TARANTO,
IL “PIANO B” ESISTE ED È PRODUTTIVO
MA NON L’AVETE LETTO
-Girolamo
De Michele-
«Taranto non può più
essere il tappeto sotto al quale il Paese nasconde la sua “polvere”: industrie
tenute sul mercato unicamente dalla possibilità di non rispettare norme
ambientali e di sicurezza sul lavoro, di non innovare e di non virare verso la
transizione energetica. Né i tarantini e le tarantine possono essere
considerati sacrificabili per garantirne il profitto»
Si
conclude con queste parole il Piano Taranto, un documento di denuncia e programma –
un programma di governo dal basso, sintetico ed esemplare – scritto
collettivamente nel settembre 2018 da un arcipelago di associazioni militanti e
ambientaliste tarantine, notevole sia per le presenze che per le assenze – fra
tutte, quelle di Fiom, Fim e cgil: Comitato Cittadini e Lavoratori Liberi e
Pensanti, FlmUniti – Cub, Giustizia per Taranto, Tamburi Combattenti, Taranto
Respira, TuttaMiaLaCittà, singole e singoli cittadine/i. Oltre un anno fa,
questo documento non si limitava a denunciare l’insediamento industriale
dell’ex-Ilva come espressione di «un modello ingiusto e diseguale da fermare a
ogni costo», ma proponeva un piano di bonifica e riconversione del territorio.
Con buona
pace di chi riduce i movimenti ambientalisti a macchiette “ecoqualunquiste”
afflitte da “delirio di onnimpotenza”, l’ambientalismo radicale tarantino
smontava con fatti e dati la narrazione tossica che vuole schierati su due
fronti incomunicanti la cultura del lavoro e del progresso contro il mito della
decrescita condito da assistenzialismo. Al tempo stesso, batteva in breccia
l’altra narrazione tossica, quella dell’ineludibile contrapposizione fra salute
e lavoro: come se a Taranto non ci fosse famiglia attraversata dall’una e
dall’altra. Con buona pace di queste letture manichee (da ultimo Panebianco sul Corriere, per
tacere dei suoi mediocri epigoni), sempre finalizzate ad affermare le ragioni
del capitale industriale e della colonizzazione del meridione, mascherate da
dure leggi della storia.
Il piano
B per Taranto esiste: alternativo ai vari piani, o pseudo tali, che rimbalzando
dall’attuale proprietà franco-indiana a improbabili cordate, dalla
nazionalizzazione alla soluzione britannica (ovverosia cinese), non fanno che
reiterare l’esistenza di una fabbrica inutile, nociva e in perdita. Partendo
dallo studio «Dalla bonifica alla reindistrializzazione» di Confindustria
(2009-16), e tenendo presente lo studio di Althesys – Greenpeace «Le ricadute
economiche delle energie rinnovabili in Italia» (2014), il Piano Taranto calcola
che la bonifica delle aree Sin (Siti di interesse nazionale) in tutto il Paese,
secondo le indicazioni del Rapporto del Ministero dell’Ambiente 2013, a fronte
di una spesa stimata in 9,7 mld, produrrebbe: un incremento del livello di
produzione di oltre 20 mld; un incremento del valore aggiunto di circa 10 mld;
un incremento occupazionale di 200.000 unità.
Peraltro,
a fronte della spesa di 9.7 mld, l’effetto sulle entrate tributarie sarebbe un
incremento di 1,6 miliardi delle imposte dirette e 1,7 delle indirette, più 1,4
mld di maggiori contributi sociali, pari a quasi la metà della spesa, senza
peraltro considerare i benefici insiti nel recupero ambientale del territorio e
la loro restituzione alla fruibilità pubblica e privata.
Applicando
alla realtà di Taranto queste stime: per bonificare 4.000 ettari fra aree Ilva,
aree Sin da bonificare e aree urbane dell’area di crisi ambientale di Taranto,
occorrerebbero circa 850 mln, più 1,3 mld circa per il recupero ai fini di
riutilizzo dell’area Ilva, in parte compensati da entrate fiscali di quasi 1
mld; con un effetto sull’occupazione capace di generare 43.000 nuovi posti di
lavoro a fronte dei circa 13-15.000 persi con la chiusura del siderurgico, che
sarebbero riassorbiti nelle nuove attività di risanamento e riconversione
economica. Il Piano indica anche le diverse opportunità offerte dai fondi
europei (a partire dal Fondo Europeo di adeguamento alla Globalizzazione e al
Fondo Sociale Europeo), e conclude con le linee guida per la riconversione,
lungo le direttrici delle economie green e bonifiche, sviluppo della
alternative economiche sulla base delle reali vocazioni territoriali,
riqualificazione a medio e lungo periodo del porto. Su queste linee guida le
associazioni firmatarie del Piano chiamavano «istituzioni, sindacati e classe
dirigente a prendere una posizione chiara per dare corpo e forma al cambiamento
atteso». Era il settembre 2018: quel telefono sta ancora squillando, senza
risposta.
l’articolo è stato pubblicato in
questi giorni su “il Manifesto” (20\11)
e su Euronomade (21\11)