venerdì 24 novembre 2017

abstract/ SMETTERE (ON QUITTING). INTRODUZIONE

- francesca coin-

L’IMPATTO DELL’ACCADEMIA NEOLIBERALE SULLA SOGGETTIVITÀ
-Negli ultimi anni, si è assistito a un evidente incremento della “quit lit”, un nuovo genere di letteratura fatto di rubriche ed editoriali che raccontano le ragioni per le quali gli accademici – con o senza posto fisso – lasciano il mondo universitario. Questo articolo esamina l’impatto dell’accademia neoliberale sulla soggettività.
Nell’università  neoliberale, la soggettività è intrappolata in una rete di aspettative contrastanti: da un lato, ci si aspetta che si rispettino standard elevati di concorrenza, dall’altro, il corpo vive la competizione come una forma incentivata di abuso di sé.
In questo contesto, abbandonare l’accademia non significa semplicemente dimettersi da un incarico: è un sintomo dell’urgenza di creare uno spazio tra il discorso neoliberale e la percezione di sé, un atto di ribellione volto ad abdicare alla logica competitiva dell’accademia neoliberale e ad abbracciare valori e principî di altro tipo


Introduzione

Il 3 maggio 2013, Keguro Macharia ha scritto un pezzo per The New Inquiry  intitolato “On quitting”. Era un pezzo coraggioso e dolorosamente bello che partiva da una diagnosi: «disturbo bipolare, un’oscillazione tra periodi di attività frenetica e periodi di profonda depressione» (Macharia, 2013). Si tratta di una condizione perfettamente compatibile con il calendario accademico – aggiungeva Macharia – nel quale si alternano raffiche di produttività intellettuale, quasi indotte farmacologicamente, e stati quasi catatonici di esaurimento e ritardi prolungati.
«Trascorro gloriose giornate estive a letto, incapace di muovermi, incapace di mettere insieme l’energia per accendere il ventilatore, incapace di farmi una doccia, incapace di pensare. Trovo conforto in romanzetti trash e libri per bambini. La lettura tiene in piedi qualcosa, un debole tremolio di qualcosa. Può essere molto peggio di quanto non confesserò mai. E poi peggio ancora.» (Macharia, 2013)
La storia di Keguro Macharia è una storia di salute mentale e di produzione accademica. La storia di un uomo nero negli Stati Uniti post-razziali che, semplicemente, non è stato in grado di sopportare la violenza continua della modernità occidentale. Un posto fisso e una posizione prestigiosa «danno vantaggi immensi… Stare in un ente di ricerca offre privilegi e apre molte porte: da qui, lo sguardo è sempre verso l’alto» (Macharia, 2013). Eppure, il perseguimento dell’eccellenza trasuda tossicità e inquietudini.
Ho letto varie volte l’articolo di Keguro Macharia. Era dolorosamente familiare. Mi riportava in un territorio perturbante, attraente e repellente allo stesso tempo, come un dolore che conoscevo fin troppo bene. Ho fatto il dottorato negli Stati Uniti: sono arrivata nell’estate del 2001, poche settimane prima del crollo delle Torri Gemelle e poche settimane dopo il G8 di Genova. Nonostante il tremendo shock causato dall’Undici settembre alla psiche collettiva, erano anni di conformismo accademico e di competizione. La generazione Occupy doveva ancora nascere, le tasse elevate e il debito studentesco venivano ancora dipinte come responsabilità individuali, i dottorandi insegnavano a tempo pieno come una forza lavoro a buon mercato e sottopagata e, soprattutto durante i primi anni della mia esperienza, i fantasmi dell’Undici settembre perseguitavano ancora i pensieri notturni. Nonostante i suoi contorni razziali, nella storia di Keguro Macharia c’erano parole che mi rimescolavano l’anima. Mi ricordavano dinamiche di competizione e coercizione che andavano oltre i confini razziali – gesti di violenza interpersonale così violenti che il mio corpo rispondeva ai ricordi di quegli anni con spasmi di ansia e repulsione.
Ho amato le parole di Keguro Macharia per lungo tempo, la sua evocazione poetica dei nostri segreti più oscuri e delle nostre fragilità più vergognose, eppure ci sono voluti anni per capire perché mi sentivo così vulnerabile ed esposta quando ero una dottoranda negli Stati Uniti. Tutto quello che potevo dire è che la richiesta di efficienza e funzionalità aveva reso la mia vita disfunzionale.  Per me, La virtù dell’egoismo (1999, Virtue of selfishness 1964) di Ayn Rand e l’impossibilità di co-operare si erano tradotte in un sensazione cronica di pericolo. Come affermano John T. Cacioppo e William Patrick nel loro bellissimo libro Solitudine (2009, Loneliness 2008), la concorrenza nuoce alla nostra capacità di relazionarci e fidarci gli uni degli altri. Nel mio caso, tutto questo si traduceva in lunghi periodi di silenzio durante i quali avevo solo paura; paura delle persone, paura del giudizio, dell’ostilità e delle ritorsioni.  Mi tornava in mente un articolo di Tom Terez (2001) nel quale si descrive un’azienda che fa ricerche di mercato dove la direzione ricorre all’intimidazione e alla punizione per implementare l’efficienza. «“Avete visto tutti quei ratti?”, aveva detto un dipendente guardando il programma televisivo Fear factor, nel quale le persone venivano immobilizzate a turno in una fossa con centinaia di topi. “È così che mi sento quando sono al lavoro”,  aggiunge. “È così spaventoso”» (Terez, 2001). Anche io mi sentivo così. Stare in quello spazio competitivo creava un senso di tensione come se dei topi mi stessero strisciando addosso. Per diversi anni ho sedato l’ansia nel cibo, con una sorta di bulimia seguita da momenti di autocondanna. Appena ho finito il dottorato, ho lasciato gli Stati Uniti con un biglietto di sola andata per Bangkok, dopo aver ridotto la mia vita a uno zaino nel tempo di una settimana. Allo stesso modo, Keguro Macharia si è licenziato, ha lasciato gli Stati Uniti ed è tornato in Kenya.
