mercoledì 29 febbraio 2012

Occupare la crisi

di Anna Curcio e Gigi Roggero*
Il 17 dicembre 2010 Mohamed Bouazizi (ventiseienne, diplomato, costretto a fare il venditore ambulante di frutta e verdura per campare) si immola nella città tunisina di Sidi Bouzid, per protestare contro l’arroganza della polizia e l’insopportabilità delle condizioni di vita. Pochi, allora, potevano pensare quel gesto come l’inizio simbolico di un processo insurrezionale che avrebbe condotto alla caduta del regime di Ben Ali e a quello di Mubarak in Egitto, per poi estendersi ad ampie aree del Nord Africa e del cosiddetto mondo arabo. Ed era ancora meno facile prevedere che ciò sarebbe stato il preludio di una sollevazione globale dentro la crisi economica contemporanea. Non si è trattato, tuttavia, di un evento privo di radici: al contrario, in Tunisia come altrove le genealogie sono profonde e complesse. Da un lato, affondano nei conflitti operai e studenteschi, nelle lotte e nelle dinamiche di sedimentazione politica e organizzativa che hanno attraversato l’ex colonia francese a partire dagli anni Ottanta. Dall’altro, la composizione che ha guidato il processo insurrezionale – giovani, altamente scolarizzati e produttori di saperi, precari e disoccupati, in qualche modo simboleggiati dalla biografia dello stesso Bouazizi, a cui si può aggiungere il grande protagonismo delle donne – ha in tutta evidenza tratti affatto comuni con i movimenti che si sono sviluppati nella crisi sull’altra sponda del Mediterraneo, dall’Inghilterra all’Italia, dall’Austria alla Grecia, e poi ancora in Cile e, appunto, negli Stati uniti.
Non è solo, allora, un ponte ideale che collega i movimenti del Nord Africa a quelli del Nord America. Esattamente nove mesi dopo che il fuoco aveva avvolto il corpo di Bouazizi, il 17 settembre 2011 alcune centinaia di altri corpi sfruttati che bruciano di indignazione si sono sollevati raccogliendo l’appello lanciato dalla rivista militante canadese Adbusters il 4 luglio precedente su Twitter con l’hashtag Occupy Wall Street, insediandosi in quello che è considerato il “ventre della bestia”. In tempi maledettamente accelerati, Occupy si è allargato e rafforzato, procedendo in modo estensivo e intensivo: ha superato i confini di Wall Street per diffondersi in tutti gli Stati uniti, travolgendo narrazioni consolidate, dettando una nuova agenda politica. Del resto, se il distretto finanziario newyorchese rappresenta simbolicamente il cuore del capitalismo contemporaneo, la crisi mostra come la sua materialità permei spazi e tempi di tutte le aree del mondo, senza un fuori e, tutto sommato, senza un centro. La composizione del movimento – che da subito ha assunto il nome comune dalla sua pratica qualificante, Occupy – è ancora una volta simile a quella delle lotte già ricordate. Perciò riflettere su Occupy Wall Street ci porta, necessariamente, a interrogarci sui caratteri non esclusivamente contingenti e locali del movimento.
È questa una chiave di lettura dei testi qui selezionati, che nel loro insieme crediamo configurino un’imprescindibile documentazione: sono materiali di inchiesta e narrazione estremamente produttivi, disegnano un’agenda di questioni e nodi politici che si aprono di fronte a tutte e tutti noi. Sufficientemente variegati per offrire uno spaccato di alcune delle figure e dei temi che hanno animato i dibattiti e i discorsi del movimento, sufficientemente profondi per consentirci di fare un passo in avanti nella comprensione e nella riflessione. Anche in questo senso, i contributi raccolti sono chiari: Occupy Wall Street non viene dal nulla. La sorpresa e l’entusiasmo militante per la scoperta di una forza collettiva, si unisce così alla nitida lettura delle tracce e dei fili genealogici che vengono dal ciclo di movimento globale cominciato a Seattle e contro la guerra, così come la capacità di mobilitare e far proprie storie ed eredità di lungo corso, ad esempio le lotte operaie o dei neri e delle donne negli anni Sessanta e Settanta, oppure più di recente le straordinarie mobilitazioni dei latinos contro la clandestinizzazione dei lavoratori migranti. Il non aver scorto le condizioni di possibilità del movimento, ci dicono in modi diversi i vari articoli e discorsi, è stato dovuto all’incapacità di guardare, non al fatto che non ci fosse niente da vedere. C’è infatti un vizio radicato nella sinistra, particolarmente sensibile in quella americana: dipingere un’immagine totalitaria del dominio capitalistico, finendo per disincarnare i processi e privandosì così della possibilità di agire per trasformarli. Tale immagine, che pure trovava nella contro-rivoluzione reaganiana e neoliberale dei motivi reali o delle apparenti giustificazioni, si è rivelata ancora una volta errata. Se è impensabile l’evento nel suo concreto manifestarsi, non lo sono certo le sue condizioni di possibilità.
D’altro canto, già tra febbraio e marzo “l’insurrezione del Wisconsin” – per riprendere la definizione che ne dà Franco Barchiesi – costituiva un’importante anticipazione di quello che sarebbe successo nei mesi successivi. “Se ci fottete, ci moltiplichiamo”, scrivevano i manifestanti sui loro striscioni. Promessa mantenuta. È stata un’anticipazione dal punto di vista della centralità dei temi: crisi e welfare, ovvero la battaglia contro l’espropriazione delle risorse prodotte in comune. Lo è stata dal punto di vista della composizione sociale, nel combinarsi di una working class passata attraverso la deindustrializzazione e la disoccupazione e una middle class definitivamente declassata. Lo è stata, certamente, dal punto di vista delle pratiche, con quell’occupazione del Campidoglio che – lungi dal restaurare la non più ripetibile mitologia del palazzo d’inverno – mostra invece le nuove forme di lotta ed espressione della moltitudine contemporanea. Lo è stata, infine, per il problema che ha agito e che resta insoluto: la costruzione di una democrazia del comune, ovvero di nuove istituzioni non rappresentative. Altrettanto evidente e anticipatrice, già a partire dalla mobilitazione del Wisconsin, era poi la riconosciuta connessione con le insorgenze in Nord Africa. Lo abbiamo visto nei tanti cartelli che richiamavano la necessità di “fare come in Egitto” e, di rimando, nelle provviste alimentari che i manifestanti del Cairo hanno ordinato per gli occupanti di Madison. Tra la primavera e l’autunno, le occupazioni di piazza sono diventate la forma generalizzata delle lotte: dal 15-M spagnolo, con le acampadas di Puerta del Sol a Madrid e di decine e decine di centri grandi e piccoli, a piazza Syntagma ad Atene, fino ad arrivare agli accampamenti in Israele.

*estratto dall’introduzione di OCCUPY! I MOVIMENTI NELLA CRISI GLOBALE