lunedì 1 settembre 2025

CON L’ESCLUSIONE DEL LAVORO VIVO L’ALGORITMO DELL’AI È IMPRODUTTIVO

-Valerio De Stefano-

un nuovo rapporto MITIllustr


azione di Gary Waters/Ikon

Un nuovo rapporto legato al Mit mostra ch il 95% dei “pilot” di intelligenza artificiale non produce impatti misurabili sulla produttività E se il vero problema dell’Intelligenza artificiale nelle imprese fosse il modo in cui la stanno introducendo? 

Un nuovo rapporto legato al Mit mostra che il 95% dei “pilot” di intelligenza artificiale non produce impatti misurabili sulla produttività. Non solo perché i modelli “non funzionano”, ma perché vengono calati dall’alto, senza entrare davvero nel lavoro vivo e nei processi quotidiani.

Una delle possibili spiegazioni è che manager e programmatori non conoscono il lavoro come le lavoratrici e i lavoratori. Il lavoro reale è fatto di eccezioni, saperi taciti, micro-decisioni e compromessi operativi che nessuna soluzione calata dall’alto può catturare. Quando l’AI arriva come un software “chiavi in mano”, rischia di irrigidire i flussi, aumentare la burocrazia digitale e fermarsi nel purgatorio dei progetti pilota.

C’è però un’altra strada, documentata da ricerche comparate: coinvolgere la voce del lavoro, ex ante. Un nuovo Working Paper dell’ILO curato da Virginia Doellgast mostra casi da tutto il mondo in cui dialogo sociale e contrattazione collettiva hanno riorientato l’AI dal sostituire al “complementare” il lavoro, dal controllo all’empowerment, dallo spiazzare all’incardinare le innovazioni dentro tutele e percorsi di riqualificazione. Dove esistono organismi rappresentativi, regole sul confronto e vincoli all’“uscita” datoriale (automazione/esternalizzazione), l’AI rende di più, con meno conflitti e più qualità.

Tutto questo è cruciale anche perché finora abbiamo puntato quasi solo sulla privacy. Ma il cuore dell’“algorithmic management” non è (solo) il trattamento dei dati: è l’estensione e l’opacizzazione dei poteri datoriali su assunzioni, assegnazione dei turni, intensità e tempi di lavoro, sorveglianza, valutazioni, premi e sanzioni, fino ai licenziamenti automatizzati. Se riduciamo tutto al consenso e all’informativa sui dati personali, lasciamo intatto l’impianto di comando. Servono regole che riequilibrino il potere, garantendo trasparenza funzionale (come e per che cosa si usa l’AI), verificabilità delle decisioni, diritto di contestazione e co-progettazione dei sistemi con chi il lavoro lo fa.

In questo quadro, il Parlamento europeo discuterà una proposta di direttiva sull’algorithmic management. È un passo avanti importante: riconosce che gli strumenti algoritmici organizzano, monitorano e valutano il lavoro. Ma perché la direttiva sia all’altezza della situazione, la politica deve riconoscere che la sola privacy non basta. Occorre spostare l’asse dall’“informazione e consultazione” (che lascia l’ultima parola all’impresa) alla contrattazione collettiva sui sistemi algoritmici, perché qui sono in gioco condizioni base: orari, salari, organici, carriere, sicurezza e salute, stabilità occupazionale.

In concreto: nessuna adozione unilaterale di strumenti che incidono su tempi, retribuzioni, mansioni; valutazioni d’impatto sull’organizzazione del lavoro negoziate e trasparenti; accesso sindacale agli algoritmi (logiche decisionali, soglie, dati usati) e test pilota dell’adozione di nuovi sistemi; diritto a fermare o rimodulare i sistemi che generano discriminazioni, intensificazione del lavoro o rischi per la salute; percorsi di riqualificazione garantiti e finanziati quando l’automazione cambia le mansioni. Questo non “frena l’innovazione”: la orienta verso produttività di qualità e consenso sociale, come mostrano i casi raccolti dall’ILO.

L’Europa e l’Italia possono scegliere: continuare a chiedersi come deregolamentare ancora di più la tecnologia a vantaggio di progetti-vetrina che gonfiano slide e bilanci ma non funzionano, o fare dell’AI un terreno di democrazia industriale. La seconda via non richiede miracoli: chiede tempo di progettazione condiviso, istituzioni della partecipazione (RSU, RLS, comitati congiunti su dati e algoritmi), contratti che definiscano scopi, limiti e responsabilità. È la via che riduce il rischio di fallire come in quel 95% di progetti pilota, e che restituisce all’AI la sua promessa: potenziare il lavoro, non sostituirlo; migliorare la qualità, non comprimere diritti.

Se davvero si crede che l’innovazione debba servire alla società, coinvolgere chi lavora non è un orpello: è quello che rende la tecnologia davvero “intelligente”. La politica europea ha l’occasione – ora – di scriverlo nero su bianco. Sta a tutti noi pretenderlo.

immagine: un particolare dell'Illustrazione di Gary Waters/Ikon

fonte:ilmanifesto