“cos’è la politica senza
conflitto? Qual è la sua funzione senza dialettica tra distinte opzioni
programmatiche e visioni del futuro, senza l’appartenenza ad un campo anziché
ad un altro? La risposta è semplice: né più né meno che sterile politicantismo,
carrierismo, fredda amministrazione della cosa pubblica, subalternità al potere
economico”. Lungi dall’ipotizzare versioni escatologiche, la risposta agli
interrogativi posti dal nostro autore invece guarda alla possibilità che nuove
culture critiche si sviluppino nella nostra società, conquistando spazi
politici “capaci di sostenere l’azione di partiti e movimenti realmente
alternativi al modello capitalistico oggi dominante”. Parimenti noi ci
permettiamo di auspicare anche un processo nel quale partiti e movimenti esistenti
nel solco anticapitalistico rimettano in discussione quelle logiche egemoniche ed identitarie che li condannano
al minoritarismo e alla marginalità sociale
Il disastro economico che pervade da un capo all’altro l’Europa, la stessa crisi del modello europeo fondato sul primato e sui vincoli dell’unione monetaria, ripropongono, con maggiore vigore rispetto al recente passato, il tema della funzione della politica nelle nostre società e quello della sua autonomia rispetto agli altri poteri.
Il disastro economico che pervade da un capo all’altro l’Europa, la stessa crisi del modello europeo fondato sul primato e sui vincoli dell’unione monetaria, ripropongono, con maggiore vigore rispetto al recente passato, il tema della funzione della politica nelle nostre società e quello della sua autonomia rispetto agli altri poteri.
Nel secolo trascorso
l’autonomia della politica si è inverata nell’esercizio collettivo di una
critica dell’esistente attraverso i partiti di massa, nel conflitto tra visioni
diverse, antitetiche, del mondo, tra differenti progetti di società.
Oggi i partiti,
quelli di massa che abbiamo conosciuto nel corso del Novecento, non esistono
più: sono stati sostituiti da simulacri di partito politico, dietro cui
predominano soltanto le carriere personali dei leader ed il loro rapporto
diretto con la massa elettrice, naturalmente passiva ed amorfa.
In quanto
all’indipendenza di questi leader, e delle loro organizzazioni, rispetto al
potere dei mercati, delle istituzioni bancarie e dei grandi gruppi industriali,
è inutile dire che è inesistente: la loro è una funzione asseveratrice della
ineluttabilità del modello economico in cui le nostre esistenze sono immerse.
Ogni giorno siamo
inondati da notizie sull’andamento delle borse, sul rendimento dei titoli di
Stato. Parole come spread, default, listini, indici, sono entrati
ormai nel linguaggio corrente delle persone. Cosa c’è dietro quei numeri, chi
ne determina l’andamento, nessuno però lo sa. Tutti sanno però cosa significano
le misure che vengono adottate dai governi nazionali per stare dietro alle
fluttuazioni dei listini della borsa e dei tassi d’interesse sul debito, perché
toccano la carne viva della loro esistenza, incidono sulle loro aspettative e
sul proprio futuro.
In base a questo meccanismo,
mentre la speculazione finanziaria rimane anonima, impersonale, le manovre di
risanamento colpiscono uomini e donne in carne ed ossa, con nome e cognome. Non
solo: gli stati e i governi, la cui funzione negli ultimi vent’anni è stata
sistematicamente ridimensionata in nome del libero mercato, oggi vengono
chiamati a soccorrere un’economia ammorbata dagli effetti delle fraudolente
bancarotte del capitalismo finanziarizzato.
Il problema,
tuttavia, è che le politiche portate avanti dai governi nazionali sotto la
dettatura dei centri di potere finanziario europei, lungi dal risolvere la
crisi in atto, evidentemente la stanno aggravando. Quando si dice che la cura è
peggiore del male. Come in molti fanno notare, ormai, i continui tagli alla
spesa pubblica, figli delle dissennate politiche di austerità imposte
dall’Europa, stanno avendo effetti esattamente opposti a quelli che si
prefiggono: meno consumi e occupazione, più debito e speculazione. Si è
innescata una spirale austerità/recessione, d’altro canto, che sta ammazzando
le nostre economie, negando ogni prospettiva di futuro alle giovani
generazioni.
Diciamolo più
chiaramente: i parametri di compatibilità europea, da Maastricht in giù, fino a
quelli imposti dai trattati sul Fiscal compact e sul Mes, in questo quadro
appaiono sempre più come il cappio che stringe il collo dei paesi membri, non
tanto la garanzia della loro stabilità od il presupposto del loro futuro
benessere. E non c’è bisogno di evocare la Grecia per rendersene conto, basta
guardare in casa propria.
