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francesca coin-
L’IMPATTO DELL’ACCADEMIA
NEOLIBERALE SULLA SOGGETTIVITÀ
-Negli ultimi anni, si è
assistito a un evidente incremento della “quit lit”, un nuovo genere di
letteratura fatto di rubriche ed editoriali che raccontano le ragioni per le
quali gli accademici – con o senza posto fisso – lasciano il mondo universitario.
Questo articolo esamina l’impatto dell’accademia neoliberale sulla
soggettività. Nell’università neoliberale, la soggettività è intrappolata in una rete di aspettative contrastanti: da un lato, ci si aspetta che si rispettino standard elevati di concorrenza, dall’altro, il corpo vive la competizione come una forma incentivata di abuso di sé.
In questo contesto, abbandonare l’accademia non significa semplicemente dimettersi da un incarico: è un sintomo dell’urgenza di creare uno spazio tra il discorso neoliberale e la percezione di sé, un atto di ribellione volto ad abdicare alla logica competitiva dell’accademia neoliberale e ad abbracciare valori e principî di altro tipo
Introduzione
Il
3 maggio 2013, Keguro Macharia ha scritto un pezzo per The New Inquiry intitolato “On quitting”. Era un pezzo
coraggioso e dolorosamente bello che partiva da una diagnosi: «disturbo
bipolare, un’oscillazione tra periodi di attività frenetica e periodi di
profonda depressione» (Macharia, 2013). Si tratta di una condizione
perfettamente compatibile con il calendario accademico – aggiungeva Macharia –
nel quale si alternano raffiche di produttività intellettuale, quasi indotte
farmacologicamente, e stati quasi catatonici di esaurimento e ritardi
prolungati.
«Trascorro
gloriose giornate estive a letto, incapace di muovermi, incapace di mettere
insieme l’energia per accendere il ventilatore, incapace di farmi una doccia,
incapace di pensare. Trovo conforto in romanzetti trash e libri per bambini. La
lettura tiene in piedi qualcosa, un debole tremolio di qualcosa. Può essere
molto peggio di quanto non confesserò mai. E poi peggio ancora.» (Macharia,
2013)
La
storia di Keguro Macharia è una storia di salute mentale e di produzione
accademica. La storia di un uomo nero negli Stati Uniti post-razziali che,
semplicemente, non è stato in grado di sopportare la violenza continua della
modernità occidentale. Un posto fisso e una posizione prestigiosa «danno
vantaggi immensi… Stare in un ente di ricerca offre privilegi e apre molte
porte: da qui, lo sguardo è sempre verso l’alto» (Macharia, 2013). Eppure, il
perseguimento dell’eccellenza trasuda tossicità e inquietudini.
Ho
letto varie volte l’articolo di Keguro Macharia. Era dolorosamente familiare.
Mi riportava in un territorio perturbante, attraente e repellente allo stesso
tempo, come un dolore che conoscevo fin troppo bene. Ho fatto il dottorato
negli Stati Uniti: sono arrivata nell’estate del 2001, poche settimane prima
del crollo delle Torri Gemelle e poche settimane dopo il G8 di Genova.
Nonostante il tremendo shock causato dall’Undici settembre alla psiche
collettiva, erano anni di conformismo accademico e di competizione. La
generazione Occupy doveva ancora nascere, le tasse elevate e il debito
studentesco venivano ancora dipinte come responsabilità individuali, i
dottorandi insegnavano a tempo pieno come una forza lavoro a buon mercato e
sottopagata e, soprattutto durante i primi anni della mia esperienza, i
fantasmi dell’Undici settembre perseguitavano ancora i pensieri notturni.
Nonostante i suoi contorni razziali, nella storia di Keguro Macharia c’erano
parole che mi rimescolavano l’anima. Mi ricordavano dinamiche di competizione e
coercizione che andavano oltre i confini razziali – gesti di violenza
interpersonale così violenti che il mio corpo rispondeva ai ricordi di quegli
anni con spasmi di ansia e repulsione.
Ho
amato le parole di Keguro Macharia per lungo tempo, la sua evocazione poetica
dei nostri segreti più oscuri e delle nostre fragilità più vergognose, eppure ci
sono voluti anni per capire perché mi sentivo così vulnerabile ed esposta
quando ero una dottoranda negli Stati Uniti. Tutto quello che potevo dire è che
la richiesta di efficienza e funzionalità aveva reso la mia vita disfunzionale. Per me, La virtù dell’egoismo (1999, Virtue
of selfishness 1964) di Ayn Rand e l’impossibilità di co-operare si erano
tradotte in un sensazione cronica di pericolo. Come affermano John T. Cacioppo
e William Patrick nel loro bellissimo libro Solitudine (2009, Loneliness 2008),
la concorrenza nuoce alla nostra capacità di relazionarci e fidarci gli uni
degli altri. Nel mio caso, tutto questo si traduceva in lunghi periodi di
silenzio durante i quali avevo solo paura; paura delle persone, paura del
giudizio, dell’ostilità e delle ritorsioni.
Mi tornava in mente un articolo di Tom Terez (2001) nel quale si
descrive un’azienda che fa ricerche di mercato dove la direzione ricorre
all’intimidazione e alla punizione per implementare l’efficienza. «“Avete visto
tutti quei ratti?”, aveva detto un dipendente guardando il programma televisivo
Fear factor, nel quale le persone venivano immobilizzate a turno in una fossa
con centinaia di topi. “È così che mi sento quando sono al lavoro”, aggiunge. “È così spaventoso”» (Terez, 2001).
