venerdì 23 febbraio 2024

CHIAPAS E CONFINI

-Associazione Ya Basta! Êdî Bese!un dialogo con il "Nodo solidale Mexico" 

  Rilanciamo da Global Project un "dialogo-intervista" a cura di Ya Basta! Êdî Bese! al Nodo Solidale, un collettivo nato nel 2007 e aderente alla Sexta, che si occupa di solidarietà e informazione tra il Messico e l'Italia


Negli ultimi anni, il rapporto con il Nodo solidale Mexico, attraverso le tante attività politiche svolte assieme, si è intensificato in una relazione che vogliamo ulteriormente mettere a frutto attraverso le varie progettualità che come associazione Ya Basta! Êdî Bese! stiamo provando a intraprendere. Percepiamo le resistenze indigene organizzate in Messico come un laboratorio politico. Dal ruolo strategico e fondamentale dell’organizzazione zapatista, che ha appena compiuto trent’anni, passando per le varie esperienze autonome che difendono la propria terra dall’estrattivismo e da un tentativo di americanizzazione delle culture originarie, c’è la necessità di continuare di camminare al fianco di queste esperienze. Attraverso una serie di domande a vari compagni e compagne del Nodo solidale Mexico, proviamo a tracciare un dialogo che aiuti a comprendere la complessità della situazione che ora il sudest messicano (e non solo) sta attraversando. Il dialogo non ha la velleità di essere risolutivo o ha intenzione di esprimere giudizi, ma vuole provare a mettere in luce, a partire da alcune esperienze, la difficile situazione di guerra che il Messico sta attraversando. Mentre scriviamo questo testo, sono decine i morti per mano dei cartelli delle varie organizzazioni criminali in guerra tra loro per il controllo territoriale, il presidente AMLO bacchetta il movimento aderente Sexta zapatista ed in particolare l’EZLN, i morti sui confini non si riescono nemmeno a contare…

Iniziamo questo nuovo anno, il 2024, in un contesto come quello messicano di continue mutazioni geopolitiche nelle quali i vari poteri istituzionali stanno rivalutando il ruolo strategico del confine sud dello stato, dentro un continuo processo di sfruttamento delle persone e del territorio. Ma andiamo con ordine, cercando di contestualizzare meglio la situazione.

Chi è il Nodo Solidale Mexico e dove lavora principalmente? 

Il Nodo Solidale è un collettivo internazionalista che nasce nel 2007, con l’idea di connettere le lotte “in basso a sinistra” tra l’Italia e il Messico, profondamente ispirata dall’allora travolgente Otra Campaña e dalla sempre attuale Sesta Dichiarazione della Selva Lacandona dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN). Il collettivo negli anni ha quindi moltiplicato gli sforzi su entrambe le sponde dell’Atlantico, con la costante ricerca, conoscenza e diffusione di quelle resistenze locali improntate all’autogestione della vita e dei beni comuni, distanti – come noi – dagli interessi e dai giochi elettorali. 

In Italia il collettivo fa sede a Roma, mentre in Messico la maggioranza di noi vive a San Cristobal de Las Casas, nello stato più meridionale del Paese: il Chiapas. 

Come compagni e le compagne del Nodo, oltre a promuovere progetti di collaborazione dal basso fra le varie resistenze comunitarie, ispirati alle grandi esperienze di autogestione popolare come nei campi dei rifugiati in Palestina o nelle montagne del Kurdistan e del Chiapas, ci consideriamo in qualche modo come “promotori di autonomia”, ovvero proviamo – con errori e lentezze inevitabili – a costruire spazi di autorganizzazione, sia sul lavoro o nei quartieri o nelle campagne o dove è possibile appunto fare breccia. Per questa ragione ci siamo quindi immersi nella vita politica del quartiere di Cuxtitali, periferia popolare di San Cristobal, dove la maggior parte di noi vive. 

