giovedì 22 febbraio 2024

IL POSTO DELLE DONNE E IL RICATTO DELLA SOPRAVVIVENZA

Politiche autoritarie del presente -Cristina Morini-

Lo sperimentiamo, nella materialità, ogni giorno: in presenza di inflazione, le retribuzioni del lavoro tendono a diminuire in termini reali, poiché non esistono più meccanismi automatici di adeguamento dei salari all’aumento dei prezzi. Eppure, l’informazione cerca di convincere chi legge e chi ascolta con opposte impressioni
 

Qualche giorno fa due notizie spiccavano sulle prime pagine dei giornali e in apertura dei telegiornali: nel mese di dicembre, l’occupazione avrebbe raggiunto un massimo storico (dall’Unità d’Italia) con 14.000 posti di lavoro nuovi, che portano il numero dei lavoratori occupati a ben 23 milioni 754mila. Contemporaneamente, nel corso del 2023 le retribuzioni contrattuali (lorde) sarebbero aumentate del 3,1 per cento.

Si omette, naturalmente, di ricordare che da un anno a questa parte l’Istat ha modificato i criteri di rilevazione degli occupati. Come è già stato fatto notare su Effimera, oggi a differenza del passato, è sufficiente aver lavorato un’ora (sì, avete letto bene, un’ora) nelle tre settimane precedenti la rilevazione statistica per essere considerati/e occupati/e. Grazie a questo “accorgimento”, improvvisamente, l’occupazione italiana è aumentata di quasi mezzo milione di persone in un solo anno, ma senza alcun reale ed efficace impatto sulla crescita, come persino Il Sole24 Ore è stato costretto a riconoscere.

Ma analizziamo alcuni dati. L’occupazione femminile è stata fortemente compromessa durante il periodo sindemico, viste le misure gestionali che hanno accompagnato la pandemia e che hanno avuto conseguenze importanti sui modi in cui la società è ritornata a immaginare il posto delle donne, visti i ruoli di assistenza e cura che sono stati loro obbligatoriamente assegnanti, mentre gli ospedali erano impraticabili e le scuole chiuse. Negli ultimi due anni, pur finita la fase dall’emergenza, la situazione non si è modificata molto e il numero delle occupate è aumentato della metà rispetto agli uomini e nel mese di dicembre 2023 è addirittura diminuito di 5000 unità. Per ciò che riguarda l’occupazione, le dinamiche si sono invertite rispetto ai decenni precedenti e cresce soprattutto la componente maschile.

Il sistema di fabbrica (qualunque “fabbrica”, materiale o cognitiva non cambia di molto) alle donne è sempre andato stretto (e lo ribadiamo): l’innaturale mondo fordista,  organizzato sul ritmo implacabile delle forme di produzione, che non tiene conto della vita e dei suoi momenti disomogenei, è stato, per lo più, respingente e respinto dalle donne.

Tuttavia, oggi non può sfuggire uno sforzo di riposizionamento gerarchico che serve a rinforzare la normalizzazione dei ruoli nel violento regime di molteplici guerre alla vita che stiamo sperimentando e che impongono precise modalità comportamentali a sessi e soggetti.

Nel periodo post-Covid, per quanto riguarda il lavoro femminile siamo tornati ai livelli dei primi anni Ottanta. Si è arrestato il processo di femminilizzazione del lavoro, caratterizzato da una ampia presenza di donne nel terziario e nei servizi, favorito anche dal fenomeno di quelle che sono state definite le catene globali della cura. Fenomeno che, pur con tutti i grandi limiti sottolineati, ha favorito altresì spostamenti globali, incontri, mescolanze, ibridazioni, dimestichezze quotidiane, a ciascuna forme differenti di uscita da differenti modelli arcaici.

Oggi, sebbene tra gli stranieri residenti in Italia le donne siano il 50,9 per cento (quasi 2,6 milioni), esse scendono al 42 per cento tra gli occupati (949.000) per risalire al 52,5 per cento tra i disoccupati (199.000). Inoltre, il loro tasso di occupazione (45,4 per cento) è in assoluto il più basso, rispetto sia agli occupati complessivi (58,2 per cento), sia alle donne italiane (49,9 per cento), sia agli uomini stranieri (71,7 per cento), dai quali sono distanziate di ben 26,3 punti percentuali (tra gli italiani il divario di genere è di 16,7 punti). Una sottorappresentanza statistica, questa delle donne straniere nei dati sull’occupazione regolare, che rimanda anche a un loro più ampio coinvolgimento nel lavoro nero. (Istat, 7 luglio 2023, dati estratti 2021).

Ovviamente, è del tutto chiara, ormai innegabile, la trasmigrazione dell’accumulazione all’interno dei percorsi della vita e della riproduzione: l’applicazione delle tecnologie al processo ri-produttivo (consumi, contatti, reazioni, relazioni, connessioni, visioni all’interno di una maglia sempre più larga di applicazioni tecnologiche) combina la più immediata e diretta socializzazione dei lavori (plurali) mai vista e i profitti conseguenti, senza necessità di mediazioni salariali.

Ciò che si intende sottolineare, tuttavia, nel commentare brevemente questi dati che indicano con chiarezza la parabola negativa dell’occupazione femminile che si è disegnata in questi anni, è come nell’ideologia organizzata della crisi permanente e dell’economia di guerra, essere “espulse”, private di reddito – e sempre più vincolato al lavoro – essere marginalizzate, essere sempre a rischio di verifica dei propri diritti, rappresenti un dispositivo che consente di ottenere una pesante forma di dipendenza e di obbligo verso il consenso dell’ordine sociale. Cioè di restaurare forme di atavica divisione sessuale del lavoro, con tutte le sfumature violente che questo meccanismo assume.

