-BENEDETTO VECCHI-
Il sociale della modernità liquida è aperto a un esito di liberazione e
di libertà ma anche di oppressione e di conferma a una condizione di
subalternità/ Retrotopia
è una utopia rovesciata dove è il passato che scandisce il mondo perfetto/ Il
passato invocato con nostalgia nella contemporaneità è tuttavia un tempo
immaginato, che non è mai esistito/ Un testo, c’è da sperare, che possa aiutare a ricostruire un percorso
teorico mai lineare, sempre contraddittorio, mai messianico, da sottoporre
costantemente a critica
Non
è dato sapere se Zygmunt Bauman volesse correggere, modificare il manoscritto
pubblicato con il titolo Retrotopia dall’inglese Polity Press, in Italia, da
Laterza, la casa editrice che ha curato e tradotto gran parte della sua
prolifica produzione teorica (pp. 181, euro 15).
È
però un testo che può essere letto come un «testamento» del sociologo polacco e
in cui è evidente un cambiamento radicale nel disegno del mosaico sulla società
contemporanea, costruito in oltre trentanni. Alla fine degli anni Ottanta del
Novecento, lo studioso ha voluto chiamare tale occorrenza «modernità liquida».
Per Bauman, è noto, sono evaporate come neve al sole le solide istituzioni del vivere in società emerse in secoli di conflitti sociali, guerre tra stati, ambiziosi progetti di plasmare l’«uomo nuovo» facendo leva sullo stato nazionale.
Per Bauman, è noto, sono evaporate come neve al sole le solide istituzioni del vivere in società emerse in secoli di conflitti sociali, guerre tra stati, ambiziosi progetti di plasmare l’«uomo nuovo» facendo leva sullo stato nazionale.
Dissolte
certo, tuttavia per essere sostituite da un flusso più o meno tumultuoso di
soggettivià, stili di vita, consuetudini. Un fiume che può essere certo
incanalato – questo compito Bauman lo assegna al consumo – senza mai dare vita
a istituzioni stabili nel tempo e nello spazio. Tutto è cioè transitorio e,
come dettagliava, ambivalente. Il sociale della modernità liquida è cioè aperto
a un esito di liberazione e di libertà, ma anche di oppressione e di conferma a
una condizione di subalternità.
La
potenza performativa di questo incessante flusso di stili di vita, modi
d’essere si manifesta proprio grazie a questo carattere di equivocità. Al tema
dell’ambivalenza Bauman ha dedicato proprio uno dei suoi libri teoricamente più
impegnativi e rilevanti (Modernità e ambivalenza, Bollati Boringhieri) nel quale
partiva dalla convinzione che da sempre i fenomeni sociali possiedono questa
cifra di duplicità, doppiezza e che storicamente era stato compito della
Politica, e della sua forma più cogente di sodalizio con il potere, lo Stato
nazione, sciogliere il nodo, dare forma a un progetto per costruire la «buona
società».
Piuttosto
conosciuta è l’immagine del giardiniere usata da Bauman per esemplificare il
ruolo svolto dallo Stato nella modernità «solida». Ma tale possibilità di
immaginare e operare per il buon vivere è venuta meno con la globalizzazione
economica, che ha esautorato la politica e lo stato-nazione dal loro storico
ruolo di protagonisti della trasformazione. Rimane dunque solo il flusso di
desideri, sentimenti nella loro ambivalenza, che tale deve rimanere altrimenti
viene meno quella spinta al consumo compulsivo che rende possibile la
riproduzione dell’economia di mercato, la costante imprescindibile affinché la
globalizzazione continui la sua corsa verso la fine della storia.
In Retrotopia,
tuttavia, Bauman avverte che qualcuno ha sciolto il nodo dell’ambivalenza e ciò
che era liquido comincia a manifestare inequivocabili segni di solidificazione
in nuove istituzioni, in nuove forme di vita elette a dispositivi normativi,
dunque giuridici e politici. Di fronte al caos programmatico della
globalizzazione, assistiamo cioè all’invocazione di un ritorno al passato.