Anche io mi sentivo così. Stare in quello spazio competitivo creava un senso di
tensione come se dei topi mi stessero strisciando addosso. Per diversi anni ho
sedato l’ansia nel cibo, con una sorta di bulimia seguita da momenti di
autocondanna. Appena ho finito il dottorato, ho lasciato gli Stati Uniti con un
biglietto di sola andata per Bangkok, dopo aver ridotto la mia vita a uno zaino
nel tempo di una settimana. Allo stesso modo, Keguro Macharia si è licenziato,
ha lasciato gli Stati Uniti ed è tornato in Kenya.
Alcuni
anni dopo mi sono resa conto che la faccenda non riguardava solo me e Keguro
Macharia. Decidere di andarsene era una tendenza diffusa nel mondo accademico e
riguardava tanto i docenti a contratto più sfruttati quanto coloro che avevano
un posto fisso. Di fatto, l’esaurimento e l’auto-abuso erano sintomi di un
conflitto molto più ampio di quanto potessi capire allora. La transizione dal
capitalismo industriale al capitalismo cognitivo aveva trasformato le
università nella nuova frontiera dell’accumulazione, il terreno di
alimentazione destinato a produrre capitale umano, valore e verità (Coin, 2014;
2017). In un contesto di crisi segnata dalla transizione al post-fordismo, le
università erano diventate la “gallina dalle uova d’oro” destinata a riportare
il tasso di profitto ai livelli di molti anni prima. Le università erano
gradualmente diventate imprese di mercato gestite secondo una governance
neoliberale, in base alle aspettative degli investitori e a una cultura
imprenditoriale. Il soggetto accademico era a un’impasse. Da un lato, si
trovava a essere “capitale fisso” responsabile della crescita economica e, allo
stesso tempo, non era altro che un bandolo di speranze e desideri che volevano
esprimersi. Nel mondo dell’accademia neoliberale, la soggettività era diventata
un campo di battaglia. Mentre il capitale usava la precarizzazione per
controllare la soggettività e succhiare innovazione come in una sorta di
crowdsourcing, il soggetto accademico continuava ad agognare uno spazio di
autodeterminazione, una ricerca che non accetta di essere messa da parte per
mere ragioni di riconoscimento sociale o sicurezza economica.
Questo
articolo analizza le ragioni di chi abbandona il mondo accademico, il crescente
disagio dei lavoratori cognitivi i cui valori etici, bisogni materiali e ideali
sociali sono sempre più in contrasto con l’imprenditore atomizzato
dell’università neoliberale. Negli ultimi anni, si è assistito a un apparente
incremento della “quit lit”, un nuovo genere di letteratura fatto di rubriche
ed editoriali che raccontano le ragioni per le quali gli accademici – con o
senza posto fisso – lasciano il mondo universitario. Queste rubriche
trasformano l’atto di lasciare l’accademia in un processo politico nel quale il
soggetto abbandona la sua logica competitiva per abbracciare una lealtà di
fondo a valori e principî diversi. Nel mondo accademico neoliberale, il
soggetto è chiamato ad abbracciare i valori imprenditoriali come propri. Negli
ultimi tempi, molti accademici hanno sentito un conflitto crescente tra la loro
etica e l’insieme di compiti costantemente misurati e burocratizzati che
riempiono la loro vita. Si tratta di un fenomeno ambivalente: da un lato,
descrive una scelta spesso operata in isolamento che segnala un senso di
impotenza di fronte alle crescenti richieste dell’accademia neoliberale; allo
stesso tempo, esprime il desiderio di ribellarsi ai suoi valori. In quanto
simbolo del rapporto difficile tra lavoro accademico e tensioni organizzative
della governance neoliberale, la scelta di andarsene può essere interpretata
come un segno di debolezza di fronte alle richieste invasive del mercato della
ricerca e insieme come un tentativo di interrompere il discorso neoliberale e
le sue strutture autoreferenziali. Margaret Thatcher diceva: «L’economia è il
metodo: l’obiettivo è cambiare l’anima». In questo contesto, “smettere” può
essere inteso come un atto spontaneo di disobbedienza: una decisione politica
volta a creare uno spazio per l’espressione di sè.
Questo
articolo inquadra la scelta di abbandonare l’accademia all’interno del
tentativo neoliberale di catturare il general intellect e usarlo come fonte di
innovazione. In questo contesto, l’articolo guarda al doppio legame che il
soggetto accademico si trova a fronteggiare. Espressione della necessità di
esprimere un altro sé, smettere può essere interpretato come l’ultima risorsa
per risolvere la lacerazione tra ciò che le persone sono chiamate a fare e ciò
che desiderano fare. Allo stesso tempo, è l’inizio di un discorso collettivo teso
a trasformare un conflitto interiore in un’alternativa politica.
per il testo integrale
si rimanda a Effimera.org
che ha pubblicato la versione italiana
tradotta dall’inglese (curata da Michela Pusterla e Franco Palazzi e rivista
dall’autrice) dell’articolo “On quitting. The labour of academia” di Francesca
Coin, originariamente apparso alcuni giorni fa su Ephemera –
Theory and Politics in Organization