mercoledì 4 gennaio 2023

SI RITORNA AL DIRITTO DI POLIZIA

- Fulvio Vassallo Paleologo -

Obblighi di soccorso in mare a discrezione dei prefetti 
Non e’ certo un caso se nello stesso giorno in cui in Consiglio dei ministri si approvava il nuovo Decreto legge, si intensificavano i contatti per rafforzare la collaborazione con le autorità di Tripoli  


1. Il 2 gennaio scorso è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale, dopo la firma del Presidente della Repubblica il Decreto legge n.1 del 2023, recante “disposizioni urgenti per la gestione dei flussi migratori”,che mette nelle mani dei prefetti, e dunque al ministero dell’interno, la definizione, caso per caso, delle regole dei soccorsi in acque internazionali operati “in via sistematica”, quindi con evidente valenza discriminatoria, in quanto contiene prescrizioni derogatorie di Convenzoni internazionali e di Regolamenti europei, soltanto nei casi di interventi di ricerca e salvataggio in acque internazionali operati dalle Ong. Allle quali per determinazione di un organo amministrativo interno, non sarebbero sempre applicabili le regole generali sui soccorsi in mare, sancite dalle Convenzioni internazionali ( per le quali si rinvia al Manuale IAMSAR) e dai Regolamenti europei, ai quali ocorre fare diretto richiamo, con una evidente limitazione della sovranità nazionale, in base all’art.117 della Costituzione italiana. Quando il rovesciamento tra vero e falso, tra norme internazionali e provvedimenti amministrativi, con una completa sovversione dell’ordine gerarchico delle fonti arriva a questi livelli, siamo fuori da quello che intendevamo come Stato democratico e democrazia costituzionale. Adesso i prefetti di polizia, su precise direttive del ministro dell’interno, potranno decidere quello che vogliono in materia di soccorsi in mare, non si sa sulla base di quali competenze, e limitare diritti ed obblighi di soccorso previsti da norme di rango costituzionale e da Regolamernti europei, norme che sono tanto vincolanti per il legislatore, ed a maggior ragione per le autorità amministrative, come i principi affermati nella Costituzione. Con il nuovo “codice di condotta” imposto per legge alle ONG si vorrebbero creare i presupposti di violazioni amministrative, ma in ipotesi anche penali,il cui accertamento, affidato ai prefetti, potrebbe portare dopo il primo fermo amministrativo, al sequestro ed alla confisca delle navi, e forse anche a nuove denunce all’autorità giudiziaria. Si registra comunque una netta inversione di rotta, dopo il fallimento dei primi provvedimenti amministrativi sugli sbarchi selettivi, adottati dal nuovo governo a fine ottobre dello scorso anno, con cui il ministro dell’interno Piantedosi voleva limitare le attività di ricerca e salvataggio delle ong impegnate nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale . Il Decreto legge n.1 del 2023 abroga alcune norme contenute nel Decreto immigrazione n.130 del 2020, che già recepiva buona parte del Decreto sicurezza bis n.53 del 2019, e aggiunge una serie di disposizioni, all’articolo 1 comma 2 del Decreto che sembrano costituire una sorta di Codice di condotta imposto per legge alle Organizzazioni non governative che operano soccorsi in acque internazionali. Si potrebbe dire che, molto rapidamente, dagli sbarchi selettivi si è passati ai soccorsi selettivi, ulteriore manifestazione di politiche disumane in violazione di consolidati principi sugli obblighi di soccorso a salvaguardia della vita umana in mare.


