Movimenti studenteschi e Riforme universitarie - Francesco Maria Pezzulli -
riprendiamo la seconda parte dei lavori pubblicati nella sezione di Machina-DerviveApprodi con alcuni testi provenienti dalla più recente inchiesta di «Sudcomune», della quale sono state già diffuse un paio di note
La normalizzazione
Superato il pericolo degli “studenti e operai uniti nella lotta”, nel pieno
del processo di massificazione dell’Università italiana, il primo governo
Cossiga nei suoi pochi mesi di vita (soltanto otto) emana norme aventi valore di
legge ordinaria per «il riordinamento della docenza universitaria e relativa
fascia di formazione, e per la sperimentazione organizzativa e didattica». E
non fu certo poca cosa. Il riordino della docenza significò in primis
l’istituzione del ruolo di “Professore Associato” (seconda fascia) e di
“Ricercatore universitario”, entro il quale confluirono attraverso procedure
d’idoneità i precari generati dai «Provvedimenti urgenti» del 1973. A queste
figure si aggiungerà, nei primi anni di sperimentazione, quella dei “Professori
a contratto”, istituita come figura di raccordo con la società (e il mercato) e
di supporto allo svolgimento delle attività proprie dell’università. La
sperimentazione, invece, (il DPR 382/1980) ha corrisposto all’istituzione dei
“dottorati di ricerca” e l’apertura dei “Dipartimenti”, in qualità di Enti
preposti alla ricerca (rispetto alle Facoltà preposte invece alla didattica),
che nei fatti venivano a sostituire “l’Istituto”, il feudo del Professore
Ordinario reso anacronistico dalle lotte studentesche del ’68[1]. Il dibattito sulla
Riforma ruotò intorno ai principi di Democrazia e di Autonomia. In nome della
gestione democratica delle università vennero moltiplicati i controlli e i
meccanismi elettivi, che innovarono le vecchie procedure decisorie ma
generarono tutta una serie di fenomeni paradossali o distorsivi, come quelli
dell’evaporazione delle responsabilità e delle clientele accademiche. Per il
DPR 382 tutte le cariche dirigenziali e gestionali dovevano infatti essere
elettive. Il Rettore, il Preside, il Direttore di Dipartimento (o di Corso di
Laurea) e così via, per essere tali dovevano contare su una maggioranza di
Professori votanti. Lo stesso dicasi per le cariche amministrative, gestionali
e di supporto amministrativo e didattico. Un ricercatore napoletano, giovane Professor
alla New York University, contento della posizione finalmente acquisita
(«L’ambiente accademico americano e’ totalmente diverso da quello italiano:»),
convinto di lavorare in un paese dove «la meritocrazia è quasi del tutto
trionfante e le risorse sono molto maggiori», riflettendo sulla condizione vissuta
in Italia ai primi del secolo constatava che:
«A ripensarla oggi la situazione italiana mi sento di dire che la struttura
eccessivamente ed apparentemente democratica dell’università in Italia
favorisce piccole mafie e porta generalmente a un abbassamento del livello del
dibattito. Esempio: a differenza di quanto avviene negli USA, in Italia il
direttore di dipartimento, il preside, il rettore, sono eletti dai professori e
quindi devono poi procedere non con in mente l’interesse reale della struttura,
ma con in mente la necessità di mantenere un supporto politico. Viceversa negli
USA si è appointed dall’alto, anche se con un importante input dal
basso, e quindi si ha più libertà di fare quello che l’università necessita.
Quando, alla fine dell’anno, il mio capo scrive il suo rapporto sulla mia
performance (rapporto sulla cui base viene riconfigurato il mio stipendio), i
fattori principali sono in qualche modo oggettivi e non basati sul fatto che i
vari colleghi siano soddisfatti o meno del mio operato. Inoltre, in Italia si
deve votare su ogni cosa, come per esempio il congedo di un ricercatore, e
quindi si creano continue alleanze e contro alleanze»[2].