Come sono le relazioni nel Barrio Cuxtitali con le esperienze portate avanti e come si relazionano i progetti con la gestione autonoma particolare che il quartiere si dà ed in che situazione geopolitica si trova il Barrio ed in generale San Cristóbal de Las Casas? 

L’antico Barrio di Cuxtitali si trova ai margini di San Cristobal de Las Casas, a ridosso dei boschi della zona orientale della città. Per la sua forte identità ribelle, propria di un quartiere operaio e popolare, era detto a suo tempo “Barrio Bravo” (traducibile come Borgata Fiera). 

Di quell’antica fierezza, che risale a più di cinquecento anni fa quando qui vivevano i primi indigeni che facevano da manovalanza sfruttata per i Conquistadores che costruirono l’insediamento di Ciudad Real, oggi ne resta un’effervescente eredità politica che si esprime nelle manifestazioni culturali e popolari del quartiere, nell’autogestione comunitaria della sorgente di acqua potabile e nella lotta a difesa del territorio e dei boschi che circondano quest’area.

Attualmente la zona di Cuxtitali è sotto il fuoco incrociato di gruppi criminali legati a grandi cartelli “narcos” rivali, radicati in due quartieri adiacenti. Inoltre, storicamente la zona è sotto la mira dell’industria delle bevande in bottiglia che punta a privatizzare, con l’appoggio delle corrotte autorità municipali, le sorgenti che forniscono acqua potabile agli abitanti del quartiere. 

Infatti, essendosi sviluppata ai margini di San Cristobal e da sempre ghettizzata dai poteri economici razzisti del centro della città, Cuxtitali ha gestito per secoli la fornitura di acqua in maniera indipendente dalla città, approvvigionandosi direttamente prima ai pozzi e poi alle sorgenti d’acqua di montagna, poco distanti dal Barrio Bravo. 

A partire dal 1972, di fronte all’assenza di servizi offerti da parte del Comune in questa zona “emarginata”, l’approvvigionamento d’acqua è diventato un vero e proprio sistema comunitario indipendente da qualsiasi agenzia istituzionale, retto e gestito dalla partecipatissima assemblea dei soci. Oggi infatti sono 1400 le famiglie che ricevono acqua potabile attraverso questo sistema, le cui chilometriche tubature sono state costruite e installate con il lavoro collettivo degli abitanti del quartiere. 

In questo contesto di autogestione popolare di un bene di prima necessità e collettivo abbiamo avviato, come abitanti del quartiere, prima un’esperienza di ambulatorio popolare (2016-2023) – al momento terminata – e, successivamente (dal 2021), abbiamo dato vita a una palestra popolare chiamata Gimnasio Autonomo Popular “Barrio Bravo” con l’idea di spostare il “problema” della salute verso la prevenzione e verso i più giovani e, non secondariamente, utilizzare l'accessibilità allo sport come uno strumento di aggregazione e di resistenza sana contro le incursioni, sia fisiche che “culturali”, dei narcos. 

Potremmo definirlo un tentativo comunitario di costruzione della pace dal basso, con la speranza di creare nei più giovani (i corsi della palestra sono diretti principalmente a bambini dai 6 ai 15 anni) gli anticorpi necessari per non cadere nella dura formula povertà uguale "emigrazione o narcos". La palestra autonoma e popolare Barrio Bravo è nata inizialmente in un locale in affitto ma è passata poi a essere costruita da zero in un terreno in un parco del quartiere, assegnato e approvato dall’assemblea di quartiere, nel febbraio del 2022. È oggi un progetto comunitario in costante relazione con le “istanze autonome” di Cuxtitali. 

Come vedete l’avanzamento della guerra narcos, che voi chiamate guerra di frammentazione territoriale, in relazione al cambio di importanza strategica che assume il confine tra il Messico e il Guatemala e ai vari mega progetti e grandi opere in fase di costruzione? 