2. Del Decreto sicurezza bis di Salvini n.53 del 2019, e quindi del Decreto legge n.130 del 2020, per come convertiti poi in legge, rimane in vigore la previsione fondamentale che, basandosi su una interpretazione fuorviante dell’art. 19 della Convenzione di Montego Bay (UNCLOS), riserva al Ministro dell’interno la possibilità di vietare l’ingresso nelle acque territoriale alla nave battente bandiera straniera che abbia operato salvataggi in acque internazionali, a meno che non ricorrano precise condizioni che permettano di (non) considerare (non) inoffensivo il transito e la sosta nelle acque territoriali. In base all’art. 1 del Decreto n.130 del 2020, che rimane in vigore per questa parte, “per motivi di ordine e sicurezza pubblica ovvero quando si concretizzano le condizioni di cui all’articolo 19, paragrafo 2, lettera g), della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, con allegati e atto finale, fatta a Montego Bay il 10 dicembre 1982, resa esecutiva dalla legge 2 dicembre 1994, n. 689, limitatamente alle violazioni delle leggi di immigrazione vigenti, il Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro della difesa e con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, e previa informazione al Presidente del Consiglio dei ministri, puo’ limitare o vietare il transito e la sosta di navi nel mare territoriale, salvo che si tratti di naviglio militare o di navi in servizio governativo non commerciale”. Appare evidente dunque come si continuino ad associare i soccorsi in mare operati in modo “non occasionale” e dunque quelli operati dalle ONG, come attività in violazione delle leggi in materia di immigrazione, anche se questa prospettazione non ha ancora trovato riscontro in una sola sentenza passata in giudicato, ed anzi sono numerosi i procedimenti penali intentati contro le Organizzazioni non governative per le attività di ricerca e salvataggio operate in acque internazionali, che si sono chiusi con una serie di archiviazioni.

Il Decreto legge n.1 del 2 febbraio 2023 precisa le nuove condizioni che sono richieste perchè il transito della nave non sia considerato “non inoffensivo” e dunque individua i casi nei quali i mezzi delle ONG possono essere autorizzati a sbarcare i naufraghi in territorio italiano, si dovrebbe presumere ” nel tempo ragionevolmente più breve”.

Si stabilisce innazitutto che i divieti di ingresso nelle acque territoriali, trasformati nel 2020 in divieti di transito e sosta, dalla legge di conversione del Decreto legge 130/2020, non sono applicabili “nelle ipotesi di operazioni di soccorso immediatamente comunicate al centro di coordinamento competente per il soccorso marittimo nella cui area di responsabilità si svolge l’evento e allo Stato di bandiera ed effettuate nel rispetto delle indicazioni delle predette autorità, emesse sulla base degli obblighi derivanti dalle convenzioni internazionali in materia di diritto del mare, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e delle norme nazionali, internazionali ed europee in materia di diritto di asilo, fermo restando quanto previsto dal Protocollo addizionale della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità transnazionale organizzata per combattere il traffico illecito di migranti via terra, via mare e via aria, reso esecutivo dalla legge 16 marzo 2006, n. 146″.

Questo richiamo sembrerebbe obbligare il comandante della nave ad una mera comunicazione dei soccorsi all’autorità marittima (MRCC) competente per la zona nella quale si verifica l’evento SAR, adempimento che le navi civili dele ONG soddisfano generalmente, inoltrando notizie immediate sui salvataggi in corso nel Mediteraneo centrale a tutti gli stati costieri, titolari di zone SAR confinanti, come è stato dimostrato in diversi procedimenti penali intentati contro comandanti e capimissione che hanno potuto dimostrare queste circostanze. Nessuna norma internazionale, e dunque neppure il Decreto legge del governo Meloni. impone al comandante della nave soccorritrice di richiedere il coordinamento ad uno Stato costiero prima di procedere ai soccorsi, o peggio, di chiedere all’autorità SAR competente “l’assegnazione del porto di sbarco”, richiesta che, se avesse seguito, nel caso della Libia o della Tunisia, potrebbe configurare una violazione del divieto di respingimenti collettivi. Sul punto si è espresso in modo inequivocabile il Tribunale di Napoli, condannando il comandante del rimorchiatore italiano ASSO 28, che dopo avere effettuato un soccorso in acque internazionali aveva effettuato lo sbarco dei naufraghi in un porto libico, con le note conseguenze che poi queste persone avrebbero subito appena riprese dai miliziani libici. Eppure malgrado la formulazione del decreto, e nelle intenzioni di chi vi darà attuazione, secondo gli indirizzi espressi dal governo, si dà per scontato, anche contro l’evidenza, che le navi delle ONG presenti nel Mediterraneo centrale operino in una situazione di generale illegalità, e che le loro attività vadano inquadrate all’interno delle azioni di contrasto che si propongono gli Stati per sconfiggere i trafficanti di essseri umani, che si assume strumentalizzerebbero la presenza in acque internazionali delle navi inviate dalle ONG, accusate addirittura di “fare la spola con gli scafisti”. Ma poi risulta evidente che sono le autorità di governo italiane che, come in passato, continuano a conclidere accordi con governi che sui loro territori sono sostenuti da bande criminali, come nel caso del governo di Tripoli, tenuto in piedi da miliizie che, da Zawya a Sabratha e Garabouli, sono accusate di traffico di esseri umani e di ogni genere di attività illecite.

