- Luigi Pandolfi -
SUPERARE IL CAPITALISMO
Da quando l’uomo è entrato in relazione con altri uomini per scambiarsi beni e e altre utilità e per dividersi i compiti nella «produzione materiale della vita» ha dovuto fare i conti con crisi economiche più o meno gravi
Che alla radice ci fossero squilibri nel sistema o catastrofi naturali o malattie, tutte le crisi di una certa rilevanza hanno avuto una caratteristica unificante: l’aver aperto la strada a grandi cambiamenti nelle relazioni sociali ed economiche e negli assetti politico-istituzionali dei Paesi che ne sono stati colpiti
Dopo la crisi del 2007-2008 abbiamo iniziato a familiarizzare con espressioni come «quantitative easing» e «politiche monetarie espansive». È la dinamica del denaro creato dal nulla dalle banche centrali per oleare il sistema bancario, tenere aperta la finestra del credito, calmierare il prezzo del finanziamento degli Stati. Pensiamo che sia qualcosa di necessario, ma ci chiediamo anche perché una parte di quei soldi non possa arrivare direttamente alla vita reale, finanziando investimenti pubblici, politiche di sostegno al reddito e piani per il lavoro. Un interrogativo legittimo e giusto. Perché i soldi non ci sono mai per il benessere dei cittadini e poi spuntano come i funghi nelle crisi per puntellare il settore finanziario? Non c’è dubbio che una parte di questo denaro possa finanziare i deficit statali e contribuire ad espandere i bilanci pubblici. Se questo è stato possibile ieri, non si capisce perché non possa essere possibile oggi. È una questione ideologica (un problema di «egemonia» e di «blocco storico», avrebbe suggerito Antonio Gramsci), non di scienza o di verità rivelate. O l’eredità di quella «parodia dell’incubo del contabile», di cui Keynes parlò molto tempo prima della sua Teoria Generale.
La questione sta tornando
prepotentemente in questi giorni funestati, sanitariamente ed economicamente,
dal coronavirus. Si fa notare che l’eccezionalità della situazione richiede
misure straordinarie dal lato della politica monetaria e di quella fiscale. Quella
che abbiamo alle porte non è una crisi keynesiana propriamente detta, né può
essere ascritta all’«instabilità strutturale» del capitalismo di cui parlava
Hyman Minsky. In questo caso lo shock è indotto da un fattore esogeno, un virus
patogeno che ha imposto limitazioni pesanti alla produzione di beni e servizi,
al commercio mondiale, alla mobilità delle persone. Non per questo, tuttavia,
ci si può rifugiare nelle sole politiche monetarie volte ad abbassare il costo
del denaro e ad assicurare liquidità alle banche. Oggi c’è bisogno di soldi per
le strutture emergenziali, per il sostegno al reddito, per la sicurezza nei
luoghi di lavoro, domani ci sarà bisogno di ancora più soldi per riparare i
danni che il virus avrà arrecato alla struttura economica. Tutto molto giusto,
logico, ineccepibile. Eppure, in questo ragionamento c’è un anello mancante. Ma
soprattutto il rischio di rimanere intrappolati in uno schema post-keynesiano
che esclude, in prospettiva, un cambiamento radicale degli attuali paradigmi economici
e sociali. I deficit di bilancio non sono la «canna del fucile» della
rivoluzione, per intendersi. Come non lo sono l’accesso gratuito alle cure
mediche e all’istruzione o più lauti sussidi di disoccupazione e misure di
sostegno al reddito. Possiamo prendere in prestito una frase di Giorgio
Lunghini, per rendere meglio l’idea: «Per Keynes non si tratta di uscire dal
capitalismo, ma di organizzarlo meglio». Che poi, oggigiorno, sembra la massima
aspirazione di tutte le sinistre che si collocano alla sinistra dei simulacri
della vecchia socialdemocrazia. Da quando non si sente più parlare di lotta e
conflitto di classe?
Il virus ci ha messo di fronte alla
nostra fragilità, ma ha disvelato anche la fragilità e l’insostenibilità del
sistema che abbiamo costruito negli ultimi decenni. Non è solo lo stato
assistenziale azzoppato che viene chiamato in causa (il valore della
sanità pubblica, in primis), ma anche i rapporti di produzione, le nuove forme
di sfruttamento del «lavoro vivo», il rapporto perverso tra accumulazione
capitalistica e distruzione dell’ambiente, l’illusione dell’estrazione infinita
di valore dai beni finanziari scommettendo perfino sulle catastrofi. Non è vero
che il virus colpisce tutti allo stesso modo. Chi vive in ambienti inquinati e
gli operai delle fabbriche, i lavoratori coinvolti nell’economia delle
piattaforme e tutti i gig workers, i nuovi braccianti, l’epidemia
la pagano più di tutti gli altri. Con la salute e con il loro lavoro alienato.
Il virus, insomma, ha scavato più in profondità di tutte le più recenti
elucubrazioni sui difetti della nostra società. Ha riportato alla luce la
«contraddizione principale» di quel fenomeno complesso e storicamente
determinato qual è il capitalismo: lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo.
In una società liberata dal lavoro salariato ‒ nelle nostre società, al netto
dei cambiamenti intervenuti nella struttura del lavoro, più del 60 per cento
della popolazione dipende da un salario ‒ sarebbero i lavoratori associati a
decide come e quando produrre, non i padroni e le leggi del mercato e del
profitto. Ecco perché la crisi che ci accingiamo a vivere dovrebbe servire al
rilancio di un progetto di superamento del capitalismo. Andare oltre il
tamponamento delle ferite che lascerà questa crisi per niente docile, darsi
come obbiettivo la fine dell’iniqua distribuzione del potere nella società
odierna, tra chi detiene i mezzi di produzione e chi vende il proprio lavoro
alla stregua di una merce. La crisi, insomma, come occasione per spingere più
avanti, per organizzare le lotte nella prospettiva della costruzione di una
società «diversa», non solo «migliore». Chiamiamolo col suo nome: socialismo.
Una società nuova in cui alla falsa razionalità del mercato ‒ anche dei mercati
finanziari ‒ si sostituisca la razionalità delle scelte e delle decisioni prese
collettivamente e democraticamente dai cittadini e dai lavoratori, dal più
piccolo municipio ai luoghi della produzione. C’è una frase di Keynes molto
efficace per descrivere il capitalismo: «Se lo scopo della vita è di cogliere
le foglie dagli alberi fino alla massima altezza possibile, il modo migliore di
raggiungere questo scopo è di lasciare che le giraffe dal collo più lungo
facciano morir di fame quelle dal collo più corto». È la metafora della corsa
sfrenata e spietata per il profitto. Una corsa che si può fermare soltanto
rottamando il capitalismo. Che poi è la vera missione di una sinistra del
cambiamento degna di questo nome.
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