LE TRASFORMAZIONI DEL
LAVORO AUTONOMO
TRA CRISI E PRECARIETÀ
-Andrea Fumagalli-
Il lavoro autonomo di seconda generazione inizia a cambiare fisionomia. Nuove soggettività si sviluppano e la composizione sociale tende a modificarsi. La classica figura del lavoratore autonomo inserito nella filiera della produzione dei servizi materiali alle imprese, legata alla logistica delle merci si compenetra con la crescita, non sempre lineare, di un terziario immateriale legato alla creazione e alla circolazione degli immaginari, dei linguaggi e dei simboli
Negli
ultimi dieci anni, dopo una crescita quantitativa negli anni Settanta e
Ottanta, le statistiche ufficiali ci dicono che formalmente il numero dei
lavoratori autonomi si è ridotto, quasi a significarne la decadenza. In realtà,
se svolgiamo un’analisi rigorosa, ci accorgiamo che è fortemente aumentato il
numero delle piccolissime imprese con meno di tre addetti. L’Istat considera
tali imprese alla stregua di attività imprenditoriali vere e proprie. Il 35,4%
degli occupati nell’economia di mercato, pari a circa 5,5 milioni di persone,
lavora in cosiddette «imprese» la cui dimensione media non supera i 2,7 addetti
(2014). Il numero di tali microimprese, in costante aumento negli ultimi anni
pre-crisi e in calo a partire dal 2010 a seguito della forte crisi recessiva
che ha colpito il nostro paese, fa si che, secondo i dati Eurostat, l’Italia si
collochi al primo posto per la percentuale di addetti in microimprese (47% del
totale), davanti alla Polonia (41%), al Portogallo (40%) e alla Spagna (39%).
Ora, l’impresa capitalistica si definisce per tre gradi di libertà: di decidere
come produrre, quanto produrre e il prezzo a cui produrre. La stessa Istat calcola
che gli imprenditori con tali caratteristiche non siano più di 440.000 unità.
Ne consegue che la stragrande maggioranza delle microimprese non appartengono
alla sfera del capitale, bensì a quella del lavoro (Bologna 2007). In altre
parole, il mondo del lavoro è oggi costituito da una moltitudine di soggetti:
lavoro dipendente, lavoro formalmente autonomo ma eterodiretto, realtà di
microimprese incatenate alla filiera di subfornitura.
Le
trasformazioni del lavoro autonomo tra crisi e precarietà Iniziare a ragionare
in questi termini, ci consentirebbe di eliminare alcuni equivoci (oggi presenti
nell’ambito sindacale) e di cominciare un ragionamento di ricomposizione
sociale e politica a partire dal tema di un’unica ed omogenea protezione
sociale e tassazione (welfare metropolitano)1..
Nel
corso degli anni Novanta e del nuovo decennio Duemila, la fase postfordista ha
termine per lasciare spazio all’avvio vero e proprio della fase del capitalismo
cognitivo2. Il nuovo
paradigma socio-economico, basato sullo sfruttamento delle economie dinamiche
di apprendimento (generazione di knowledge)
e di rete (sua diffusione), si caratterizza per una prevalente specializzazione
verso le produzioni immateriali, in un contesto di organizzazione del lavoro
che fa perno sul rapporto contradditorio tra cooperazione e gerarchia: la prima
nasce dalla natura sociale insita nei processi di rete e di apprendimento, la
seconda deriva dalla crescente precarietà del lavoro come condizione anche
esistenziale di subalternità e ricattabilità. In questo contesto Il lavoro
autonomo di II generazione inizia a cambiare fisionomia. Nuove soggettività si
sviluppano e la composizione sociale tende a modificarsi. La classica figura
del lavoratore autonomo inserito nella filiera della produzione dei servizi materiali
alle imprese, legata alla logistica delle merci (trasporto, immagazzinamento,
grande distribuzione, catering, ecc.) si compenetra con la crescita, non sempre
lineare, di un terziario immateriale legato alla creazione e alla circolazione
degli immaginari, dei linguaggi e dei simboli (editoria, media, software,
design, servizi finanziari e immobiliari, ecc.). Nelle realtà più avanzate,
quale quella milanese, oramai più del 35% del valore aggiunto viene prodotto
nel terziario immateriale avanzato, contro un 32% dei servizi legati alla merce
e una quota inferiore al 30% per le attività industriali. È nel terziario
immateriale che si definisce una nuova figura di lavoro autonomo, che possiamo
definire di III generazione. Essa è costituita da soggetti relativamente
giovani, prevalentemente di genere femminile (processo di femminilizzazione del
lavoro3), con un grado di
cultura medio alto (processo di scolarizzazione di massa). A differenza del
lavoro autonomo di II generazione, questa nuova generazione non ha alle spalle
una tradizione di lavoro subordinato-stabile, poi entrato in crisi: essa entra
nel mercato del lavoro direttamente in una posizione che è immediatamente di
precarietà e incertezza. Si caratterizza per una maggior fragilità e dipendenza
culturale e immaginifica. Non ha alle spalle una tradizione di lotte per la
conquista di diritti sociali e di cittadinanza. Le tipologie contrattuali
prevalenti, non a caso, sono sempre più un misto tra subordinazione effettiva e
indipendenza formale, sul crinale della parasubordinazione (collaborazioni),
della partita-Iva, dello stage. In un contesto di lavoro cognitivo-relazionale,
inoltre, la separazione tra vita e lavoro, tra lavoro vivo e lavoro morto, tra
capitale fisso e capitale variabile diventa sempre più flebile. Ed è su questo
crinale che si gioca da un lato la ricattabilità del lavoro e dal’altro
l’illusione e l’immaginario del successo. È su questo crinale, che è necessario
fondare una nuova politica di welfare, che sulla garanzia di accesso ai beni
comuni e alla continuità di reddito fondi i suoi cardini principali.
1) Fumagalli, A., Intelligence Precaria,
2011 - La proposta di welfare metropolitano. Quali
prospettive per l’italia e per l’area milanese, in «Quaderni di San
Precario», n. 1, pp. 224-259 [PDF da
scaricare: → La proposta di welfare metropolitano]
2) – Fumagalli, A.
2007 - Bioeconomia
e capitalismo cognitivo. Verso un nuovo paradigma di accumulazione, Roma,
Carocci
3) Morini, C.
2010 - Per
amore o per forza. Femminilizzazione del lavoro e biopolitiche del corpo, Verona,
Ombre Corte
estratto dal saggio di Andrea
Fumagalli pubblicato per Quaderni di ricerca sull’artigianato 2/2015, sul
passaggio dall’epoca fordista al lavoro autonomo di II e III generazione tra
precarietà e insicurezza economica Clicca qui per leggere il testo
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