Non e’ certo un caso se nello stesso giorno in cui in Consiglio dei ministri si approvava il nuovo Decreto legge, si intensificavano i contatti per rafforzare la collaborazione con le autorità di Tripoli. “Il Ministro designato dell’Interno libico Emad Al-Trabelsi ha esaminato davanti a una delegazione della sicurezza italiana i piani di sicurezza emessi dal Ministero dell’Interno relativi al fascicolo dell’immigrazione clandestina e le ripercussioni che ne derivano. La delegazione italiana, che ha incontrato Al-Trabelsi presso la sede del Dipartimento Relazioni e Cooperazione a Tripoli, comprendeva funzionari del Ministero dell’Interno, il Comandante in Capo della Polizia, il Direttore del Dipartimento Immigrazione e un numero di funzionari.” Appare evidente come il governo Meloni voglia spingere ulteriormente sulla collaborazione con la sedicente “Guardia costiera libica” nelle sue varie articolazioni, e sulle prassi di “respingimenti collettivi su delega”,recentemente oggetto di una denuncia alla Corte penale internazionale.

La ripartizione delle zone SAR nel Mediteraneo centrale non tiene conto che alcuni paesi come la Libia e la Tunisia non garantiscono per i naufraghi di diversa nazionalità porti sicuri di sbarco e procedure eque ed accessibili per il riconoscimento dello status di rifugiato. Malta non ha ratificato l’emendamento alla Convenzione SAR di Amburgo contenuto nella Risoluzione IMO 167-78 del 2004 e dunque non può essere consderata come un paese al quale il comandante della nave che effettua un salvataggio nella vastssima zona SAR attribuita alle autorità di La Valletta, possa essere obbligato a rivolgersi per chiedere coordinamento di soccorsi operati in acque internazionali o l’assegnazione di un porto di sbarco sicuro.

3. Secondo il nuovo decreto, nel caso di navi che effettuano «in via sistematica attività di ricerca e soccorso in mare per autorizzare il transito nelle acque territoriali devono ricorrere congiuntamente le seguenti condizioni:
a) la nave che effettua in via sistematica attività di ricerca e soccorso in mare opera in conformità ad autorizzazioni o abilitazioni rilasciate dalle competenti autorità dello Stato di bandiera ed è in possesso dei requisiti di idoneità tecnico-nautica alla sicurezza della
navigazione;

b) sono state avviate tempestivamente iniziative volte a informare le persone prese a bordo della possibilità di richiedere la protezione internazionale e, in caso di interesse, a raccogliere i dati rilevanti da mettere a disposizione delle autorità;
c) è stata richiesta, nell’immediatezza dell’evento, l’assegnazione del porto di sbarco;
d) il porto di sbarco assegnato dalle competenti autorità è raggiunto senza ritardo per il completamento dell’intervento di soccorso;

e) sono fornite alle autorità per la ricerca e il soccorso in mare italiane, ovvero, nel caso di assegnazionedel porto di sbarco, alle autorità di pubblica sicurezza, le informazioni richieste ai fini dell’acquisizione di elementi relativi alla ricostruzione dettagliata dell’operazione di
soccorso posta in essere;

f) le modalità di ricerca e soccorso in mare da parte della nave non hanno concorso a creare situazioni di pericolo a bordo né impedito di raggiungere tempestivamente
il porto di sbarco.