Perciò, il genere femminile è ancor più diffusamente costretto ad accogliere brevi lavori iperprecari e invisibili o a stare a casa, intrappolato nel lavoro di cura e di riproduzione sociale. Un lavoro a tutti gli effetti, sia chiaro, come parte del femminismo ripete da decenni ma anche di più, ma che continua a rimanere totalmente disconosciuto[1].

È evidente che proprio la costitutiva fragilità (impermanenza) della posizione lavorativa delle donne è alla base della selezione. Il rischio che vediamo è quello di una perpetuazione del disequilibrio e di una sempre più ampia fragilizzazione delle donne e dei gruppi subalterni. La femminilizzazione del lavoro va inquadrata in questo contesto: il capitalismo di piattaforma va portando a compimento la capacità di succhiare il linguaggio e l’agire della donna (e dell’uomo) e di farne un algoritmo, mentre la precarietà è forma di organizzazione di tutto il lavoro fondato sull’ampliamento abissale delle diseguaglianze.

I 14.000 occupati in più, menzionati nel rapporto Istat del dicembre 2023, sono il risultato di un aumento dei lavori a termine che coinvolgono 21.000 persone e a un incremento di 26.000 lavoratori autonomi (parasubordinati e partite iva eterodirette), a fronte di un calo del lavoro stabile di 33.000. Non si tratta, come si vede, di un rafforzamento del tessuto occupazionale, ma del contrario.

Del resto, se si tagliano i servizi sociali e i fondi pubblici vengono stanziati per gli armamenti[2] non è difficile comprendere quale tipo di prescrizioni si intendano applicare al quotidiano, ai vissuti delle persone, alle forme di vita: l’aumento della povertà si traduce infatti in possibilità di condizionamento, sollecitando per rubare ancora le parole alla meravigliosa Virginia Woolf, «l’umiltà che ci si attende dal nostro sesso e che si conviene ai supplici»[3].

Nel frattempo, il millantato aumento delle retribuzioni contrattuali del 3,1 per cento non significa un aumento del potere d’acquisto del lavoro. Non viene infatti spiegato, che, nello stesso periodo, il tasso d’inflazione per le famiglie di lavoratori e lavoratrici ha assistito a un aumento del 5,3 per cento. Ne consegue che, in media, il reddito reale da lavoro è diminuito del 2,2 per cento.

L’espulsione accade, dunque, anche a seguito di salari imbarazzanti, di mera sopravvivenza, che rendono davvero impossibile per le donne con figli o con carichi di cura accettare proposte scadenti che le vincolano, piuttosto, a rimanere a casa. Come pagare servizi assenti o privatizzati, come pagare i trasporti, come organizzare il ménage quando i soldi bastano appena per mangiare? L’esclusione delle lavoratrici madri o caregiver dal mercato del lavoro è un fenomeno ricorrente nei momenti di grande crisi e in questo Paese è strettamente connessa al modello di Welfare famigliare che si è dato sin dagli esordi.

Penso allora che in questo periodo violento della storia che stiamo vivendo, tra bombardamenti e desertificazione, il tema di una teoria dell’autorità ritorni centrale perché esplicita tutti gli elementi di una teoria del dominio sociale che corrisponde alla situazione che si sta creando: «Solo nel periodo della preparazione della guerra mondiale sono presenti tutti gli elementi per una nuova teoria del dominio sociale che corrisponde alla nuova situazione del suo complesso», scrive Herbert Marcuse nel 1936. «Nelle gravissime crisi economiche si organizza un apparato politico totalitario. I rapporti sociali assumono una nuova forma. La teoria acquista, in generale, un nuovo significato: è consapevolmente “politicizzata” e trasformata in arma dello stato autoritario e totalitario. L’unità della teoria borghese in queste fasi ha carattere negativo: consiste esclusivamente in un fronte comune contro il liberalismo e contro il marxismo […]

Il rapporto di autorità e di dominio è determinato in modo che l’autorità non appare come una funzione del dominio, uno strumento del potere ecc., ma come fondamento del dominio stesso»[4].


NOTE

[1] “Come l’aumento delle paghe dei soldati ha fatto aumentare le reclute delle forze armate, lo dicono i giornali, così il medesimo incentivo servirebbe ad aumentare le forze riproduttive, un esercito non meno onorevole che, a causa della sua povertà e faticosità, non riesce ad attirare nuove reclute”, Virginia Woolf, Le tre ghinee, Feltrinelli, Milano 2018, p.150

[2]  “L’aumento per l’anno 2024 della spesa militare è trainato da un bilancio proprio del Ministero della Difesa che supera per la prima volta i 29 miliardi di euro (29.161 milioni per la precisione) con una crescita di ben 1.438 milioni di euro (+5,1% rispetto al 2023)”. Fonte: https://retepacedisarmo.org/spese-militari/

[3] Virginia Woolf, Le tre ghinee, cit., p. 53

[4] Herbert  Marcuse, L’autorità e la famiglia. Introduzione storica al problema, Einaudi, Torino 1970, pp. 122-123

 

Foto di apertura: Carla Accardi, Piccoli settori (1962)  

fonte: Effimera.org