una sfida all’ordine liberale costruito dagli Stati Uniti e dall’Occidente ?
o libero scambio nell'economia globale aperta ?
L’Italia sarà il primo
Paese del G7 ad aderire alla “Via della Seta”, il grande piano infrastrutturale
del governo cinese. Alle pressioni per impedire un cambio di posizionamento a
favore di Pechino, si contrappongono le spinte per l’apertura di nuovi mercati.
Una partita globale, dall’esito molto incerto
Un timbro rosso con quattro caratteri sormonta il titolo dell’evento:
“Presentazione della versione italiana del volume Xi Jinping: Governare la Cina”. Il cartello accoglie gli ospiti
all’ingresso della Sala Zuccari di Palazzo Giustiani. Al Senato una platea
numerosa e attenta ascolta l’ambasciatore cinese a Roma Li Ruiyu e il
presidente di China International Publishing Group, Zhang Fuhai, illustrare il
pensiero del presidente cinese. Succedeva a settembre del 2017. Presenti,
l’allora sottosegretaria al Turismo Dorina Bianchi, Francesco Rutelli, la
vicepresidente della Camera Marina Sereni, il senatore Alessandro Maran e il
presidente di Palazzo Madama Pietro Grasso, seconda carica dello Stato.
Mercoledì 20 marzo 2019, nella non meno maestosa cornice di Palazzo Colonna,
una nuova presentazione del volume ha aperto ufficialmente gli appuntamenti
della visita di Xi Jinping in Italia, alla vigilia del suo sbarco a Roma.
Le relazioni tra Italia e Cina vanno quindi avanti da ben prima che si
scatenasse la canea sull’adesione dell’Italia alla nuova Via della Seta. La
firma del memorandum d’intesa per la cooperazione nell’ambito della Belt
and Road Initiative, o One Belt One Road, o anche Obor,
come viene di volta in volta indicato il mastodontico progetto infrastrutturale
e di connessione globale lanciato da Pechino nel 2013, sarà il culmine della
prima visita di Stato di Xi nella penisola da quando sei anni fa è salito al
vertice della Repubblica popolare cinese.
Definire il memorandum
“un accordo commerciale”, come fatto in più occasioni dal vicepremier e
ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico, Luigi Di Maio, è però
limitativo. Il grande piano infrastrutturale coinvolge già oltre 60 Paesi, ed
estendendosi anche all’Africa e all’America Latina va ben oltre i confini della
Via della Seta (termine peraltro coniato soltanto nel 1877 dal barone e
geografo tedesco Ferdinand von Richthofen per sostenere un progetto di
connessione ferroviaria tra Europa e Asia). La valenza è politica. L’Italia
sarà il primo Paese del G7 e fondatore dell’Unione europea ad aderire
formalmente al progetto. Una fuga in avanti nonostante i timori e le pressioni
statunitensi ed europee per il rischio di un cambio di posizionamento
strategico internazionale di Roma a favore di Pechino.
Per il presidente del
Consiglio, Giuseppe Conte, non partecipare alla Via della Seta sarebbe però
contro gli interessi italiani.
Secondo SACE, il progetto può contribuire a ridurre i rischi per gli
investitori e per gli esportatori italiani in Paesi dove i prodotti del made in Italy sono ancora poco conosciuti e fanno
fatica ad arrivare ai consumatori. Riducendo i costi e stimolando il commercio
internazionale nonché i flussi di investimenti diretti esteri, può semplificare
i costi operativi per le imprese italiane, spiegava a novembre un focus della
società di assicurazione crediti del gruppo Cassa Depositi e Prestiti.
Tra il 2014 e il 2017, lo stock di investimenti diretti esteri (IDE) in
uscita dall’Italia verso i Paesi coinvolti nella Belt&Road, si
legge nello studio, è cresciuto in media del 6,5% rispetto all’incremento del
2,5% del totale degli investimenti italiani in giro per il mondo. Si tratta,
tuttavia, di livelli ancora molto bassi (circa il 18% degli IDE complessivi).
Inoltre, dal 2014, gli scambi tra l’Italia e i mercati della Belt&Road (esclusa
la Cina) sono cresciuti in media di appena il 2,9% all’anno negli ultimi
quattro anni (export +2,7% e import +3%).
Il governo non nasconde
l’obiettivo di incrementare le quote di mercato nelle Repubblica Popolare e in
Paesi terzi toccati dall’iniziativa.
In questo contesto proprio Cassa Depositi e Prestiti sembra avere un ruolo
centrale. La SpA del Tesoro ha allo studio l’emissione di un cosiddetto “panda
bond”, vale a dire una obbligazione denominata in yuan da collocare a
investitori cinesi. La raccolta dovrà servire a finanziare
l’internazionalizzazione delle imprese italiane in Cina. Sempre attorno a Cassa
Depositi e Prestiti ruota anche la possibilità di collaborazione sino-italiana
in Paesi terzi. L’idea, neppure troppo nascosta, è di posizionare le piccole e
medie imprese esportatrici nella catena di forniture dei colossi industriali e
commerciali del Dragone.
La volontà italiana di
recuperare quote di mercato non nasconde però i risvolti politici della firma
del memorandum.