Si tratta apparentemente di obblighi attenuati rispetto a quelli previsti nelle prime bozze del decreto legge pubblicate dai mezzi di informazione, ma in realtà la loro portata, al di fuori di quanto già previsto dalle Convenzioni internazionali e dai Regolamenti europei ,è talmente ampia che rimane sostanzialmente rimessa alla successiva determinazione, caso per caso, delle autorità amministrative, a nocumento della certezza del diritto e della prevedibilità delle decisioni delle autorità competenti, anche in ordine all’adozione di eventuali sanzioni che possono arrivare alla confisca della nave. Dal tenore del nuovo decreto si ricava l’ulteriore conferma che l’autorità nazionale che coordina i soccorsi, anche all’esterno della zona SAR di propria competenza, deve garantire lo sbarco in un porto sicuro, anche se questo porto sicuro verrà definito soltanto come Porto di destinazione (POD). Che poi significa negare la natura di attività SAR (ricerca e salvataggio) alle operazioni di soccorso in acque internazionali realizzate dalle navi delle ONG. Che dovrebbero invece conclidersi in un porto di sbarco sicuroo Place of safety (POS).

All’art 1 lettera b del decreto legge n.1 del 2 gennaio 2023, rispetto alla bozza portata in Consiglio dei ministri, é saltato il riferimento alla “possibilità di chiedere asilo nell’Unione Europea” ed e’ rimasta soltanto la previsione che i comandaanti delle navi informino i naufraghi della” possibilità di chiedere asilo”. Dunque in Italia. Il governo ha dovuto cancellare il riferimento all’Unione Europea, contenuto nella bozza di decreto portata in Consiglio dei ministri venerdi’ 28 dicembre scorso, perché in violazione del Regolamento Dublino 3 del 2013. La formulazione adottata, secondo cui le manifestazioni di volontà di richiesta di protezione sono “da mettere a disposizione delle autorita'” non innova rispetto al quadro normativo preesistente e NON fa alcun riferimento alla competenza dello Stato di bandiera della nave soccorritrice. Sarebbe tempo che i giornali di destra, che continuano ancora a scrivere di richieste di asilo da trasferire agli Stati di bandiera (Flag State), dicessero, almeno su questo, la verità.

