-Amélie Poinssot-
“Siamo sull’orlo di una
trasformazione globale”LA NUOVA FORMA DI LOTTA SI FONDA SULLA FRATERNITÀ
Per il filosofo italiano Antonio Negri, i gilets jaunes si iscrivono in una tendenza che osserviamo,
in Europa e nel mondo, a partire dal 2011, da Occupy Wall Street alla
rivoluzione tunisina. «Siamo sull’orlo di una trasformazione mondiale», spiega
il teorico della «moltitudine». I gilets
jaunes devono restare un contro-potere e, soprattutto, non
trasformarsi in partito politico, afferma Antonio Negri. Il filosofo italiano,
che vive à Parigi dal 1983, osserva da molto tempo i movimenti sociali nel
mondo. In Assemblea, la
sua ultima opera scritta nel 2018 con Michael Hardt, ha fornito una cornice
filosofica alle occupazioni delle piazze pubbliche emerse in questi ultimi
dieci anni. In Impero,
pubblicato con lo stesso autore nel 2000, Negri ha inventato il concetto di
“moltitudine”, che assume oggi una particolare pregnanza con il movimento
dei gilets jaunes. Il
movimento che si è sviluppato in Francia da novembre si caratterizza, a suo
avviso, per una nuova forma di lotta che si fonda sulla fraternità
Da una decina di anni,
numerosi movimenti di protesta sono emersi, in Europa e nel mondo, fuori dai
partiti o dalle organizzazioni sindacali. Cosa apportano di nuovo i gilets
jaunes rispetto a ciò?
I gilets
jaunes si inscrivono in questa tendenza alla quale assistiamo a
partire dal 2011: dei movimenti che fuoriescono dalle categorie destra/sinistra
come Occupy Wall Street, gli Indignados, o ancora il
sollevamento tunisino.
Anche in Italia le persone si sono
mobilitate, prima nelle università con il movimento dell’Onda, poi attorno ai
beni comuni con l’opposizione alla TAV o alla gestione dei rifiuti a Napoli.
Ogni volta, si tratta di lotte
importanti che non si posizionano né a destra né a sinistra, ma che poggiano su
una comunità locale.
È qualcosa che
ritroviamo nei gilets jaunes: c’è in questo movimento un senso
della comunità, la volontà di difendere ciò che si è. Mi fa pensare
all’«economia morale della folla» che lo storico britannico Edward Thompson
aveva teorizzato nel periodo precedente la rivoluzione industriale.
Tuttavia, ciò che c’è
di nuovo con i gilets jaunes è una certa apertura al concetto
di felicità: siamo felici di stare insieme, non abbiamo paura perché siamo il
germe di una fraternità e di una maggioranza.
L’altro aspetto
importante mi pare sia il superamento del livello sindacale della lotta. Il
problema del costo della vita resta centrale, ma il punto di vista categoriale
è del tutto superato. I gilets jaunes sono alla ricerca di
un’uguaglianza attorno al costo della vita e del modo di vita. Hanno fatto
emergere un discorso sulla distribuzione del profitto sociale costituito
dall’imposta, muovendo da una rivendicazione iniziale che era al contempo molto
concreta e molto generale: la riduzione della tassa sul carburante.
Se ci fosse una vera
sinistra in Francia, si sarebbe gettata sui gilets jaunes e
avrebbe costituito un elemento insurrezionale. Ma il passaggio da questo tipo
di lotta alla trasformazione della società è un processo terribilmente lungo e
talvolta crudele.
Come interpretare la
violenza vista in occasione delle manifestazioni parigine? Essa è diventata per
alcuni l’unico mezzo al quale ricorrere per farsi ascoltare?
I gilets
jaunes sono un movimento profondamente pacifico. Non considerano la
violenza come un mezzo. Ho conosciuto bene i movimenti sociali degli anni ’70
in Italia. All’epoca, la violenza operaia mirava alla polizia e in ogni faccia
a faccia tra le 100 e le 200 molotov colpivano le forze dell’ordine. Non è
questo il caso.
I manifestanti non tirano le bottiglie
molotov sulla polizia. Durante i cortei, che si dirigono dagli Champs-Élysées a
Place de la Concorde, la situazione è violenta perché si impedisce di arrivare
di fronte ai Palazzi, nonostante sia perfettamente legale. È nello scontro che
nasce la violenza, essa non è teorizzata in quanto tale come mezzo d’azione.