A ciò si aggiunge, è stato scritto, che nonostante le numerose votazioni
nei Consigli (di Facoltà o di Dipartimento) nessuno poi si preoccupa di
controllare l’esecuzione delle decisioni prese, tantomeno la qualità della
messa in pratica di quanto deciso[3]. Le “continue alleanze
e contro alleanze” nelle numerosissime votazioni sono anche alla base del fenomeno
delle clientele e della corruzione accademica divenuto tristemente noto ai più
per opera della magistratura[4]. L’autonomia, invece,
si rivelò una vera e propria finzione, utile al governo delle dinamiche
universitarie ma del tutto inefficace a compiere quella rivoluzione
organizzativa che la dipartimentalizzazione prometteva. Basti pensare che i Dipartimenti,
che in teoria avrebbero dovuto sostituire le Facoltà sul modello di diverse
università straniere, nei fatti si affiancarono a queste, che resistettero
energicamente a difesa di una loro prerogativa: la gestione dei posti di
Professore. Facoltà e Dipartimenti hanno continuato a convivere, fino ad oggi,
in modo autonomo ma sfasato, giustificando la loro minima comunicazione col
fatto che i dipartimenti sono istituzionalmente votati alla ricerca mentre le
Facoltà alla didattica. In generale, come ha osservato Raffaele Simone in un
illuminante testo sull’Università al tempo della Riforma del 1980:
«non si può autonomamente introdurre una materia nuova, non si possono
stabilire criteri per l’ammissione degli studenti, non si possono bandire
concorsi locali. Perfino i dottorati di ricerca, che nascono autonomi (ogni
università se li crea e regolamenta come vuole, anche se il ministero li
finanzia con quattro soldi), finiscono centralizzati. Il CUN è il braccio a cui
è affidata la gestione del centralismo e in cui si scaricano, come al solito,
le tensioni e le mediazioni della politica accademica»[5].
Il Consiglio Universitario Nazionale fu istituito dalla 382 come il
principale organo di garanzia e rappresentanza della autonomia universitaria
ma, nel corso degli anni, fu «portato gradualmente a burocratizzarsi, sulla
scia degli avvenimenti, anziché mantenere il ruolo di presidio dell’autonomia
degli ambiti disciplinari e delle componenti universitarie che lo hanno
espresso»[6]. Vista alla distanza di
quattro decenni la Riforma 382 del 1980 fu una riforma cerniera, obbligata
dalle lotte del movimento studentesco e giovanile degli anni settanta, che
riuscì a traghettare l’università lungo il decennio del riflusso verso il nuovo
che si andava preparando. Una riforma, soprattutto, che svolse un ruolo
politico di primo piano, assorbendo nelle proprie file molti di quei giovani,
un tempo rivoluzionari, che da quel momento divennero professori critici ed attenti
analisti delle cose sociali e politiche. In questi termini, dunque, la Riforma
svolse una efficace opera di normalizzazione (di pacificazione potremmo dire)
che allo stesso tempo favorì, come abbiamo accennato, la progressiva crescita
di fenomeni deteriori (corruzione, nepotismo e clientelismo) che nei decenni
successivi divennero endemici e che sono anche alla base del cosiddetto “brain
drain”[7]. Come abbiamo avuto
modo di registrare molti anni addietro, infatti, uno dei motivi comuni nei
racconti di laureati e ricercatori italiani trasferitisi all’estero è stato
quello di non essere “protetti”, di essere cioè estranei ai network accademici
giusti, di stare «fuori dal giardino dei baroni», secondo un ricorrente modo di
dire, dove «le opportunità sono molto rare, quasi inesistenti». Coloro i quali,
al contrario, fuori dal giardino dei baroni hanno continuato a coltivare
aspirazioni accademiche, caparbi o ingenui, si sono ritrovati, (chi prima chi
dopo) nella stessa situazione del Dr. Greco che, stressato dalla crescente
dissonanza tra il lavoro scientifico e i comportamenti necessari per fare carriera,
non può fare altro che prendere a calci una porta chiusa ed inviare una lettera
al Magnifico Rettore per “avere indietro gli ultimi cinque anni di vita”[8]. Infine, la 382
può essere considerata l’ultima riforma che formalmente tentò di affrontare,
senza riuscirci, la questione della democrazia negli atenei; dopodiché, con la
successiva riforma, la famigerata Ruberti del 1989, ha inizio l’epoca
neoliberale delle università italiane, tema che affronteremo da vicino nei
prossimi interventi su Machina.