Quello che succede a Cuxtitali, che abbiamo appena raccontato, è un po’ lo specchio del Messico e specialmente della situazione negli stati meridionali di Guerrero, Oaxaca e Chiapas (che sono anche quelli con la maggioranza della popolazione indigena e contadina). 

I territori e i loro difensori non solo sono minacciati direttamente dallo Stato e dalle forze dell’ordine (come da sempre in questo Paese) ma anche e soprattutto dalle varie bande criminali, che definiamo “narco-paramilitari”, che scorrazzano impunite nei territori in resistenza seminando il panico, con l’obbiettivo – più o meno diretto o più o meno occulto – di inibire la capacità di organizzazione e resistenza della cosiddetta “società civile” o meglio dei gruppi organizzati in lotta. 

Il Chiapas, e in particolare la sua frontiera sud col Guatemala, è campo di battaglia fra cartelli della droga che si contengono il controllo del traffico di stupefacenti e dei migranti. 

Negli ultimi due anni nella zona di Frontera Comalapa e Chicomuselo (municipi con forte presenza di imprese minerarie e di forte resistenza popolare a queste) si è scatenato l’inferno, si sa (senza poter avere un conteggio esatto e ufficiale) di centinaia di morti, TIR bruciati, villaggi presi d’assalto, giovanissimi reclutati a forza o giustiziati sul posto. L’esercito, immobile di fronte all’agire assassino dei cartelli, è entrato nelle ultime settimane giusto nelle poche comunità contadine che stanno resistendo, spianando ancor di più la strada ai gruppi criminali e quindi al saccheggio. 

Al momento si contano più di 3000 persone costrette alla fuga tra le montagne, famiglie intere sfollate da questa narco-dittatura, profughi interni di un Paese alla sfascio. Questa situazione va moltiplicata per centinaia di altri luoghi in tutto il Messico. 

Anche in un città turistica come San Cristóbal de Las Casas la situazione è sempre più grave: differenti organizzazioni sociali indigene che già lavoravano come forze paramilitari e mercenarie al servizio di diversi partiti politici, oggi si sono associate a grandi cartelli criminali, disputandosi la città a colpi d’arma da fuoco. 

Varie volte, nell’ultimo anno, la città è rimasta preda di continue sparatorie tra i gruppi d’assalto delle organizzazioni in conflitto: in pieno giorno sono state incendiate case, sono stati realizzati blocchi stradali da parte di gruppi fortemente armati che hanno sparato per più di dieci ore consecutive, senza nessun intervento delle forze dell’ordine o dell’esercito. 

In questo scenario di guerra frammentata e localizzata, ma diffusa, la sinistra indipendente e la società civile più critica cercano di smascherare le responsabilità del governo “progressista” di Andrés Manuel López Obrador e le sue politiche economiche: infatti i mega-progetti promossi dal governo federale oltre a saccheggiare i territori indigeni favoriscono l’espansione di questi violentissimi gruppi narcos che vogliono conquistarsi “le piazze” e agiscono nella completa impunità; le azioni di denuncia delle organizzazioni sociali si scontrano con un muro di gomma, denigrate e ignorate dalla sinistra istituzionale e pressate dalle forze impari dei narco-paramilitari. La distruzione del tessuto sociale e i continui e feroci assassinii commessi da questi gruppi, che spesso agiscono in combutta con l’Esercito Federale e le forze di polizia, rende sempre più difficile l’agire politico autonomo e critico. Insieme ai movimenti sociali latinoamericani definiamo questa strategia come “guerra di frammentazione territoriale” che esaspera la popolazione civile, dividendola una miriade di micro-conflitti locali, solo apparentemente isolati. 

È una situazione di caos violento e confuso (e indotto): chi crede di poter costruire un mondo migliore in mezzo a sparatorie, stupri, saccheggi e con tutto contro, partiti politici, polizia e narcos? 

