-giacomo pisani-
OLTRE IL MITO DELLA PIENA (E PRECARIA) OCCUPAZIONE
/reddito
di base incondizionato per liberarci dal ricatto della sopravvivenza
/mettere
in discussione i fondamentali e l'assolutezza del mercato
È
la risposta ad un mantra che sentiamo continuamente: l’occupazione deve
aumentare. Non importa come sia il lavoro, quello che conta è il numero degli
occupati. A ben guardare si tratta di un imperativo che continua a fare
proseliti anche al di là della narrazione renziana, e che coinvolge oggi buona
parte dei costituendi soggetti di sinistra.
Nessuno mette in discussione il dogma per cui obiettivo dello stato deve essere quello di raggiungere la piena occupazione. Non c’è alternativa che tenga, la dialettica politica non può che svilupparsi entro il perimetro segnato dalla preminenza del lavoro e dello stato.
Nessuno mette in discussione il dogma per cui obiettivo dello stato deve essere quello di raggiungere la piena occupazione. Non c’è alternativa che tenga, la dialettica politica non può che svilupparsi entro il perimetro segnato dalla preminenza del lavoro e dello stato.
Ma
il lavoro non è una categoria dello spirito. Ci hanno provato in tanti a
tenerlo ben fermo nel mondo delle idee, a metterlo in una teca come “valore
supremo”, troppo alto per legarlo alla materialità della vita, alla bassa
fenomenologia della corsa alla sopravvivenza e dello sfruttamento: sporchi
accidenti, che non scalfiscono neanche minimamente l’essenza del lavoro.
Eppure il novecento ha segnato proprio l’emersione di questo mondo di magma e sangue, ha immerso il lavoro nella materia, grazie alle lotte dei soggetti collettivi nati nei luoghi nella produzione. La modernità aveva rappresentato il lavoratore come persona giuridica libera ed eguale, ma presto era venuto fuori l’inganno: quella separazione fra proprietari e nullatenenti che costringeva i secondi a vendere l’unica merce in proprio possesso, la forza-lavoro. Liberi sì, ma senza null’altro da scambiare per poter sopravvivere.
Eppure il novecento ha segnato proprio l’emersione di questo mondo di magma e sangue, ha immerso il lavoro nella materia, grazie alle lotte dei soggetti collettivi nati nei luoghi nella produzione. La modernità aveva rappresentato il lavoratore come persona giuridica libera ed eguale, ma presto era venuto fuori l’inganno: quella separazione fra proprietari e nullatenenti che costringeva i secondi a vendere l’unica merce in proprio possesso, la forza-lavoro. Liberi sì, ma senza null’altro da scambiare per poter sopravvivere.
Nel
novecento qualcosa è cambiato. La conflittualità operaia ha smascherato
l’astrazione del diritto, e al di sotto della personalità giuridica libera ed
eguale ha fatto emergere quel terreno di alienazione e sfruttamento su cui
poggia l’accumulazione capitalista. Il diritto del lavoro e i diritti sociali
sono stati il risultato delle lotte novecentesche, che hanno ricondotto il
diritto alla vita incarnata ottenendo una sorta di “proprietà sociale” a
protezione del lavoratore.
Oggi
quel quadro è completamente mutato. Non solo sono cambiati i modi dello
sfruttamento, nell’ambito di un’attivazione auto-imprenditoriale sempre più
esigente e pervasiva, ma la produzione si estende sempre più a spazi di
relazione in cui i processi di soggettivazione eccedono l’obiettivo della
remunerazione (social network, piattaforme e comunità virtuali etc.). Il
rapporto salariale, allora, si dimostra sempre più insufficiente come
dispositivo di abilitazione dei soggetti non proprietari. Il tutto in un
contesto in cui lo stato è sempre meno in grado di porsi a regolazione del
mercato, il cui terreno di dispiegamento ha carattere trans-nazionale. In
questo quadro, l’obiettivo dell’aumento dell’occupazione non può che essere
raggiunto a prezzo di una sua ulteriore degradazione. E il cerchio è chiuso.
