in costante aumento, in favore di una ristretta elite a danno della popolazione mondiale- giunge ad alcune considerazioni politiche ritenute essenziali per una prospettiva anticapitalistica, non solo per rimuovere le cause delle disuguaglianze attuali ma guardando anche alla prospettiva delle generazioni future, mettendo in stretta correlazione la questione ambientale, e in primo luogo quella climatica, con la critica del sistema dominante

(…) Invece di perderci in battaglie ideologiche di retroguardia sulla purezza anticapitalistica, dovremmo cercare di mettere in cantiere politiche di superamento del neoliberismo concreto che ci ha portato alla drammatica situazione del presente e del futuro prossimo, anche sul piano della battaglia ambientale, come afferma uno dei massimi studiosi della crisi climatica. In un’intervista su “Die Zeit” del 26 marzo del 2009 J. Schellnhuber, direttore del Postdamer Institut fuer Klimafolgenforschung e membro del Consiglio mondiale del clima, dal titolo Talvolta potrei urlare! sostiene: “La crisi economica è drammatica e brutale, ma se ciò dovesse condurre a trascurare la difesa del clima sarebbe un disastro, secondo lo slogan prima facciamo ripartire l’economia e poi ci preoccuperemo di nuovo del clima. Che incredibile cinismo: noi riteniamo più importante la conservazione di un benessere spropositato di una ristretta elite economica che non il futuro di intere generazioni.” Avrei qualche difficoltà ad accettare il termine “elite” per banditi che per conservare alte rendite stanno tranquillamente distruggendo il futuro perfino per i loro figli e nipoti...
Sul ruolo dello Stato è molto interessante il dibattito ospitato da Die Zeit . Nel dicembre del 2009 lo scienziato tedesco Ernst Ulrich von Weizsaecker è molto chiaro nel descrivere il rapporto fra Stato e imprese. Egli registra infatti: “Nel cosiddetto triangolo della sostenibilità ci sono un fattore forte e due deboli: quello forte è l’influenza economica, i deboli sono l’influenza sociale e quella ecologica. Credere che si possa avere la sostenibilità senza uno stato forte è pura illusione… La politica è diventata inefficace, perché il mercato attraverso il diktat del massimo profitto impedisce allo Stato di porre delle regole. Se un governo si immischia, il capitale farà di sicuro in modo che si fugga da tale paese. Il coordinamento internazionale sarebbe l’unica soluzione.”
Sullo stesso settimanale in data 7 gennaio 2010 interviene lo storico USA, Tony Judt, che incalza la Sinistra: “ La sinistra politica ha qualcosa da conservare: i diritti politici; essa ha ereditato la moderna spinta ambiziosa da esercitare in nome di un progetto universale di istruzione e innovazione. La socialdemocrazia deve sostenere le conquiste del passato con decisione. Lo sviluppo di uno stato delle prestazioni 21 sociali che nell’ edificazione lunga un secolo del settore pubblico ha impregnato la nostra identità collettiva e i nostri comuni obiettivi con la conquista dello stato sociale come un diritto e la sua garanzia un dovere sociale… Altri hanno utilizzato gli ultimi tre decenni per destabilizzare e respingere indietro sistematicamente questi miglioramenti: dovremmo essere molto più arrabbiati di quanto non lo siamo. Ci dovrebbe anche preoccupare : perché siamo stati tanto rapidi nel distruggere la diga che i nostri predecessori avevano costruito con tanta fatica? Siamo tanto sicuri che non arriveranno nuove ondate? “
Per la serie Lotta di classe dall’alto (titolo significativo usato da un settimanale liberale!) un altro autore, Boris Groys, filosofo e matematico dell’Università di New York, ricorda al cosiddetto ceto medio quale dovrebbe essere la sua funzione: “. È il ceto medio che supporta e cura lo stato sociale e occupa i suoi gradini gerarchici. Il ceto medio amministrativo addirittura lo rappresenta, pur essendo quello che ne approfitta di meno. Per cui c’è da attendersi che prima o poi questo ceto medio se ne accorgerà che è insensato reggere una struttura sociale di cui ne approfittano solo altri...Solo quando il ceto medio prenderà coscienza di questo fatto, potrà emergere una nuova battaglia politica, una nuova rivoluzione delle virtù, che sarà nel solco della tradizione della Rivoluzione francese e della Rivoluzione d’ottobre russa..” ( Die Zeit del 17 dicembre 2009)
