-andrea baranes-
FISCAL COMPACT: RATIFICA DEL TRATTATO SULLA STABILITÀ
Nessuno ne parla ma qualsiasi futura maggioranza parlamentare e
qualsiasi governo dovesse insediarsi all’indomani del voto rischia di essere,
se non commissariato, per lo meno fortemente limitato nelle proprie scelte
Alzi
la mano chi nelle ultime settimane ha visto anche solo un trafiletto o un
qualche servizio televisivo menzionare il Fiscal Compact. In un clima già da
campagna elettorale inoltrata, non passa giorno senza leggere di alleanze che
si creano e si disfano, di questo o quell’esponente politico che passa da uno
schieramento all’altro, di sondaggi e intenzioni di voto. Questo per non
parlare delle infinite discussioni intorno alla possibile legge elettorale con
la quale dovremmo andare a votare il prossimo anno.
Peccato
che qualsiasi futura maggioranza parlamentare e qualsiasi governo dovesse
insediarsi all’indomani del voto rischia di essere, se non commissariato, per
lo meno fortemente limitato nelle proprie scelte. Se lo scopo principale di un
governo è infatti quello di gestire e indirizzare le risorse disponibili per
attuare determinate politiche, il futuro sembra verrà deciso altrove.
Entro
la fine dell’anno, il Parlamento dovrà ratificare il Trattato sulla stabilità,
coordinamento e governance nell’unione economica e monetaria, meglio noto come
Fiscal Compact. Tra le diverse disposizioni, questo trattato prevede l’obbligo
di riportare entro 20 anni il rapporto tra debito pubblico e PIL alla fatidica
soglia del 60%, uno dei parametri degli accordi siglati a Maastricht all’inizio
degli anni ’90. Parametri fortemente criticati per la loro arbitrarietà, a
maggior ragione perché da applicarsi indistintamente, senza considerare le
specificità di un Paese, la fase economica o la situazione sociale e
occupazionale.
L’Italia
ha oggi un rapporto tra debito e PIL superiore al 130%. Sarebbe lungo il
discorso su come si è arrivati a tale percentuale. Basti ricordare che da oltre
il 120% della metà degli anni ’90, si è scesi al 103% nel 2008, per poi
registrare un esplosione che è seguita, in Italia come nella maggior parte
delle economie occidentali, allo scoppio della bolla dei mutui subprime.
In altre parole una crisi della finanza privata il cui conto è stato scaricato
su quella pubblica. Al culmine del paradosso, la prima è ripartita a pieno
ritmo, inondata di soldi tramite quantitative easing e altre politiche
monetarie, mentre alle finanze pubbliche vengono imposti tagli e controlli
durissimi. Ancora peggio, con un ribaltamento dell’immaginario collettivo le
responsabilità delle attuali difficoltà vengono addossate ai debiti pubblici.
Tale
ribaltamento di cause e conseguenze della crisi è la giustificazione per volere
introdurre un trattato con forza superiore alle legislazioni nazionali che ci
imporrà di scendere dal 130% al 60% in venti anni. Secondo i suoi difensori, il
Fiscal Compact più o meno “si pagherà da solo”. Crescita dell’economia e
inflazione dovrebbero garantire un aumento del PIL che porterebbe a ridursi il
rapporto debito/PIL. “Basterebbe” quindi un avanzo di bilancio non troppo
gravoso per rispettare i dettami del Fiscal Compact.
Dovremmo
quindi imporci di rinunciare a qualsiasi margine di manovra dei prossimi
governi per realizzare avanzi primari, ovvero sempre più tasse e sempre meno
servizi erogati. Questo nella migliore delle ipotesi. Non è chiaro chi abbia la
sfera di cristallo per potere prevedere crescita dell’economia e inflazione su
un periodo di venti anni. I risultati del recente passato – per non parlare di
possibili nuove crisi in un mondo sempre più dominato dalla finanza speculativa
– non invitano certo all’ottimismo. In caso di una nuova, probabile, flessione
dell’economia, rispettare il Fiscal Compact significherebbe un disastro sociale
ed economico.
Quello
che però colpisce di più è l’affermazione definitiva della tecnocrazia sulla
democrazia. Qualsiasi futuro governo dovrà operare entro margini strettissimi e
imposti da una visione dell’economia come una scienza esatta, guidata da regole
matematiche dove il benessere dei cittadini o l’ambiente diventano le variabili
su cui giocare, mentre i parametri macroeconomici sono immutabili.
Indipendentemente da cosa ci riserva il futuro, il debito va ridotto a marce
forzate e questo va garantito a ogni costo. Che il costo sia disoccupazione,
perdita di diritti, impossibilità di investire per una trasformazione ecologica
dell’economia, non è un problema, non può essere nemmeno materia di
discussione.
Attac
Italia ha provato a rompere il silenzio lanciando una campagna di informazione
e una petizione da firmare on-line. Perché è a dire poco incredibile assistere
al livello di un dibattito concentrato sulle presunte responsabilità dei
migranti, mentre in un Paese con 4,8 milioni di persone in povertà assoluta
stiamo affermando che ci imponiamo vent’anni di alta pressione fiscale e tagli
alla spesa pubblica e ai diritti fondamentali. Il problema non è e non può
essere “prima gli italiani”. Il problema è se sia possibile sancire che la vita
delle persone – di tutti noi – sia sacrificabile nel nome di una percentuale
decisa decenni fa da qualche burocrate.
Andrea
Baranes è Presidente della Fondazione Culturale Responsabilità Etica, della
rete di Banca Etica e uno dei due portavoce della coalizione Sbilanciamoci! (www.sbilanciamoci.org). Ultimi libri
pubblicati: “Dobbiamo restituire fiducia ai mercati – Falso!” (Laterza) e
“Finanza per Indignati” (Ponte Alle Grazie)
Per
informazioni e per firmare la petizione: http://www.stopfiscalcompact.it