Per me c’è una differenza enorme tra la
colpa e la responsabilità. Le persone che sono venute a manifestare a Parigi
non sono venute per picchiare o per fare dei danni. Non sono responsabili di
questa situazione.
Guardando ai gilets
jaunes, sono stato piuttosto colpito dalla fraternità di questo movimento.
Sono delle persone che si costruiscono come fratelli e sorelle. Come in una
famiglia, tentano di regolare le controversie attraverso la discussione: è
questo il referendum d’iniziativa cittadina.[1] È
un fenomeno totalmente nuovo, commisurato al collasso politico.
Stiamo assistendo
all’emergenza di un nuovo corpo, visto che dal crollo del blocco comunista, le
idee faticano a imporsi per far fronte al rullo compressore del neoliberalismo?
Dal canto mio, sono vent’anni che parlo
di “moltitudine” precisamente per analizzare la dissoluzione delle antiche
classi sociali. La classe operaia è stata una classe produttiva, legata a una
temporalità e a una localizzazione: si lavorava in fabbrica e la città seguiva
il ritmo della fabbrica. A Torino per esempio, i tram erano regolati sugli
orari della giornata di lavoro.
Tutto questo è finito. Non sono
nostalgico di quell’epoca, perché la fabbrica uccideva le persone. Certo,
abbiamo perso il legame della produzione, il legame della giornata di lavoro,
il collettivo. Ma oggi, abbiamo la cooperazione: e questa va ben oltre il
collettivo.
La moltitudine non è una folla di
individui isolati, rinchiusi in se stessi ed egoisti. È un insieme di
singolarità che lavorano, che possono essere precari, disoccupati o pensionati,
ma che sono nella cooperazione.
C’è una dimensione spaziale in questa
moltitudine: sono delle singolarità che, per esistere, chiedono di essere in
contatto le une con le altre. Non si tratta solo di quantità. È anche la
qualità delle relazioni che è in gioco.
I sindacati hanno
completamente mancato il movimento?
È stato lo stesso
Laurent Berger, segretario generale della CFDT[2],
a dichiarare che il sindacalismo è mortale. I sindacati sono diventati organi
di Stato per gestire i salari e le prestazioni sociali. Non hanno alcuno spazio
in seno ai gilets jaunes, a meno che non comincino a ricordarsi
cos’è accaduto un secolo fa… Sono bloccati sulle categorie e la
professionalizzazione.
Come comprendere la
risposta dello Stato e la repressione poliziesca che ha colpito i manifesti – e
di cui Médiapart si è fatta l’eco tramite diverse testimonianze delle vittime e
il lavoro di David Dufresne?
Le autorità vivono allo stesso tempo
un’incomprensione totale del movimento e una reazione di paura. Emmanuel Macron
sa perfettamente che il suo potere è estremamente fragile. Il contrasto è
impressionante tra il vuoto dei suoi discorsi e la gravità della sua gestione
governativa. È un prodotto della democrazia francese privo di ogni senso della
realtà.
In fondo, Macron è sulla linea di tutti
i governi neoliberali in crisi: essi tendono verso il fascismo. In Francia, le
istituzioni sono ancora sufficientemente forti per impedire che ciò accada, ma
i metodi e le armi della polizia francese sono inquietanti. A differenza delle
forze dell’ordine tedesche, che puntano più alla deterrenza, la polizia
francese è ancora sul terreno dello scontro. Io lo interpreto come un elemento
che fa parte di questa fragilità del potere.
Non c’è qui una
distorsione tra, da un lato, l’aspetto avanguardista e fondamentalmente nuovo
del movimento dei gilets jaunes e, dall’altro, l’aspetto
retrogrado della risposta poliziesca, che ricorda i metodi degli anni ’60-’70
impiegati in diversi paesi europei?
Certo. Ma non possiamo
sapere come il movimento dei gilets jaunes evolverà. Io guardo
a ciò che sta accadendo a Commercy[3]:
è molto interessante assistere alla trasformazione delle rotonde in gruppi di
lavoro. La trasformazione del movimento non verrà dall’esterno, ma dagli attori
stessi.
Quanto alla questione
se esso sfocerà in un partito politico… Dal mio punto di vista, sarebbe un
errore, anche se questa via dovesse essere accettata dalla maggioranza.[4]
Lei si aspetta, con
i gilets jaunes, dei cambiamenti importanti nelle nostre
istituzioni?