Lo scontro non è più fra le classi secondo gli apologeti neoliberisti, ma fra le generazioni: in base alla ricchezza per classi di età, in Gran Bretagna la popolazione inferiore ai 40 anni costituisce la metà del totale ma possiede solo il 15 per cento delle attività finanziarie; fra il 1995 e il 2005 la quota di ricchezza detenuta dalle persone comprese fra 25 e 34 anni è calata, mentre sarebbe triplicata secondo la Banca d’Inghilterra quella della classe fra 55 e 64 anni (The Economist del 13 febbraio 2010). Questa è una conseguenza della precarizzazione del lavoro voluta dalle politiche neoliberiste; altro che attaccare i pensionati perché troppo ricchi e vedere come una iattura l’aumento della speranza di vita! Ben altri giudizi arrivano dal filosofo francese, Lucien Séve in Le Monde diplomatique del gennaio 2010 che rivendica l’effettiva emancipazione delle età sociali. “Si tratta di offrire a ognuno una formazione iniziale di alto livello, eliminare la disoccupazione giovanile, sradicare in profondità l’alienazione del lavoro, garantire una sicurezza continua del lavoro e/o della formazione, passare da un tempo libero miseramente compensatorio a una vita fuori del lavoro riccamente formativa, favorire al massimo la formazione dei cinquantenni alla vita post-professionale – offrendo così la prospettiva di un lungo tempo diversamente attivo, fuori dalle logiche sfruttatrici in un sistema consolidato di pensioni per ripartizione, rivalorizzate sulla base di una più equa distribuzione delle ricchezze e indicizzate sui salari. Ecco ciò che farebbe della Francia del 2040 il contrario di un paese invecchiato.”
Del resto, Fred Pearce, studioso di questioni ambientali di fama mondiale, ha relativizzato il problema demografico in Tutto scienze, supplemento settimanale de La Stampa ( 12 maggio 2010 ), scrivendo: “ Non possiamo risolvere il problema del cibo o dell’energia o dei cambiamenti climatici e tutto a causa della sovrappopolazione – dicono gli ambientalisti. È sbagliato: l’impatto decisivo sulla Terra non è quello dei popoli poveri, ma delle nazioni ricche. E infatti, anche se oggi l’umanità si bloccasse a 7 miliardi, l’ambiente continuerebbe a deteriorarsi a causa delle nostre cattive abitudini, come quella di bruciare combustibili fossili. Ecco perché, invece della Bomba della Popolazione, ci si deve preoccupare della Bomba dei Consumi: è questa, mentre si diffonde in Paesi un tempo sottosviluppati, che rischia di distruggerci.”


Tornando al dibattito sul cambiamento climatico, tre noti studiosi tedeschi hanno scritto su Die Zeit del 15 aprile 2010 quanto segue: “ Liberare la società mondiale rapidamente, cioè entro la metà del nostro secolo, dalla dipendenza dalle energie fossili, avrebbe tre vantaggi: In primo luogo, si stabilizzerebbe il clima; inoltre, con ciò si passerebbe a una fonte di energia ad alta efficienza e sostenibilità proveniente dal sole, dal vento e dalle onde marine; infine, molti paesi in via di sviluppo potrebbero saltare le fasi di industrializzazione ‘sporchÈ. La direzione di marcia di una strategia del clima razionale è per noi chiara: L’obiettivo di ridurre di due gradi il riscaldamento del clima stimola innovazioni tecniche e investimenti nei sistemi di energie rinnovabili e nell’efficienza delle risorse, promuove intelligenti sistemi di mobilità spaziale e offre a imprese e consumatori aspettative di sicurezza a livello mondiale.”
Come si possa passare a un altro modello di vita lo spiega bene un assessore regionale di Brema: “Nel porto della città c’erano molti vecchi capannoni in degrado, che ora vengono risistemati da giovani architetti, che riutilizzano tutto ciò che resta per il rinnovo degli ambienti: porte, finestre, ecc. e non solo parti di antiquariato, rifacendosi a un esempio della Svizzera, che per legge impone di riutilizzare tutto ciò che si ottiene dall’abbattimento di un edificio. Anche imprenditori sono conquistati dal rifiuto di continuare col modello ‘sempre di più, sempre più velocemente, sempre avanti così’. Nel mercato del pesce a Brema, un imprenditore ha aperto dopo 20 anni un nuovo capannone, in cui l’energia è prodotta in proprio per il 60 per cento, e ha deciso di non aumentare oltre 50 il numero dei suoi operai, perché la ditta perderebbe il carattere familiare e a lui passerebbe il piacere di lavorare.” (Die Zeit, 30 dicembre 2010).
