EVENTI DI ‘ARTI VARIE’ O BENE COMUNE DELLA CIVILTÀ?
Era
L’estate del 2016 e il Museo Archeologico Regionale Antonino Salinas di Palermo
spalancava i battenti alla città e al
mondo, dopo cinque anni dalla chiusura per lavori di restauro e risistemazione
delle collezioni. Nel 2014 una mostra aveva reso omaggio all’illustre
archeologo a cui è intitolato l’Istituto, documentata dal volume “Del Museo di
Palermo e del suo avvenire”, titolo che ricalca quello dell’appassionato
discorso del Salinas, già professore
ordinario di archeologia dell’Università di Palermo, all’apertura dell’anno
accademico 1873, dopo aver ricevuto l’incarico di direttore del Museo di
Palermo. Francesca Spatafora, ideatrice dell’esposizione e direttrice del
Museo, nel suo contributo al catalogo, rileva
la modernità del pensiero di Salinas in merito alla gestione e alla
funzione del museo, riportando le parole dell’illustre archeologo là dove
questi rivendicava l’appartenenza pubblica del patrimonio culturale e la
specificità sociale dell’istituzione museale. Un sentire democratico già
riconosciuto all’emerito direttore del Museo Nazionale di Palermo da Vincenzo
Tusa, altro importante archeologo siciliano, che nel 1978 poneva l’accento
sulle finalità didattiche – specialistiche e sociali – del museo nel pensiero
di Salinas.
Ma
rileggiamo la celebre orazione del 1873, mettendo a fuoco alcuni illuminanti
passaggi del discorso del professore di archeologia e direttore del Museo di
Palermo, per capire se l’attualità più volte rilevata dai suoi successori –
archeologi e direttori – sia in sintonia con le scelte gestionali, funzionali e
politiche attuate oggi per il Museo Archeologico Regionale “Antonino Salinas”
di Palermo, già Museo Nazionale.
Sin
dalle prima battute, l’autore metteva in relazione le finalità culturali del
Museo con “il progresso della nazione e il bene pubblico”. Pensiero già in nuce
nel gesto dei primissimi benefattori – Giuseppe Emmanuele Ventimiglia, principe
di Belmonte e Carlo Cottone, principe di Castelnuovo – che a inizio
dell’Ottocento avevano donato alle pubbliche raccolte oggetti d’arte per
finalità didattiche, emulati in questa largizione – segnalava il Nostro – anche
da un tedesco il dotto marchese Giuseppe Haus, il quale “volle mostrare che in
opere di civiltà e di beneficienza, le anime gentili stimano dover tutte le
nazioni essere legate in un vincolo di vicendevole affetto”. Anticipando
idealmente – diremmo oggi – i moderni presupposti della cooperazione fra gli Stati,
finalizzata anche alla conservazione del patrimonio storico-artistico per la
trasmissione alle future generazioni.
Già
da tempo in alcune città d’Europa circolava l’idea secondo cui “le antiche
opere di arte potevano riuscire utili alla cultura universale” e, pertanto,
alcuni sovrani e principi decisero di mettere a disposizione degli studiosi,
anche in esposizioni aperte al pubblico, opere d’arte che in origine erano
state commissionate per il prestigio e “il trastullo” di pochi eletti.
Tuttavia, commentava lucidamente Salinas, “il tenere per liberalità regia
aperti al pubblico i tesori dell’arte” non era sufficiente ai progressi dello
studio.
Queste
le premesse, che portarono l’archeologo a considerare che solo una gestione
pubblica delle raccolte storico-artistiche in luoghi destinati allo scopo, i
musei, poteva garantire – da un lato – il migliore “godimento” del patrimonio
culturale a tutti i cittadini e – dall’altro – lo studio alla comunità di
ricercatori, i cui interessi, peraltro, superavano i limiti dell’Isola. “Non mi
sento far partigiano – dichiarava il nuovo direttore del Museo Nazionale e
della Pinacoteca di Palermo – di quanti credono che l’arte di Sicilia … sia
cosa … indigena, senza predominanze straniere. Ché anzi io vedo gli strettissimi
rapporti che ne’ tempi antichi legarono l’Isola a tutte le altre regioni del
Mediterraneo, e nelle opere del Medio-Evo, trovo numerosissimi i nomi di
artisti venuti dal continente italiano”. Una visione questa che anziché
focalizzare l’attenzione su elementi identitari della cultura isolana,
riconosceva lucidamente l’apporto di popoli diversi al “progresso” della
“civiltà” in Sicilia. Per questa ragione all’ideale purezza dell’arte
greco-romana, l’archeologo affiancava la conoscenza del Medioevo: “io non
comprendo – osservava Salinas avendo in mente i coevi studi internazionali sul
Medioevo e, per la Sicilia, l’opera di Michele Amari sugli Arabi – (come) non
si provi diletto vedendo quant(e) … civiltà operarono nelle nostre fabbriche
normanne, nella Cappella Palatina, nella Martorana, nel nostro Duomo”. E ancora
si chiedeva, per i secoli successivi, “come non trovar belli i nostri dipinti,
i nostri intagli, le nostre sculture, e tenere in dispregio” Antonello da
Messina e i Gagini ma anche Novelli e Serpotta
– precorrendo in questo modo la critica che solo qualche decennio dopo avrebbe
restituito piena dignità artistica al virtuoso stuccatore palermitano. D’altra
parte Salinas riteneva impossibile spiegare l’arte greca e romana senza
l’ausilio di opere fondamentali come la Venere di Milo, il Laocoonte, e i
famosi Marmi del Partenone “diretti dalla mano divina di Fidia”, da cui
bisognava necessariamente ricavare copie in gesso da esporre nei musei, “perché
la conoscenza de’ capolavori dell’arte è bisogno della generale cultura”,
reputando impensabile che in una città come Palermo (a quel tempo con 200.000
abitanti) “studenti e non studenti” non potessero ammirare, sebbene in
riproduzione, pietre miliari della scultura antica. Per questo indirizzo precipuamente
didattico del museo, Salinas considerava che le copie dovessero essere utili ad
integrare le opere originali per rendere comprensibile lo svolgimento
espositivo ideato per il Museo di Palermo, che doveva essere luogo destinato
alla cultura di cui tutti potessero godere “siccome di vera proprietà comune” e
“il solo posto conveniente a ben conservare le opere di arte e a studiarle in
tutti i giorni”. Un’istituzione principalmente formativa per l’intera
collettività, a vantaggio dei ricercatori e, soprattutto, d’ausilio ai giovani
studiosi universitari indirizzati, attraverso l’esempio fornito dal museo, a
diffondere e perpetrare la cultura della salvaguardia e della conservazione dei
monumenti della Sicilia, che rappresentavano, all’indomani dell’Unità d’Italia,
il decoro del Paese.