Parafrasando Walter Benjamin, L’Angelus Novus della Storia non guarda al
passato mentre è spinto verso il futuro, bensì guarda al passato come una
condizione verso la quale tendere, muoversi, perché garantisce la possibilità
di reinventarlo, modificarlo, renderlo appetibile: in altre parole, il ritorno
al passato coincide con la possibilità di un buon vivere negato da una
globalizzazione che non ammette alternative.
Retrotopia è quindi una utopia rovesciata dove è il passato che scandisce il mondo perfetto. Nella realtà contemporanea non può esserci spazio per l’utopia; sorte migliore non capita neppure al suo fratello minore, il progresso, che è segregato dalla globalizzazione nel regno dell’impossibile.
Retrotopia è quindi una utopia rovesciata dove è il passato che scandisce il mondo perfetto. Nella realtà contemporanea non può esserci spazio per l’utopia; sorte migliore non capita neppure al suo fratello minore, il progresso, che è segregato dalla globalizzazione nel regno dell’impossibile.
Il
passato invocato con nostalgia nella contemporaneità è tuttavia un tempo
immaginato, che non è cioè mai esistito e coincide, per Bauman, con un ritorno
a Thomas Hobbes. Ma all’orizzonte non c’è un Leviatano che imporrà un ordine e
una sicurezza agli appartenenti di una nazione. Quello che accade è infatti la
proliferazione di microentità statali incardinate su un tribalismo dove le
appartenenze sono cangianti, mutevoli, effimere. L’individualismo imperante
impedisce infatti la crescita di identità collettive per lasciare spazio a
identità personali costruite come un patchwork disordinato e contraddittorio. È
un tribalismo che non si fonda però sul binomio «suolo e sangue». Ne parla
spesso il linguaggio, ma si manifesta con forza laddove fornisce a un
«pubblico» accomunato solo da precarietà esistenziale e lavorativa, frammenti
di quel passato immaginato e verso il quale folle di uomini e donne
insoddisfatte, risentite, rancorose e infelici vogliono tendere.
Dunque,
più che un ritorno a Hobbes, il mondo disegnato da Bauman ricorda le società
medievali europee che non gli albori della modernità capitalistica. Quello
presentato in questo libro è però un medioevo digitale – frequenti sono i
riferimenti alla critica di Umberto Eco alla comunicazione on line. La
Retrotopia costituisce allora la soluzione all’ambivalenza della «modernità
liquida» e del suo imprescindibile individualismo radicale.
Il
punto di sutura tra tribalismo e individualismo è dato da quella filosofia
manageriale che postula l’imperativo a una privatizzazione radicale del welfare
state e dell’attivazione del singolo a «produrre innovazione». Le tribù si
costituiscono dunque nella contingente distinzione tra un noi e un loro
definiti a partire da identità posticce e destinate ad essere sostituite in un
processo vorticoso da altrettante identità farlocche.
Un
libro amato, disincantato, ma che ha l’indubbio merito di sgomberare il campo
da un equivoco che ha tuttavia rappresentato la fortuna editoriale di Bauman –
spesso usato come un pensatore da citare nei salotti à la page quando la
conversazione langue o come carburante per alimentare i flame e le turbolente
conversazioni da social network. Un testo, c’è da sperare, che possa aiutare a
ricostruire un percorso teorico mai lineare, sempre contraddittorio, mai
messianico, da sottoporre costantemente a critica.
Il
merito della sua opera è di aver messo a tema la crisi della scienze sociali e
l’intera costellazione politica del capitalismo emersa dalle ceneri della
seconda guerra mondiale, prospettando tuttavia la necessità di una politica
democratica e riformista che facesse tesoro, questa la convinzione di Bauman,
della più grande invenzione politica del Novecento, il welfare state. Già,
perché Bauman ha scritto molto ed affermato tante cose ma una cosa non può
certo essergli rimproverata: essere stato un opinion maker buono per tutte le
stagioni.