E se ciò sta
accadendo, è potuto accadere, è perché la “funzione politica” in Europa è ormai
transitata dai governi e dai parlamenti alle burocrazie finanziare: oggi in
Europa la politica economica la fa più la Bce che i governi nazionali e la
stessa Commissione.
Come ha fatto
correttamente osservare Mario Tronti, in suo libro intitolato La politica al
tramonto, il tratto distintivo della politica moderna è stata la sua
autonomia, il suo rapporto “agonico”, conflittuale, con l’economia e le
sue leggi. Ma anche la sua capacità di scendere a compromessi, di trovare forme
di mediazione col potere economico. Proprio quello che manca oggi, nel contesto
di sostanziale esautoramento della politica da parte di organismi non
democratici per definizione.
Ma chiediamoci:
cos’è la politica senza conflitto? Qual è la sua funzione senza dialettica tra
distinte opzioni programmatiche e visioni del futuro, senza l’appartenenza ad
un campo anziché ad un altro? La risposta è semplice: né più né meno che
sterile politicantismo, carrierismo, fredda amministrazione della cosa
pubblica, subalternità al potere economico.
Esattamente quello
che succede oggi nelle nostre società, dove, con la politica al crepuscolo, le
differenze tra le varie soggettività in campo sono assolutamente fittizie,
tutte facilmente ricomponibili nell’ambito della comune appartenenza al partito
della conservazione dell’esistente.
Da questo punto di
vista la vicenda del governo Monti è stata proverbiale, chiarificatrice.
Partiti e movimenti che per anni si sono combattuti aspramente si sono poi
ritrovati insieme a comporre la maggioranza del nuovo governo dei professori.
Forse perché hanno cambiato idea sulle loro vecchie posizioni? No, è tutta
un’altra questione: ciò su cui per anni si sono divisi non costituiva nulla di
dirimente rispetto agli attuali assetti economici e sociali, italiani ed
europei. La lotta era condotta esclusivamente su un terreno che potremmo
definire “politicista”: è stato un rinfacciarsi continuo di cose che, in linea
generale, nulla avevano a che vedere con visioni contrapposte della realtà, con
la prospettazione di diversi modelli di sviluppo per le nostre società. Per
questo si sono potuti ritrovare insieme, a sostenere senza troppi sacrifici le
misure proposte dal governo Monti.
Il grande tema di
oggi è dunque l’autonomia della politica. Ma una politica autonoma ha
bisogno, oltre che di forme organizzative adeguate e chiari punti di vista
sulle questioni dirimenti dell’attualità, anche di una visione generale dei
rapporti di forza in campo e di un’idea condivisa della prospettiva storica.
Non sto proponendo un ritorno ad ideologie escatologiche, che andrebbero ad
ingabbiare l’azione degli attori politici in visioni astratte della realtà,
senza aderenza alle condizioni oggettive dell’economia e della società. No. Ciò
di cui sto parlando è l’auspicio che nella nostra società possano trovare
spazio, svilupparsi, nuove culture critiche della realtà, capaci di sostenere
l’azione di partiti e movimenti realmente alternativi al modello capitalistico
oggi dominante.
In questo senso
lasciano ben sperare certe forme di movimentismo che stanno cercando di farsi
strada nelle nostre società, promuovendo una critica dal basso degli attuali
assetti di potere in Europa e delle folli politiche di austerità che gli stati
membri stanno pervicacemente adottando. Essi, al di là delle rivendicazioni
contingenti, possono contribuire a scuotere il palazzo ed un sistema politico
anchilosato, ripiegato su se stesso, del tutto autoreferenziale. Possono
contribuire a riformare le nostre democrazie, perché la questione
dell’autonomia della politica, diciamolo chiaramente, ha molto a che fare con
la loro qualità.
D’altronde sarebbe sbagliato considerare la democrazia
solo un insieme di regole a presidio della libertà dei cittadini. La sua vera
essenza risiede nel dare rappresentanza e forza di governo alle idee che
promanano dalla società, attraverso la mediazione delle forze politiche e delle
organizzazioni di massa. Cosa succede oggi nelle nostre democrazie? L’azione
dei governi è realmente l’espressione della volontà popolare? Il potere
decisionale risiede effettivamente nel parlamento e nei governi nazionali? Chi
afferma questo dice il falso, evidentemente. La crisi della politica risiede
sempre più nella sua inutilità, essendo la sua attuale funzione quella di dare
il crisma dell’ufficialità e della cogenza a decisioni prese in altre sedi.