Nello
stesso 1873, ad avvalorare i propri propositi, Salinas donava una raccolta di
monete e anticaglie, che assommava a seimilaseicentoquarantuno pezzi, giacché,
una volta ottenuta la direzione del Museo di Palermo, non riteneva più
“conveniente” conservare una collezione privata in quanto “al disopra della
proprietà privata” – osservava l’intellettuale a tutto tondo – ci sta la proprietà della civiltà, quale bene
comune principe della società, auspicando così che altri fossero stimolati a
seguire il suo esempio. Ma la ragione
profonda del suo gesto risiedeva nel
desiderio che i giovani studiosi potessero avvantaggiarsi della raccolta sulla
quale egli stesso aveva formato il piacere coltivato sin dall’infanzia per
l‘archeologia e l’esercizio nello studio dei monumenti, sotto il vigile
insegnamento della madre Teresa Gargotta, donna dai molteplici interessi –
”esperta in cucire, ammirevole nei ricami, in quelli alla pittoresca singolare,
cogli aurei e cogli argentei fili dei propri disegni sollecita esecutrice” ma
anche naturalista e malacologa oltreché riconosciuta studiosa di numismatica –
la quale, incoraggiando la naturale predisposizione del figlio allo studio
delle antichità, gli aveva messo a disposizione “una buona quantità di monete
delle famiglie romane, sulle quali egli studiando, in bell’ordine le disponea,
e riduceale in classe”. Questa la prima fondamentale formazione del Salinas, la
lingua madre che parlò per tutta la vita e che lo indusse a restituire nel Museo
la “mirabile diversità, che la grande diversità di popoli antichi ha prodotto
ne’ varj paesi dell’Isola” in modo che non “vi sia arte o industria siciliana
della quale il Museo di Palermo non offra un’immagine”: dalla moneta al
merletto, dalla pittura vascolare greca alla ceramica islamica, dalla statuaria
in marmo all’arte plastica in terracotta.
Un
allestimento museale che all’indomani della seconda guerra mondiale venne
risistemato, alla luce dei nuovi indirizzi della museografia, da Jole Bovio
Marconi, in quel frangente direttrice del Museo Nazionale di Palermo, che
scelse di ridurre il numero delle opere esposte per evitare l’aspetto
antiquario e valorizzare meglio i singoli oggetti. Mentre una parte consistente
di collezioni di arte medievale e moderna fu incamerata dalla nascente Galleria Nazionale di Palazzo
Abatellis.
Ma
quella che è la sostanza scientifica posta a fondamento del pensiero del
Salinas (ovvero che ogni “oggetto da collocare in un Museo debba essere utile
ad insegnarci qualcosa”) viene messo in discussione oggi – nonostante i vertici
dell’Istituto che porta il suo nome dichiarino l’attualità di
quell’insegnamento di cui si proclamano eredi – dal momento in cui la politica
e la burocrazia che fanno capo all’Assessorato Beni Culturali e Identità
Siciliana, con il beneplacito dell’opinione pubblica e con il consenso tacito
di buona parte dell’associazionismo culturale, hanno deciso che il Museo
“Antonino Salinas” deve essere utilizzato anche come contenitore di eventi che
nulla hanno a che vedere con le finalità del museo e con la narrativa dei
reperti in esso custoditi e anche quando viene individuato un debole legame con
il luogo, risulta facilissimo cadere in quell’equivoco pericoloso per cui si
ritiene che i monumenti debbano “servire non ad argomento di studio, ma sì a
retorica declamazione delle nostre glorie passate”.
Un’altra
epoca e altre idee guidavano l’operato di Salinas quando dichiarava che “per
noi i musei servono non al vile guadagno, ma sì a cavarne utili insegnamenti e
nobili diletti”, mentre al contrario donne e uomini di oggi assistiamo
straniati all’avanzata dei mercanti dentro a quel tempio della storia e
dell’arte che è il Museo Archeologico Regionale di Palermo, il quale, per
inciso, al di là della retorica di cui è impregnata la comunicazione nei
social, risulta ancora non interamente fruibile – mancano all’appello due piani
e migliaia di oggetti: “ è evidente, o Signori, che i musei non abbiano a
servire di vana pompa, ma sì pubblica utilità” ! Così ammoniva Salinas nel
1873.
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