Il Decreto legge n.1 del 2023, nella formulazione che arriva in Parlamento per la conversione in legge, non fa riferimento a Regolamenti europei, dopo lo scivolone di Piantedosi che nella prima direttiva anti ONG aveva citato un Regolamento abrogato, n.1624 del 2016, senza citare quello in vigore n.656 del 2014, che impone agli stati costieri una nozione di distress molto precisa e impedisce di qualificare attività di ricerca e soccorso (SAR) in acque internazionali come “eventi migratori”. Lo stesso Regolamento n.656 del 2014 fa riferimento al principio di non respingimento, sancito dalla Convenzione di Ginevra (art.33) e dalla Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’uomo, che vieta (art.4 del Quarto Protocollo allegato) come pure l’art.19 della Carta dei diritti fondamentali UE, qualsiasi respingimento collettivo. In base all’art.9.1 del Regolamento n.656/2014, “Gli Stati membri osservano l’obbligo di prestare assistenza a qualunque natante o persona in pericolo in mare e durante un’operazione marittima assicurano che le rispettive unità partecipanti si attengano a tale obbligo, conformemente al diritto internazionale e nel rispetto dei diritti fondamentali, indipendentemente dalla cittadinanza o dalla situazione giuridica dell’interessato o dalle circostanze in cui si trova”. Evidentemente il diritto internazionale del mare non è composto unicamente dall’art.19 della Convenzione di Montego Bay, norma alla quale il Decreto immigrazione e sicurezza n. 130 del 2020, e di rimando il recente Decreto n.1 del 2023, fanno richiamo per giustificare i divieti di ingresso frapposti soltanto alle navi delle ONG dopo le operazioni di ricerca e salvataggio condotte in acque internazionali. Il Regolamento europeo n.656 del 2014 e la Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951, come le Convenzioni ONU a protezione dei minori, contengono norme vincolanti per le autorità italiane, per effetto del richiamo che ne fa l’art. 117 della Costituzione, secondo la consolidata interpretazione che ne fornisce la giurisprudenza fino alla Corte di Cassazione sui casi Rackete e Vos Thalassa. Non si può ammettere dunque che i comandanti delle navi delle ONG, o anche quelli di altre navi commerciali siano obbligati a chiedere in ogni caso il coordinamento “delle competenti autorità” in base all’area SAR nella quale avvengono i soccorsi, dunque a subire il coordinamento delle autorità libiche o maltesi quando tale coordinamento può comportare respingimenti collettivi, o trattamenti inumani o degradanti dopo la riconsegna dei naufraghi ad autorità di paesi che non rispetano i diritti umani. Gli stessi paesi del resto, quando vengono coinvolti per svolgere attività di coordinamento dei soccorsi rifiutano generalmente di assumere tale ruolo, o si limitano ad inviare motovedette per attività di mera intercettazione in alto mare.

In base all’articolo 98 della Convenzione di Montego Bay (UNCLOS), ogni Stato deve esigere che il comandante di una nave che batta la sua bandiera “presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo“. La Convezione SOLAS (Capitolo 5, Reg. 33) prevede che il comandante “debba procedere quanto più velocemente possibile in soccorso” [is bound to proceed with all speed to their assistance] di persone in pericolo. L’articolo 1158 del codice della navigazione italiano punisce l’omissione di soccorso e stabilisce pene fino a otto anni di reclusione se l’omesso soccorso sia causa di morte.

Secondo le Convenzioni internazionali gli Stati costieri hanno l’obbligo di organizzare e mantenere un “servizio adeguato ed efficace di ricerca e soccorso per tutelare la sicurezza marittima” (articolo 92.2 UNCLOS) e l’autorità marittima che abbia notizia di una nave in pericolo ovvero di un naufragio “deve immediatamente provvedere al soccorso” o, se non può intervenire direttamente, coordinando le unità più vicine all’evento di soccorso,, deve “darne avviso ad altre autorità che possano utilmente intervenire” (articolo 69 del codice della navigazione).

4, Le norme cogenti stabilite a livello internazionale ed europeo per la salvaguardia della vita umana in mare non possono essere cancellate da una interpretazione atomistica e distorta dei divieti di ingresso nelle acque territoriali previsti dall’art. 19 della Convenzione di Montego Bay, finendo per diventare oggetto di valutazione discrezionale da parte dei prefetti, organi periferici dell’amministrazione del ministero dell’interno. Il decreto legge n.1 del 2023 introduce invece sanzioni amministrative per la violazione dei doveri di informazione e dei divieti di ingresso nelle acque territoriali, affidate al prefetto a seconda della gravità delle violazioni e della loro reiterazione, prima fermi amministrativi, poi sequestri e confische amministrative, come se si trattasse di autovetture prive di assicurazione, o guidate in stato di ebbrezza, e non di unità navali la cui attività in acque internazionali, per le ragioni di urgenza e di pericolo grave per le persone, vero e proprio stato di necessità, potrebbe essere equiparata semmai a quella delle ambulanze.