Alcuni anni dopo mi sono resa conto che la faccenda non riguardava solo me e Keguro Macharia. Decidere di andarsene era una tendenza diffusa nel mondo accademico e riguardava tanto i docenti a contratto più sfruttati quanto coloro che avevano un posto fisso. Di fatto, l’esaurimento e l’auto-abuso erano sintomi di un conflitto molto più ampio di quanto potessi capire allora. La transizione dal capitalismo industriale al capitalismo cognitivo aveva trasformato le università nella nuova frontiera dell’accumulazione, il terreno di alimentazione destinato a produrre capitale umano, valore e verità (Coin, 2014; 2017). In un contesto di crisi segnata dalla transizione al post-fordismo, le università erano diventate la “gallina dalle uova d’oro” destinata a riportare il tasso di profitto ai livelli di molti anni prima. Le università erano gradualmente diventate imprese di mercato gestite secondo una governance neoliberale, in base alle aspettative degli investitori e a una cultura imprenditoriale. Il soggetto accademico era a un’impasse. Da un lato, si trovava a essere “capitale fisso” responsabile della crescita economica e, allo stesso tempo, non era altro che un bandolo di speranze e desideri che volevano esprimersi. Nel mondo dell’accademia neoliberale, la soggettività era diventata un campo di battaglia. Mentre il capitale usava la precarizzazione per controllare la soggettività e succhiare innovazione come in una sorta di crowdsourcing, il soggetto accademico continuava ad agognare uno spazio di autodeterminazione, una ricerca che non accetta di essere messa da parte per mere ragioni di riconoscimento sociale o sicurezza economica.
Questo articolo analizza le ragioni di chi abbandona il mondo accademico, il crescente disagio dei lavoratori cognitivi i cui valori etici, bisogni materiali e ideali sociali sono sempre più in contrasto con l’imprenditore atomizzato dell’università neoliberale. Negli ultimi anni, si è assistito a un apparente incremento della “quit lit”, un nuovo genere di letteratura fatto di rubriche ed editoriali che raccontano le ragioni per le quali gli accademici – con o senza posto fisso – lasciano il mondo universitario. Queste rubriche trasformano l’atto di lasciare l’accademia in un processo politico nel quale il soggetto abbandona la sua logica competitiva per abbracciare una lealtà di fondo a valori e principî diversi. Nel mondo accademico neoliberale, il soggetto è chiamato ad abbracciare i valori imprenditoriali come propri. Negli ultimi tempi, molti accademici hanno sentito un conflitto crescente tra la loro etica e l’insieme di compiti costantemente misurati e burocratizzati che riempiono la loro vita. Si tratta di un fenomeno ambivalente: da un lato, descrive una scelta spesso operata in isolamento che segnala un senso di impotenza di fronte alle crescenti richieste dell’accademia neoliberale; allo stesso tempo, esprime il desiderio di ribellarsi ai suoi valori. In quanto simbolo del rapporto difficile tra lavoro accademico e tensioni organizzative della governance neoliberale, la scelta di andarsene può essere interpretata come un segno di debolezza di fronte alle richieste invasive del mercato della ricerca e insieme come un tentativo di interrompere il discorso neoliberale e le sue strutture autoreferenziali. Margaret Thatcher diceva: «L’economia è il metodo: l’obiettivo è cambiare l’anima». In questo contesto, “smettere” può essere inteso come un atto spontaneo di disobbedienza: una decisione politica volta a creare uno spazio per l’espressione di sè.
Questo articolo inquadra la scelta di abbandonare l’accademia all’interno del tentativo neoliberale di catturare il general intellect e usarlo come fonte di innovazione. In questo contesto, l’articolo guarda al doppio legame che il soggetto accademico si trova a fronteggiare. Espressione della necessità di esprimere un altro sé, smettere può essere interpretato come l’ultima risorsa per risolvere la lacerazione tra ciò che le persone sono chiamate a fare e ciò che desiderano fare. Allo stesso tempo, è l’inizio di un discorso collettivo teso a trasformare un conflitto interiore in un’alternativa politica.

per il testo integrale si rimanda a Effimera.org  che ha pubblicato la versione italiana tradotta dall’inglese (curata da Michela Pusterla e Franco Palazzi e rivista dall’autrice) dell’articolo “On quitting. The labour of academia” di Francesca Coin, originariamente apparso alcuni giorni fa su Ephemera – Theory and Politics in Organization