il sud nella trappola dell’austerità
se le regioni riusciranno a trattenere gran parte del proprio gettito e le funzioni delle materie di cui al terzo comma dell’articolo 117, esse tenderanno sempre di più a decentrarsi, cosicché i cittadini delle regioni più ricche potranno godere di servizi migliori rispetto ai cittadini di quelle economicamente svantaggiate
Si discute molto, in questi giorni, della cosiddetta autonomia differenziata. Quest’ultima dovrebbe rappresentare il fiore all’occhiello dell’avventura leghista al governo con il Movimento 5 Stelle. Al momento (e questa dovrebbe essere una buona notizia, come vedremo a breve), il governo giallo-verde sembra non riuscire a trovare la quadra sull’argomento. Ciò avviene, questo è certo, non per le preoccupazioni del Movimento 5 Stelle sulla tenuta dell’unità nazionale o sul destino dei cittadini del Mezzogiorno, ma semplicemente per il tornaconto elettorale di un movimento politico che ha tratto gran parte del suo consenso dalle regioni del Sud e che, adesso, una volta che il bluff giallo-verde è stato svelato, sta assistendo a un inesorabile smottamento nella sua popolarità proprio in quelle regioni che ne avevano favorito l’ascesa. La riforma, però, sembra soltanto rinviata, probabilmente a dopo le imminenti elezioni europee. Vale, dunque, la pena di soffermarsi sulla questione, allo scopo di metterne in luce i contenuti e le implicazioni.
Prima di tutto, dobbiamo chiederci cosa sia l’autonomia differenziata. In
generale, è possibile asserire che lo Stato tassa i cittadini e ‘accentra’ la
quasi totalità delle risorse: in altre parole, le tasse pagate dai cittadini
finiscono quasi integralmente all’erario, ossia nelle casse dello Stato.
L’autonomia differenziata romperebbe questo meccanismo, permettendo ad enti più
periferici, come le Regioni, di trattenere una quota rilevante (più o meno
elevata a seconda della portata dell’eventuale riforma, ma comunque maggiore di
quella attuale, davvero minima) delle tasse pagate dai cittadini.
Per comprendere al meglio gli aspetti
normativi di questo concetto, occorre, inoltre, ricorrere ad un noioso (ma
breve) excursus nel campo del diritto costituzionale.
L’istituto dell’autonomia differenziata (o rafforzata) è previsto
esplicitamente dalla Costituzione, così come modificata dalla riforma del
titolo V del 2001 (la legge costituzionale 3/2001, proposta nel 1999 dall’allora
Presidente del Consiglio D’Alema e da Amato, all’epoca Ministro per le riforme
istituzionali). L’articolo 116 della Costituzione risultante da tale riforma,
recita, al terzo comma:
«Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie
di cui al terzo comma dell’articolo 117 [ovvero quelle in cui lo Stato e le
Regioni esercitano la cosiddetta legislazione concorrente, NdR]
possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su
iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei
princìpi di cui all’articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a
maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la
Regione interessate».
Le materie in questione sono le più
svariate (qui quelle di legislazione concorrente).
Ne riportiamo soltanto alcune: tutela e sicurezza del lavoro, istruzione,
ricerca, salute, protezione civile, porti e aeroporti civili, grandi reti di
trasporto, previdenza complementare e integrativa, beni culturali.
Ciò a cui stiamo assistendo è, dunque,
l’applicazione concreta dell’articolo 116. Tre Regioni, infatti, ovvero Emilia-Romagna,
Lombardia e Veneto, hanno formalmente iniziato, a seguito, in alcuni casi,
di referendum consultivi, l’iter per l’ottenimento
delle ulteriori forme di autonomia di cui sopra. In altre parole, hanno
iniziato a trattare, prima con il governo Gentiloni (le cosiddette pre-intese del febbraio
2018) e, successivamente, con il governo Conte, i contenuti delle
intese che dovranno essere sottoposte al vaglio delle Camere.
Allo stato attuale, è molto difficile dire in cosa consisteranno tali
intese. Esse, infatti, non sono ancora pubbliche e, per molti aspetti, non sono
state ancora definite. Le bozze che circolano, non definitive, possono cambiare
da un giorno all’altro in base alla trattativa in corso. Sorvoliamo, qui, sulla
particolare procedura prevista per l’esame di queste intese da parte delle
Camere, le quali, secondo l’interpretazione più diffusa, potranno semplicemente
accettare o rifiutare in blocco le intese, senza la possibilità di emendarle,
come invece accadrebbe con un normale disegno di legge (una garanzia, a dire il
vero, alquanto priva di significato date le intenzioni della maggioranza e la
malleabilità dei grillini).