Questo movimento mi ha riempito di
speranza, perché mette in atto una forma di democrazia diretta. Sono convinto
da cinquant’anni che la democrazia parlamentare sia destinata al fallimento.
Già nel 1963 scrivevo un saggio nel quale criticavo lo Stato dei partiti. La
situazione non ha fatto che aggravarsi… E lo si ritrova oggi ad ogni livello:
comuni, regioni, Stati. E ovviamente, in Europa. L’Unione Europea è diventata
una caricatura dell’amministrazione democratica.
I gilets
jaunes hanno fatto apparire una domanda reale di partecipazione da
parte degli individui. Con i mezzi tecnici di cui noi oggi disponiamo, possiamo
costruire una democrazia radicalmente differente. Pensiamo ai filosofi
dell’Illuminismo… Non erano dei folli. Le persone che hanno inventato la
democrazia erano persone normali. Si deve osare pensare, come diceva Kant.
Siamo sull’orlo di una trasformazione
globale. Smettiamo di pensare che questo sia il regno di Trump e di Bolsonaro.
Con Internet e le reti sociali, siamo entrati in un nuovo rapporto tra
tecnologia e trasformazione dell’umano. Non ho mai pensato che il capitalismo
fosse unicamente una catastrofe, un mondo di merci e di alienazione. Il
capitalismo è un universo di lotte nelle quali le persone tentano di
appropriarsi dei prodotti dell’umano sfruttati dai padroni.
I gilets
jaunes devono restare su questo terreno di lotta, piuttosto che
diventare un partito politico, essere inghiottiti dal sistema e trovarsi
nell’incapacità di agire nella digestione che il potere farebbe di loro. Spero
che rimangano un contro-potere.
I gilets
jaunes non vogliono leader. Se il sistema parlamentare è in crisi, la
crisi sarà superata con nuove forme di organizzazione. Non abbiamo bisogno di
un Cohn-Bendit. L’ideale sarebbe di arrivare a una democrazia diretta nella
quale non ci sarebbero intermediari. Gli intermediari impediscono la
trasparenza.
Insomma, bisogna
rivedere i nostri schemi di pensiero e inventare …
Si, ma nei gilets
jaunes la pratica viene prima del pensiero. Per comprendere questo
movimento, bisogna mettersi in una posizione di umiltà di fronte a ciò che sta
accadendo. Non si potrà costruire una formazione politica come Podemos.
Quest’ultimo, d’altronde, è stato incapace di recuperare da un punto di vista
teorico ciò che gli spagnoli mobilitati facevano da un punto di vista pratico.
La creazione del
partito non può ormai che portare a un fallimento: le principali personalità di
Podemos si accoltellano alle spalle e si uccidono a vicenda per i nomi dei
candidati alle prossime elezioni [il 17 gennaio, uno dei fondatori di Podemos,
Iñigo Errejón, ha annunciato la sua intenzione di candidarsi indipendentemente
dal partito alle regionali. Sarà candidato nella piattaforma del sindaco della
capitale, Más Madrid – ndr médiapart]. La formazione di un partito
politico è la fine di un movimento sociale.
È una valutazione che
lei fa egualmente nei confronti del Movimento Cinque Stelle, nato circa una
decina di anni fa in Italia e oggi membro di un governo accanto alla Lega,
partito d’estrema destra?
In effetti, all’origine dei Cinque
Stelle si trovavano delle persone provenienti dai movimenti autonomi, dalle
lotte per i beni comuni, ma anche, più tardi, dei critici della riforma
costituzionale voluta da Matteo Renzi. Era contrassegnato a sinistra. A
differenza che in Francia dove il movimento è esploso di un colpo, in Italia,
si è distribuito nel tempo, le persone si sono formate poco a poco.
In seguito, con la loro abilità, il
comico Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, hanno cominciato a fare un lavoro
elettorale su queste mobilitazioni. Il potere si è progressivamente spostato
verso coloro che padroneggiavano le tecniche politiche.
Dal momento in cui ha tentato di
governare, sotto la direzione di Luigi Di Maio, il movimento Cinque Stelle è
stato completamente fuorviato. Prendere il potere non è rivoluzionario. Ciò che
è rivoluzionario, è essere capaci di distruggere il potere o, al limite, di
riformarlo.