È difficilissimo ma proprio per questo dobbiamo sostenere e difendere l’alternativa del progetto politico zapatista che ha dimostrato durante questi 30 anni di autogoverno, in mezzo alla catastrofe, che è possibile vivere in autonomia, con dignità, in una democrazia radicale senza Stato costruita dal basso, nel rispetto della natura e dei diritti fondamentali delle donne e delle dissidenze sessuali. Uno spazio di libertà e uguaglianza reali, in un Messico che assomiglia sempre più a un’immensa fossa comune. 

In un contesto non sintetizzabile e semplificabile come quello sopra tracciato, come avete vissuto la fuoriuscita dal silenzio dell’EZLN che dopo la Gira por la vida non aveva ancora ufficializzato alcune modifiche del loro modello di autonomia territoriale? 

Era in ballo questa gran trasformazione sin dal 2019, quando in effetti ci fu una chiusura momentanea delle comunità zapatiste verso l’esterno, prolungatisi poi col Covid-19 e con le misure di sicurezza successive necessarie per ripensare l’autonomia in questo contesto appunto di guerra molecolare e frammentata. 

Non ci stupisce ma ci rincuora ogni volta venire a sapere come questa organizzazione di riferimento – per chiunque creda e si sforzi nella costruzione dell’autonomia come spazio di contropotere popolare – sappia rinnovarsi attraverso un dialogo costante con la propria base, la gente stessa che la compone e vive. 

Senza troppi fronzoli ideologici ma con principi solidi, l’EZLN punta sempre più a una decentralizzazione del potere politico (e della capacità di autodifesa), con la speranza di rendere la struttura organizzativa sufficientemente flessibile per reggere l’impatto della crisi ecologica, sociale e politica in corso: quella che definiscono nei loro comunicati “la tormenta”. Noi nel nostro piccolo osserviamo, analizziamo e ci chiediamo quali forme organizzative fra le nostre sono obsolete e quali sono adeguate per rispondere al collasso che si respira localmente e nel mondo. 

Viene coniato il termine COMUNE dal ventesimo documento apparso, e ripetutamente citato dal Subcomandante Moisés nel discorso di capodanno nel giorno del trentennale dal momento passato alla storia come Levantamiento zapatista. Ad alcune realtà potrebbe confondere la non comprensione di questo passaggio, a noi sembra una sfida innovativa ed importante che sembra essere venuta anche dalla composizione più giovane della realtà zapatista. Come la leggete? 

Francamente preferiamo vedere il risvolto pratico di questa “proposta-bomba”, come lo stesso Subcomandante Moises ricorda. Al di là della teoria più o meno socialista, una proposta è buona (e quindi accettata e praticata dalla miriade di assemblee popolari che compongono il movimento zapatista) solo se funziona nella pratica.

Vedremo, vedremo anche gli errori e da lì apprenderemo, così come abbiamo appreso da tanti altri aspetti dell’autonomia zapatista, praticati nella realtà, piedi a terra. Vivere in Messico ci ha insegnato che esistono delle proposte di gestione della terra (o dei mezzi di produzione o dei beni condivisi) che superano la dicotomia pubblico/privato, dove il pubblico è sinonimo di Stato e il privato è la supremazia del diritto dell’individuo. L’ejido o la propriedad comunal sono esempi di proprietà sociale dove nè lo Stato nè l’individuo sono i possessori definitivi del bene comune, ma l’assemblea dei soci che gestisce il bene comune in questione. Per quel che intuiamo la proposta della “non proprietà comune” degli zapatisti radicalizza perfino questo concetto della proprietà sociale, lo sburocratizza, andando oltre alla Riforma Agraria e fa della frase di Magon (e poi di Zapata) “la terra è di chi la lavora” un vero meccanismo di organizzazione ri/produttiva, attorno alla quale si rigenera la comunità, in termini economici, sociali e politici. 