Note
[1] Per evidenza della
dimensione spesso “feudale” degli Istituti basti ricordare che erano presenti
anche Istituti “monocattedra”. Relativamente all’apertura dei Dipartimenti,
invece, nel 1984 se ne contano 396, ai quali afferiscono oltre 10 mila docenti
e 4 mila ricercatori confermati.
[2] Intervista ad Angelo
Pallotta, ripresa da F.M. Pezzulli, In fuga dal Sud. Migranti qualificati e
poteri locali nel Mezzogiorno, Bevivino Editore, Milano 2009. Cit. pag.38.
[3] R. Simone, L’Università
dei tre tradimenti, Laterza, Bari 1993. Cit., pagg. 14-21.
[4] Gli studi sulla
corruzione e le clientele accademiche si sono succeduti nei decenni e, in
parallelo con le indagini giudiziarie che tentano di contrastare il fenomeno,
sono ulteriormente aumentati. Consapevoli di non dar conto delle numerose
sfaccettature del fenomeno citiamo qui solo alcuni titoli significativi: H. di
Giuseppe, Ladri di futuro. Il concorrere e la grande impostura
dell'università italiana, Ed. Scienze e Lettere, Roma 2020; S. Allesina,
“Measuring Nepotism through Shared Last Names: The Case of Italian Academia”,
in Plos one 6.8, 2011; N. Gardini, I Baroni, Feltrinelli, Milano
2009; G. Lanoue, “Mérite et patronage en milieu «moderne»: Les rituels
politiques de victoire et d’échec dans les universités italiennes”, in Anthropologie
et Sociétés, n. 23, 1999; B. R. Clark, Academic Power in Italy,
University of Chicago Press, Chicago 1977; F. Froio, Università. Mafia e
potere, La Nuova Italia scientifica, Firenze 1974.
[5] R. Simone, Cit.,
pag. 27.
[6] U. M. Miozzi, Cit.,
pag. 293.
[7] Sul rapporto tra
clientelismo e migrazioni qualificate mi permetto di rimandare a F.M. Pezzulli,
In fuga dal Sud. Migranti qualificati e poteri locali nel Mezzogiorno,
Bevivino Editore, Milano 2009 (relativamente al clientelismo accademico vedi il
cap. 2). Cfr. anche F.M. Pezzulli, “Una nuova emigrazione?”, in Sociologia e
Ricerca Sociale, n. 70, 2003.
[8] Il Dr. Greco è il
protagonista di un istruttivo e stimolante racconto di Tonino Perna sui
rapporti tra le reti accademiche di potere ed i ricercatori che persistono in
comportamenti fuori norma. Cfr. T. Perna, Al Magnifico Rettore,
Rubettino, Soveria Mannelli 2006.
Immagine: Andrea Salvino
Francesco Maria Pezzulli è sociologo e ricercatore indipendente. Ha insegnato presso l’Università La
Sapienza di Roma e svolge attività di ricerca e inchiesta nel Laboratorio sulle
Transizioni, il mutamento sociale e le nuove soggettività dell’Università degli
Studi di Roma Tre. Si occupa delle tematiche inerenti lo sviluppo capitalistico
e il mezzogiorno italiano
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