Sono soprattutto mezzi di ricorso, previsti con un piccolo accenno dal nuovo Decreto legge n.1 del 2023, che non appaiono conformi al diritto di difesa sancito dagli articoli 24 e 113 della Costituzione. Non sara’ certo il prefetto, che dipende dal ministero dell’interno, ad avere le competenze richieste per potere accertare l’illegittimità di una attività di ricerca e soccorso, in acque internazionali, e quindi esercitare con indipendenza di giudizio prima attività sanzionatorie e poi addirittura funzioni giurisdizionali. Contro gli atti della Pubblica amministrazione. è sempre ammessa la tutela giurisdizionale (art. 113 Cost.). In ogni caso, dunque, avverso tutti i provevdimenti del Prefetto, sarà possibile proporre ricorsi ai Tribunali amministrativi, anche in via di urgenza, e sollevare in via incidentale questioni pregiudiziali, chiamando in causa la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, per una interpretazione del diritto interno alla stregua del diritto unionale. Come si è verificato nel caso dei fermi amministrativi disposti dalle Capitanerie di Porto su indirizzo dei governi precedenti, a partire dal settembre del 2020, che sono stati oggetto di una importante pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione Europea che, ad agosto dello scorso anno, ha posto precisi limiti ai provvedimenti di fermo amministrativo, adottati dalle autorità italiane nei confronti delle navi delle ONG dalle Capitanerie di porto, sulla base delle stesse argomentazioni che oggi ripropone Giorgia Meloni, anche al di là della formulazione generica del decreto legge appena approvato. Gli Stati nei quali si trovano i porti di ingresso non possono adottare criteri discrezionali per valutare requisiti tecnici di navi cerificate dalle autorità di altri Stati che hanno concesso loro l’iscrizione nei registri navali e la bandiera. Rispetto alle attività di ricerca e soccorso, obbligatorie in base alle Convenzioni internazionali, non può assumere rilievo il carattere non occasionale dei salvataggi, o la classe di iscrizione della nave ai registri marittimi. Se si tratta di salvare vite in alto mare è solo il comandante che può decidere quanti naufraghi può trasportare la sua nave, senza mettere in pericolo le persone soccorse e l’equipaggio.

Secondo la Corte di Giustizia di Lussemburgo, non possono essere considerati “passeggeri” i naufraghi che vengono soccorsi in mare, e le navi delle ONG non possono essere costrette a dotarsi di ulteriori certificazioni dello Stato costiero di approdo, che è obbligato a garantire a conclusione dei soccorsi il porto di sbarco (POS), certificazioni che in passato le autorità italiane hanno invece richiesto a loro discrezione. Nel caso dell’Italia queste certificazioni non sono peraltro previste neppure dai registri del naviglio civile e sarebbero oggetto di richieste arbitrarie da parte delle autorità amministrative italiane. Secondo la Corte UE di Lussemburgo“lo Stato di approdo non può imporre che venga provato che tali navi dispongono di certificati diversi da quelli rilasciati dallo Stato di bandiera o che esse rispettano tutte le prescrizioni applicabili a una diversa classificazione. Peraltro, nel caso in cui l’ispezione riveli l’esistenza di carenze, lo Stato di approdo può adottare le azioni correttive che ritenga necessarie. Tuttavia, queste ultime devono, in ogni caso, essere adeguate, necessarie e proporzionate. Lo Stato di approdo non può poi subordinare la revoca del fermo di una nave alla condizione che tale nave disponga di certificati diversi da quelli rilasciati dallo Stato di bandiera”.

La sentenza di proscioglimento del comandante e del capomissione della nave Mare Ionio dell’associazione Mediteranea chiarisce del resto, oltre alla legittimità dell’attività di salvataggio in acque internazionali operato dalle ONG , la inesistenza di specifiche o di registri particolari per le navi private che operano soccorsi in acque internazionali, smentendo in questo modo, con l’aitorevolezza di un precedente giurisprudenziale, l’assunto del governo italiano e le prassi discrimnatorie adottate dal Corpo delle capitanerie di Porto. Prassi che rischiano di esporre a gravi ritorsioni il naviglio italiano quando gli stessi controlli saranno effettuati nei porti stranieri, come è già stato minacciato in Germania.