Da allora, ciò che il Movimento Cinque
Stelle fa al governo è rivoltante. Il reddito di cittadinanza universale che
aveva promesso lo scorso anno durante la campagna elettorale è diventato una
legge sulla povertà: il reddito è attribuito solo a una parte dei disoccupati
ed è soggetto a obblighi disciplinari. Così, alla terza offerta di impiego, il
beneficiario è obbligato di accettarlo, quale che sia la distanza dal suo
domicilio.
I Cinque Stelle sono stati sopraffatti
dall’avidità, dalla bramosia del potere. Si sono alleati con dei veri fascisti
(la Lega) che sono, allo stesso tempo, dei profondi neoliberali. Il fascismo è
il volto politico del neoliberalismo in crisi. Ma c’è una giustizia elettorale:
il Movimento Cinque Stelle perderà molti voti alle elezioni europee del maggio
prossimo.
Articolo apparso in
francese sul sito médiapart
traduzione italiana di
Francesco Brancaccio per DINAMOpress
[1] Il Référendum d’initiative
citoyenne, detto anche RIC nel dibattito francese, è una delle proposte
avanzate dal movimento, accanto alle rivendicazioni in tema di salario, salario
minimo, giustizia fiscale, potere d’acquisto, pensioni e servizi pubblici
nazionali e locali. Il RIC, per come è formulato dai gilets jaunes,
consentirebbe ai cittadini di: proporre delle leggi; chiedere l’abrogazione di
una legge; revocare degli eletti prima della fine del loro mandato; modificare
la Costituzione e approvare o rifiutare dei trattati internazionali (ndr).
[2] La Confédération française
démocratique du travail è uno dei principali sindacati nazionali
francesi, primo nel settore privato e secondo nella funzione pubblica dietro
alla CGT, la Confédération générale du travail (ndr).
[3] L’autore si riferisce al piccolo
comune francese, situato nella valle della Mosa, nel quale il comitato locale
di gilets jaunes ha promosso e organizzato, tra il 26 e il 27
gennaio, una «Assemblea delle Assemblee» del movimento, che ha visto la
partecipazione di moltissimi delegati eletti con mandato imperativo da più di
settanta comitati locali, disseminati nell’insieme del territorio francese. Tra
i temi posti al centro della discussione sotto forma di domanda: quali
forme di azione per consolidare un rapporto di forza (con un accento
particolare posto sulle pratiche di blocco economico)? come organizzarsi
localmente al di là dei blocchi delle rotonde? Il movimento deve presentare
delle liste gilets jaunes alle prossime elezioni europee? Quale posizione avere
rispetto al Grand Débat National promosso da Macron? Come estendere la lotta
del movimento ad altri settori sociali? L’Assemblea delle Assemblee ha
respinto unanimamente sia l’ipotesi di candidarsi alle elezioni che quella di
partecipare al Grand Débat National di Macron, ed ha
rilanciato l’appello per la costruzione di una giornata di sciopero generale e
diffuso per il 5 febbraio. Il comunicato finale, insistendo sulle parole
d’ordine della «democrazia reale», della «giustizia sociale e fiscale», della
«giustizia ecologica e climatica», e della «lotta contro le discriminazioni»,
invita il movimento tutto ad organizzarsi in comitati di base nei territori,
nei luoghi di lavoro e di studio al fine di reinventare la democrazia diretta,
da un lato, e di estendere la pratica dello sciopero, dall’altro (ndr).
[4] L’autore fa riferimento al
dibattito apertosi negli ultimi dieci giorni in Francia, e promosso in
particolare dai media mainstream dell’esagono, a seguito
dell’annuncio di alcuni gilets jaunes di volersi presentare
alle prossime elezioni europee, con il simbolo del movimento. E’ da notare tra
primi i promotori della lista, poi ritiratosi per le proteste, figurava Marc
Doyer, che fino al dicembre 2018 militava nel partito di Macron, La
République en Marche. Nonostante la stragrande maggioranza del movimento,
sia nell’Assemblea delle Assemblee di Commercy che nei canali di comunicazione
indipendenti di cui il movimento si è dotato (si veda, per esempio, la pagina
Facebook della “France en Colère !!!” che vanta più di 300mila membri),
abbiano delegittimato questa operazione, definendola come antidemocratica,
artificiosa e strumentale, i media continuano a tessere le lodi di un possibile
sbocco elettorale del movimento (ndr)