Sono
almeno due le strade che ci si aprono davanti. Una è quella di continuare ad
invocare la piena occupazione. In questa narrazione, che pure è in voga a
sinistra, lo stato riacquisterebbe come d’incanto quel potere di pianificazione
che nemmeno nell’aureo dopoguerra era stato così efficiente, e prenderebbe a
determinare lavori, posti, mansioni, obiettivi a cui tendere collettivamente
nel futuro. Si sa, ordine e disciplina hanno da sempre il loro fascino, e non è
mai stato facile pensare il potere al di fuori di quella piramide perfetta in
cui consisteva il Leviatano hobbesiano.
Ma
c’è un’altra possibilità un po’ più ardita, che all’unità oppone la
molteplicità, che sfida la decisione del sovrano con quella dei soggetti che si
autodeterminano. Perché il potere nelle mani di pochi, anche quando
“illuminato”, ha sempre il sapore di un inganno, e non c’è rivoluzione senza
che i soggetti rompano i rapporti di dominazione e auto-organizzino la propria
vita in comune.
In
questa seconda direzione il campo è meno esplorato. Di certo non ci sono
valori, categorie astratte, idoli e feticci che tengono: è necessario
cominciare col dire chiaramente che il lavoro è oggi rapporto di sfruttamento,
ricatto ed esclusione. Immaginare un progetto politico a partire dal lavoro
significa ignorarne le determinazioni concrete. Bisognerebbe cominciare a
pensare, piuttosto, a come liberare i soggetti dal lavoro, che significa
innanzitutto opporsi all’esclusione determinata da un welfare che ha come
soggetto di riferimento il lavoratore salariato. Sarebbe più interessante e
proficuo cominciare a ragionare, a sinistra, su come aprire gli spazi della
decisione collettiva e della partecipazione, su come innescare quel processo di
rottura e di autodeterminazione di cui dicevamo, oltre il ricatto della
sopravvivenza entro un mercato sempre più pervasivo.
In
questo senso, fondamentale è la rivendicazione di un reddito incondizionato,
che liberi i soggetti dal ricatto della sopravvivenza, mettendo in discussione
l’assolutezza del mercato. Esso costituisce la condizione imprescindibile per
dare spazio a quelle esperienze che oggi, nelle contraddizioni del mercato,
costruiscono orizzonti di resistenza: dal neomunicipalismo delle città ribelli
al movimento femminista, dal sindacalismo dal basso alle nuove forme di
solidarietà, cooperazione e mutualismo.
Queste
ultime sono oggi canalizzate dall’ordine neoliberale entro la valorizzazione
imprenditoriale, che fa dell’innovazione sociale un fattore produttivo per i
privati. Su questo terreno, un reddito di esistenza certamente non basta: è
necessario un immaginario istituente che strappi la cooperazione al potere dei
privati e riconosca ai soggetti la possibilità di auto-gestirsi secondo i
principi dell’equità e della solidarietà, generando beni comuni.
Insomma,
più che rievocare il fantasma del lavoro, è necessario pensare a come costruire
un orizzonte nuovo oltre il peso dei fantasmi. Ciò non nega affatto
l’importanza delle battaglie per i diritti dei lavoratori salariati, ma implica
un allargamento dello sguardo a tutto ciò che c’è fuori. Perché fuori alle
porte del lavoro salariato, oltre il perimetro della cittadella assediata,
all’ombra dello stato sociale novecentesco, c’è un mondo che bussa forte, con
soggetti che provano a resistere e a realizzare sogni e desideri. Chi vuole può
continuare a chiamare quest’auto-realizzazione “lavoro”, vista l’affinità
elettiva, ma che sia un lavoro senza padroni. Di fronte a questo nuovo mondo è
necessaria una politica che guardi oltre lo stato-nazione, che si batta per
costruire un altro orizzonte, fatto di dignità, diritti e democrazia.
Euronomade