Andando alla radice del mito della crescita economica, su Blaetter fuer deutsche und internationale Politik del dicembre 2011 è apparso un saggio molto interessante di Harald Welzer (direttore del “Klimawandelinstitut”- Istituto di ricerca sul cambiamento climatico) dal titolo Aus Fremdzwang wird Selbstzwang (Da una costrizione esterna si passa a un’autocostrizione – Come l’idea di “crescita” è entrata nelle menti). L’autore inizia il discorso partendo dal fatto che l’idea della crescita presuppone quella del futuro, che è una categoria di pensiero inesistente fino al 1600; quando si parlava del futuro si faceva riferimento all’Avvento, ossia al ritorno di Cristo alla fine dei tempi, e non al raggiungimento di una situazione diversa nell’esistenza terrena. In altri termini, l’idea dell’espansione di un qualsiasi aspetto della vita è storicamente recente; lo stesso dicasi per il suo correlato, cioè il futuro riferito al corso della vita, l’autobiografia. Nelle condizioni sociali dipendenti da una struttura del potere statica in un ordine precostituito è praticamente inesistente il concetto di autobiografia o di individualità; il posto di ognuno nella società è fissato dalla nascita. Welzer ricorda che è Marx a sostenere che lo sconvolgimento sociale provocato dal capitalismo con la prima rivoluzione industriale apre il discorso della responsabilità del singolo per la sua biografia. Nella produzione industriale si lavora per ottenere una serie infinita di prodotti al fine di conseguire il plusvalore; qui sono le radici non solo dell’idea della crescita illimitata, ma anche della mentalità dell’uomo che cresce sempre, cioè dell’uomo economico. Per concludere: “Il problema è che questa cultura della crescita non arriva con l’esaurimento delle risorse al temuto punto della finitezza, dove essa non funziona più, ma già prima in conseguenza dei danni da essa provocata che ne minano le stesse condizioni di sopravvivenza; la categoria della finitezza è per questa cultura insopportabile come la morte per l’individuo… L’edificazione delle infrastrutture materiali e istituzionali della modernità ha modificato anche le infrastrutture mentali dei suoi abitanti, nel senso che la costrizione alla crescita permanente è da tempo diventata un’autocostrizione, tanto che nessuno si chiede a che serva tutto questo.”
Infine, su Le Monde diplomatique, edizione italiana, del novembre 2011, Lucien Séve sostiene una tesi ancora più radicale come si evince dal titolo Salvare il genere umano non solo il pianeta. Secondo l’autore siamo ormai alla mercificazione generalizzata dell’umano, proprio perché “non c’è più nulla di umano che possa sfuggire al diktat della finanza: tutto deve produrre spietatamente un profitto a due cifre… il che significa anche finanziarizzazione generalizzata dei servizi tesi a formare e sviluppare le persone – salute, sport, insegnamento, ricerca, creazione, tempo libero, informazione, comunicazione; di colpo le finalità proprie di queste attività tendono a essere scalzate dalla legge del denaro”. A questa mercificazione si accompagnano la tendenza allo svuotamento di tutti i valori, la perdita incontrollabile di senso, la decivilizzazione senza argini, ma soprattutto la proscrizione sistemica delle alternative: “la frenesia del profitto tende a persuaderci della fatalità del peggio; il sistema stesso, la cui parola d’ordine è libertà, ha assunto come motto non ci sono alternative della Thatcher – e infatti come possiamo liberarci dell’onnipotenza dei mercati finanziari e delle agenzie di rating se la gigantesca crisi del 2008 non ha cambiato niente di significativo all’interno del sistema?”. E termina sostenendo che la carica etica dell’indignazione riavvicina alla politica e “deve portare a un nuovo tipo di azione, non nel senso della rivoluzione all’antica attraverso delle trasformazioni dall’alto, il cui fallimento è garantito, ma di impegno a tutti i livelli per l’ appropriazione comune in forme innovative di iniziativa e di organizzazione; a questo prezzo si potrà far deragliare la fatalità del peggio”.

(versione integrale cambiailmondo)