Da un punto di vista più “filosofico” potremmo azzardare che questa proposta rievoca e insiste sul fatto che siamo solo di passaggio su questo pianeta e che la Madre Terra in fondo non ha padroni ma solo figli che può sfamare se eventualmente ne prendono cura. Non ha senso esserne proprietari, è solo un gioco di specchi (e di inutili cartacce) fra le persone, il Capitale e lo Stato. 

Senza velleità di verità assoluta, cosa possiamo fare nelle diverse parti del mondo perché situazioni come questa siano visibili in un quadro nel quale le guerre vanno intese tutte come il tentativo del capitale di continuare ad adeguarsi depredando e sfruttando il più possibile? 

Organizzarci, lottare, resistere e creare. Insieme. 

Come? 

Lo stiamo ancora scoprendo, considerando che la grammatica, i paradigmi e le forme storiche della lotta di classe sono state polverizzate dalle velocissime trasformazioni storiche di fine millennio e la accelerata situazione di collasso ecologico e civilizzatorio. 

L’EZLN in Chiapas e il PKK in Kurdistan ci dimostrano come è possibile autogestire la vita, i beni comuni e come difendere quest’autorganizzazione della società dai molteplici nemici, dall’idra dalle mille teste, che ci vuole distruggere e sfruttare. Entrambe dimostrano che hanno potuto raggiungere questo livello di trasformazione sociale uscendo dal dogmatismo ideologico del marxismo di Stato, contaminandosi con i saperi locali e le forme proprie di resistenza culturale, senza vendersi, senza cedere al riformismo spiccio nel quale sono evaporati tanti movimenti armati. 

In un mondo dominato da poche imprese che usano i governi nazionali come amministratori delle loro succursali siamo tutti immersi in conflitti locali, nella difesa assoluta e necessaria del nostro metro quadrato di trincea. Eppure dobbiamo continuare a parlarci tra differenti, tra lotte simili pur in lingue diverse o tra lotte diverse di uno stesso territorio, fare di questa diversità – che è l’essenza della vita – la nostra indistruttibile e variopinta bandiera di resistenza. Chiamiamo questo continuo conoscersi, evocarsi e ispirarsi delle lotte “complicità globale”, dove ognuno è quel che sceglie di essere ma in costante azione solidale con l’altro, con il prossimo. 

È andare oltre il “turismo rivoluzionario” e condividere e moltiplicare le barricate, scambiare tecniche e tattiche di resistenze, piangere insieme nelle sconfitte, costruire piccoli ma solidi progetti fra diversi. “Sudore e pane” come dicono i curdi, “il lavoro collettivo” come dicono gli zapatisti, la pratica comune e reale della resistenza, come vorremmo noi. 

Ci vedremo presto!? Il vostro prossimo importante appuntamento?

Come collettivo Nodo Solidale siamo parte di un alleanza chiamata Alianza Magonista Zapatista (AMZ), dove condividiamo l’analisi politica con due organizzazioni indigene di Oaxaca (OIDHO e CODEDI) e con un collettivo libertario di Città del Messico (CAMA). Con quest’alleanza stiamo organizzando, a fine marzo, un campo di formazione politica per giovani, invitando non solo i ragazzi e le ragazze delle strutture menzionate ma anche di un’altra decina di organizzazioni affini, anticapitaliste, sia indigene che urbane. L’idea è condividere – nell’autogestione pratica del campeggio appunto – i differenti strumenti dell’autorganizzazione, tra strutture di lotta così diverse però che possono tutte imparare le une dalle altre. 

Urge rinnovare la capacità d’azione e d’analisi con menti più fresche in grado di cogliere le trasformazioni in atto in maniera più azzeccata di noi e allo stesso tempo è così necessario non perdere la millenaria memoria di resistenza di tanti movimenti di cui anche noi siamo discendenti e custodi. Ci proveremo, almeno. E in questo tentativo, ci rivedremo senz’altro, compagn* di strada!


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