Sul divieto di soccorsi “multipli” e sulla discriminazione nei confronti delle navi civili che operano “in via sistematica attività di ricerca e soccorso”, dunque, non saranno soltanto i prefetti a decidere, ma si andrà nei tribunali, anche con provvedimenti d’urgenza, e poi davanti la Corte Costituzionale e oltre, fino alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, come si è già verificato per limitare la pratica dei fermi amministrativi introdotti dall’ex ministro Lamorgese durante i governi Conte 2 e Draghi. Non mancheranno certo casi di disobbedienza civile, senpre che le ONG non decidano di fare acquiescenza alle nuove disposizioni, una scelta che comporterebbe la fine dei soccorsi umanitari nel Mediterraneo centrale.

Attraverso l’esercizio di tutti i possibili mezzi di ricorso esperibili contro i provvedimenti di fermo amministrativo, di sequestro e di confisca adottati dai prefetti, in base al al nuovo Decreto legge n.1/2023, già nelle more della sua conversione in legge, occorre ristabilire lo Stato di diritto ed il principio di gerarchia delle fonti normative che, secondo l’articolo 117 della Costituzione, pone le Convenzioni internazionali ed i Regolamenti europei al di sopra delle leggi nazionali e dei provvedimenti amministrativi delle autorità italiane. Si dovrà anche verificare l’intero sistema sanzionatorio introdotto dal decreto legge con le norme della Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo, tenendo conto che la Corte di Strasburgo ha da tempo sviluppato una giurisprudenza per cui la natura formalmente amministrativa di un illecito non esclude che esso possa essere riconosciuto come intrinsecamente “penale”, solatnto per impedire che la qualificazione del legislatore nazionale sottragga la disciplina della sanzione all’applicabilità delle garanzie della Convenzione EDU che si riferiscono alla materia penale. Di fronte alle procedure prefigurate dal decreto con riferimento alle sanzioni “amministrative” inflitte dal Prefetto sembra venire meno il diritto ad un giusto processo e dunque potrebbe profilarsi una condanna all’Italia per violazione dell’art. 6 CEDU. Si dovrà quindi verificare se siano applicabili anche in questo caso i criteri dettati dalla nota sentenza Engel della Corte di Strasburgo, ed anche se la Corte Costituzionale manterrà l’attuale impostazione restrittiva, non vi possono essere preclusioni per ricorsi alla Corte europea dei diritti dell’Uomo ed alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, per contestare la natura sostanzialmente penale delle sanzioni che i prefetti potranno applicare nei casi previsti dal decreto legge, in assenza delle garanzie di indipendenza degli organi giudicanti previste dall’ordinamento processual-penalistico. Appare indubbio che le sanzioni del fermo amministrativo, del sequestro e della confisca amministrativa che saranno inflitte a quanti saranno accusati di avere violato le disposizioni del decreto legge anti-ong, perchè di questo si tratta, al di là del richiamo del tutto inopportuno ai “flussi migratori”, contenuto nel titolo, per natura, durata e modalità di esecuzione, risultano di “innegabile severità” e di rilevante peso economico. Poichè producono in capo agli interessati conseguenze patrimoniali importanti, e sanzioni accessorie molto serie, potrebbero essere qualificate come penali le sanzioni inflitte nei procedimenti amministrativi delineati nel decreto legge n.1 del 2023. Basti pensare cosa significa per una ONG il fermo amministrativo di una nave, per mesi, o il suo sequestro, prima della confisca, considerando che quella nave costituisce l’unico mezzo, peraltro di rilevante valore, anche in caso di noleggio, con il quale si può portare avanti l’attività di ricerca e soccorso in mare. Salvare vite in acque internazionali è certo attività più rilevante, da un punto di vsta economico, se non si vogliono calcolare le vite che possono essere salvate, che andare in giro con una auto priva di assicurazione, o condurre un veicolo in stato di ebbrezza, casi classici nei quali il prefetto esercita i suoi poteri sanzionatori, dal fermo amministrativo, al sequestro ed alla confisca del mezzo.