Come rilevato dal professor Giuseppe Gabusi su Internazionale, la Belt and Road Initiative“non
rappresenta una sfida diretta all’ordine liberale costruito dagli Stati Uniti e
dall’Occidente, in quanto si basa esplicitamente sul regime del libero scambio,
e presume l’esistenza di una economia globale aperta”. Va però ricordato che lo
sviluppo della Via della Seta è entrata a fare parte del bagaglio teorico del
Partito comunista cinese (Pcc) stesso, inserito nello statuto del Pcc in
contemporanea con le modifiche costituzionali che hanno sancito la possibilità
per Xi Jinping di restare in carica anche alla scadenza del suo secondo mandato
da leader, rompendo con una tradizione consolidata della politica cinese.
La stessa estensione
del progetto è via via mutata. Ai sei corridoi prioritari Cina-Mongolia-Russia,
Bangladesh-Cina-Birmania, Cina-Indocina, Cina-Pakistan e Cina-Asia centrale e
occidentale, si sono aggiunte nuove tratte e nuove rotte. Si parla oggi di “Via
della Seta digitale” e addirittura di una “Via della Seta aereospaziale”. Un
progetto globale appunto, da molti accostato a ciò che per gli Stati Uniti fu
il piano Marshall in termini di influenza internazionale.
L’Italia decide però di aderire in un momento di calo di interesse verso
l’iniziativa. Nell’ultimo anno si sono moltiplicati gli allarmi sulla “trappola
del debito” nella quale rischiano di restare incastratati i Paesi nei quali
Pechino investe in progetti infrastrutturali. Un rapporto del Center
for Global Development pubblicato nella primavera del 2018 evidenziava
il rischio per il debito sovrano in otto Paesi: Djibuti, Kirghizistan, Laos,
Maldive, Mongolia, Montenegro, Pakistan e Tajikistan. Sono invece almeno 27 i
Paesi coinvolti il cui rating è in territorio junk, spazzatura. E
ragioni di costi sono dietro la decisione del governo malaysiano di Mahathir
Mohamed di sospendere il progetto ferroviario East Coast, con l’ipotesi di
riavviare il dialogo con i cinesi su basi più contenute.
Anche nei Paesi
europei che per primi hanno abbracciato l’iniziativa, la Cina inizia a
registrare le prime incomprensioni. Nel 2016 il passaggio del controllo
dell’autorità del porto del Pireo a Cosco Shipping fu vista come la
capitolazione del governo di Atene agli interessi della Cina. Uno dei primi
effetti dell’operazione fu la scelta dell’esecutivo guidato da Alexis Tsipras
di bloccare una risoluzione Ue di condanna alla Cina in tema di mancato
rispetto dei diritti umani. Mentre a gennaio l’Ufficio antifrode della Ue ha
multato i greci per oltre 200 milioni di euro per non aver bloccato una frode
fiscale su larga scala messa in atto da gruppi cinesi sulle merci importate
attraverso lo scalo ellenico.
La luna di miele comunque sembra essere arrivata alla fine. Cosco infatti
si è vista respingere da una commissione del ministero delle Politiche navali
il business plan di espansione del Pireo. Un “no” motivato dal
rifiuto di Cosco di spacchettare il programma di interventi. La parte del
progetto contestata, anche da un’ala di Syriza, il partito di Tsipras, riguarda
la costruzione di un centro commerciale nelle vicinanze del nuovo porto, di uno
dei quattro nuovi alberghi inclusi nel master plan e
la creazione di un centro logistico non lontano dalla municipalità di
Keratsini. Un progetto che a detta dei detrattori rischia di fare concorrenza
al tessuto imprenditoriale già presente. Il “no” ellenico segna quindi il primo
intoppo per il piano investimenti da 580 milioni di euro messo in campo dai
cinesi per l’autorità portuale del Pireo.
In un recente articolo sulla Asia Nikkei Review il
professor Minxin Pei della Claremont McKenna College ha addirittura
preannunciato una “morte lenta” della Belt&Road. E non soltanto
per i problemi in alcuni snodi chiave. Lo studioso rileva anche una minore
enfasi della propaganda.
Di contro ancora lo scorso aprile, in occasione di un forum sulla Via della
Seta organizzato a Pechino, analisti e rappresentati di banche d’affari non
mancavano di sottolineare come bastasse collegare una qualsiasi operazione di
investimento alla One Belt One Road per superare le barriere
poste alla fuoriuscita di capitali dal Paese.
Che l’Italia possa fare da apripista per altri Paesi europei? Anche chi non
ha ancora firmato alcun memorandum con Pechino è di fatto parte del progetto.
La città tedesca di Duisburg rappresenta ormai l’hub del progetto
in Europa, benché la Germania sia uno dei Paesi a non aver firmato. Difficile
però che il governo giallo-verde italiano possa trainare altri Paesi, come
invece fece la Gran Bretagna nel 2015, primo Paese alleato degli Usa ad aderire
alla Banca asiatica per gli investimenti e le infrastrutture, l’istituto
multilaterale voluto da Pechino per finanziare i progetti nel continente cui
l’Italia partecipa con una quota del 2,7% del capitale.
Nell’ultimo Consiglio europeo i leader comunitari hanno discusso un
documento nel quale la Cina viene definita un rivale strategico. Bruxelles
chiede a Pechino un trattamento non discriminatorio per le proprie aziende e di
migliorare l’accesso agli appalti cinesi.
“Ci copieranno”,
ripete dal canto suo il presidente del Consiglio Conte.