Su alcuni aspetti, però, si può già dire
qualcosa. L’attuazione delle intese implicherà un trasferimento di risorse
economiche dallo Stato alle Regioni che otterranno l’autonomia rafforzata
(vedi, al riguardo, anche il saggio di Gianfranco Viesti, Verso la
secessione dei Ricchi?, scaricabile gratuitamente).
Dalle bozze che circolano attualmente, in realtà, è impossibile quantificare
con sufficiente precisione le risorse che saranno trasferite alle Regioni. Non
sono chiare le materie che saranno oggetto di decentramento rafforzato, né
quali saranno i criteri attraverso i quali le risorse economiche saranno
assegnate. Quel che è certo, però, è, da un lato, che le Regioni non si
limiteranno a chiedere quanto necessario per l’espletamento delle funzioni che
saranno decentrate (per capire le intenzioni delle regioni, soprattutto di
Lombardia e Veneto, basti pensare che in un referendum, poi ritenuto
illegittimo e, per questo, mai tenutosi, il Veneto faceva richiesta del
90% del gettito maturato nella regione). Dall’altro, è certo che il
trasferimento in questione provocherà una riduzione del gettito fiscale per lo
Stato, che dovrà intervenire tagliando la spesa delle amministrazioni centrali
o quella che effettua nelle altre regioni. E questo avverrà per la ragione che
la ministra leghista per le autonomie regionali, Erika Stefani, assurdamente adduce per
spiegare che le risorse non saranno sottratte alle altre regioni: l’inserimento
della cosiddetta clausola di invarianza finanziaria.
Quest’ultima prevede che le intese non debbano comportare nuovi o maggiori
oneri per le finanze pubbliche. In altri termini, vuol dire che ciò che lo
Stato perderà, in termini di gettito, per l’implementazione dell’autonomia
differenziata, dovrà recuperarlo attraverso una riduzione della spesa pubblica.
E ciò in ottemperanza alle previsioni dei trattati europei, che prevedono la
possibilità dell’inserimento in Costituzione del pareggio di bilancio (il
famoso articolo 81, così come
modificato nel 2012).
In altri termini, le tre regioni in
questione (e le altre che richiederanno l’autonomia), che sono, non a caso, tra
quelle più ricche, ed essendo le tasse proporzionali al reddito anche quelle
con i più alti gettiti fiscali, vogliono tenere per sé gran parte di
tale gettito. Ma questo significa l’inasprimento di un processo già in
corso, volto a ridurre sempre di più l’intervento dello Stato nell’economia. E
questo in totale contrasto con ciò che è richiesto nelle aree
economicamente depresse, ovvero un pesante intervento dello Stato,
anche in deficit, per il sostegno alla domanda aggregata e, dunque, al reddito
di tali aree. In contrasto con esigenze redistributive ed espansive della spesa
pubblica, dunque, ma in ossequio a quelle di quello che rappresenta lo zoccolo
duro della Lega al nord: la grande e media borghesia che sempre di più vuole
mano libera nelle regole che disciplinano il mercato del lavoro, il minor
prelievo fiscale possibile e, se investimenti pubblici devono esserci, che
siano localizzati nelle regioni dove esse operano e, possibilmente, pensati e
implementati al loro servizio.
A ciò si aggiunga il fatto che se le
regioni riusciranno a trattenere gran parte del proprio gettito e le funzioni
che abbiamo citato tenderanno sempre di più a essere decentrate, è chiaro che i
cittadini delle regioni più ricche potranno godere di servizi migliori rispetto
ai cittadini di quelle economicamente svantaggiate. Un fenomeno non nuovo,
certo, ma che andrà ad accentuarsi in misura sempre maggiore, anche ‘grazie’ ai
trattati europei, che impongono vincoli stringenti sia
per quel che riguarda la spesa pubblica in deficit, sia per quel
che riguarda gli ambiti di intervento a sostegno di determinati territori
(politica industriale, creazione di posti di lavoro, realizzazione delle
infrastrutture necessarie).
Siamo circondati, dunque, dai bracci di
una tenaglia: da un lato, l’austerità dei trattati, che impone dannosi freni
all’espansione della spesa pubblica proprio laddove ce ne sarebbe più bisogno;
dall’altro, la voracità dei capitalisti, rappresentati, in questo caso come in
altri, dalla Lega, che hanno tutto l’interesse a vedersi tassare di meno, a
concentrare le risorse pubbliche laddove sono necessarie ai propri interessi e
ad avere a disposizione manodopera disperata e,
per questo, a buon mercato.
Un’ulteriore dimostrazione che dobbiamo rompere sia
con la gabbia europea sia con la falsa alternativa del governo penta-leghista.