5. La formulazione del decreto legge n.1 del 2023, e le prassi più recenti, con la sollecita assegnazione di un porto di sbarco, anche se si continua a qualificare soltanto come porto di destinazione (POD), smentiscono tutte le argomentazioni addotte da Salvini per giustificare i “suoi” divieti di sbarco, quando era ministro dell’interno. A fronte delle comunicazioni inviate da sempre con la massima tempestività da tutte le ONG, e rimaste senza risposta e senza assunzione di coordinamento da parte degli Stati costieri, quanto previsto adesso dal decreto legge n.1 del 2023, e le prassi che sono state adottate negli ultimi giorni , confermano l’obbligo delle autorità italiane di coordinare i soccorsi anche nella zona Sar libica e nella zona Sar maltese, se richieste dal comandante dell’imbarcazione civile, che comunque, in base alle Convenzioni internazionali, deve procedere ad effettuare i salvataggi con la massima rapidità. Appare molto significativo come nel decreto legge appena approvato sia caduto qualsiasi riferimento a richieste di asilo da inoltrare ad altri stati di bandiera delle navi, prima dello sbarco in Italia, o alla redistribuzione dei richiedenti asilo, non certo dei naufraghi, tra diversi paesi europei, prima di autorizzarne lo sbarco in un porto in Italia. Punti sui quali si era arroccato Salvini, quando da ministro dell’interno, nel 2018 e nel 2019, chiedeva i pieni poteri per bloccare le persone soccorse sulle navi delle ONG, e persino i naufraghi raccolti dalle navi militari, tenuti per giorni a bordo delle navi militari ormegiate in porto, come nel caso Diciotti, per “negoziare”, prima dello sbarco in territorio italiano, il loro ritrasferimento verso altri paesi europei.

In base al testo definitivo del decreto legge, che pure potrebbe subire ulteriori modifiche nella fase di conversione in legge, le autorità marittime nazionali sono dunque costrette ad assumere il coordinamento dei soccorsi anche al di fuori della zona Sar italiana, come prevede del resto il Piano SAR nazionale 2020 in conformità alle Convenzioni internazionali prima citate. Viene così smentita dalle nuove norme, e dai soccorsi operati in questi ultimi giorni dalle ONG presenti in acque internazionali, la principale tesi difensiva di Salvini sulla “competenza esclusiva” del paese titolare di una zona Sar. Se maltesi, libici o tunisini non intervengono in acque internazionali,nelle zone SAR che sarebbero di loro competenza, deve coordinare ile attività di ricerca e salvataggio il paese di primo contatto che può garantire un place of safety. Dunque l’Italia, che e’ a conoscenza dell’evento SAR, che non puo’ essere degradato ad un comune “evento migratorio”, da affrontare dando la priorità alle prassi di contrasto dell’immigrazione irregolare (law enforcement) in collaborazione con l’agenzia Frontex. Perche’ è in gioco la vita di persone in difficoltà in alto mare, chiunque le abbia aiutate a partire, si trata di valori umani, superiori rispetto agli obiettivi di lotta ai trafficanti ed alla difesa dei confini marittimi, come riconosce anche il Protocollo addizionale sul trafico di esseri umani allegato alla Convenzione ONU di Palermo del 2000 contro il Crimine transnazionale (art.19)

Il decreto legge n.1 del 2023, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 2 gennaio, non dovrebbe consentire in futuro di negare l’evidenza, che per tutte le imbarcazioni in navigazione con un sovraccarico di persone migranti ricorre comunque ua situazione di distress immediato, Non si potrà dunque continuare a classificare le attività SAR di ricerca e salvataggio, nel solo caso che siano operate da navi umanitarie inviate dalla società civile, spesso in spazi marini nei quali gli Stati costieri omettono le dovute attività di coordinamento ed intervento, come rivolte a favorire meri eventi migratori o peggio attività collusive con le organizzazioni criminali che gestiscono le partenze dai paesi della sponda sud del Mediterraneo.



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