-E. LEONARDI E A. BARBERO-
Al fine di
precisare di non essere all’anno zero della critica tematica sviluppata, gli
autori si richiamano giustamente ad Andrè Gorz, non solo per ricordarne
il decennale della morte, ma per agganciarne il pensiero.
Fra i maggiori
critici del capitalismo postfordista, il grande teorico francese sin dal 1977 aveva
dimostrato -col saggio “Ecologia e libertà”- «come l’eco-socialismo avesse
bisogno simultaneamente di una re-invenzione radicale del lavoro, di una
ri-localizzazione della produzione e di una ri-appropriazione autonoma della
tecnologia»
Che si propenda per
Antropocene, Capitalocene oppure per un’altra soluzione terminologica, ci pare
comunque fuor di dubbio che lo stato di salute del pianeta non sia dei migliori
e che l’esigenza di affrontare il degrado ecologico non possa essere
ulteriormente rimandata. Scrive Agnès Sinaï al proposito:
L’Antropocene, in
quanto periodo caratterizzato da un dispendio energetico senza precedenti, sarà
solamente una tappa che andrà ben presto declinata al futuro anteriore. Il
grande fallimento è cominciato e il suo emblema è Fukushima. La domanda che
rimane è quella della sua eredità: fino a che punto le società umane saranno in
grado di dispiegare strategie di resilienza di fronte alle tre grandi eredità
dell’Antropocene: cambiamento climatico, radioattività diffusa,
artificializzazione del mondo? (Sinaï 2016: 208).
Di fronte a queste
sfide non è raro imbattersi in reazioni teconocratiche, convinte
della funzione salvifica dei mercati e/o delle innovazioni, depresse,
generalmente ispirate alla Gelassenheit heideggeriana,
oppure apocalittiche, versioni più o meno raffinate del vecchio
adagio “si salvi chi può”. Benissimo ha fatto, dunque, Mariaenrica Giannuzzi a
raggruppare alcune filosofie non tristi del cambiamento climatico,
cioè tentativi di sganciare l’Antropocene dalla sua aura di necessità naturale
per riportarlo nell’alveo delle scelte politiche…
[…] Un buon modo per pensare la specificità
del lavoro nel presente antropocenico è domandarsi come vediamo
la nuova era geologica, cioè da quale regime di visibilità sia governata: su
cosa si basa l’insieme delle norme che regolano la rappresentazione degli iper-oggetti?
A noi pare ragionevole ipotizzare che sia il General Intellect (Marx
2012), divenuto astrazione reale del lavoro e principio organizzativo della
produzione contemporanea (Vercellone 2006), a porre le condizioni di
possibilità per vedere il cambiamento climatico. In altre
parole, il regime di visibilità che ci consente di realizzare che abitiamo l’Antropocene
s’innesta sul capitalismo cognitivo, cioè sullo sfruttamento generalizzato del
lavoro-conoscenza. Questo è il sintomo. Ed è particolarmente grave
perché a dispetto delle potenzialità esso non riduce per nulla gli impatti
ambientali: come sostiene Carlo Vercellone, “[l]ungi dall’emanciparsi dalla
logica produttivista del capitalismo industriale, il capitalismo cognitivo la
sussume, la riproduce, e la estende, determinando una rottura drammatica degli
equilibri necessari alla riproduzione dell’ecosistema” (Vercellone 2017 [in corso di
pubblicazione]).
Non è un caso del
resto che, benché noto fin dal XIX secolo, il cambiamento climatico sia diventato
un problema pubblico, una questione politicamente visibile solo
a partire dagli anni Ottanta del Novecento, cioè nel momento in cui la
razionalità neoliberale ha permesso di scorgere una strategia di sviluppo peril
capitale dentro ad una “crisi di riproduzione” (Gorz 2015) creata dal capitale
stesso. Da allora – da quando le élites globali possono affermare che il
riscaldamento globale è un fallimento del mercato (in quanto incapace di
internalizzare i costi ambientali) che può tuttavia essere risolto solo da
un’ulteriore ondata di mercatizzazione (carbon trading e
mercificazione della natura) – l’Antropocene può finalmente diventare
l’orizzonte dell’accumulazione ‘sostenibile’.
Si tratta di una
mutazione epistemica di primaria importanza – incapsulata nelle formule capitalismo
cognitivo e green economy – che tuttavia non può
stupire se si considera il ruolo fondamentale svolto dalla computazione
digitale nel produrre dati e simulazioni riguardanti il riscaldamento globale.
Come ha mostrato lo storico Paul Edwards (2010), nessuno vive un’esperienza
atmosferico-planetaria senza il supporto della scienza climatica. Affinché si
possa stabilire un nesso tra un evento meteorologico – non importa quanto
estremo – e il riscaldamento globale, si richiede invariabilmente una
mobilitazione su larga scala del General Intellect nelle sue
diverse forme (cioè le varie fabbriche del sapere: università, think-tanks,
contro-argomentazioni da parte dei movimenti sociali, ecc.). Come è ovvio, una
tale dipendenza dal sapere non riduce in nulla la concreta materialità dei
mutamenti climatici, né per quanto riguarda l’individuazione delle loro
multiple cause, né in riferimento al portato distruttivo dei loro eterogenei
effetti. Ne deriva che un passo importante nell’elaborazione di una strategia
di evasione dall’Antropocene sia quello di riflettere più in profondità sul
concetto di lavoro nell’epoca della sua rilevanza geologica.
Moore stesso, nella Conclusione scritta appositamente per questa edizione
italiana, parla di lavoro/energia per indicare la necessità di
superare l’opposizione lavoro-natura nel Capitalocene, il quale “mostra il deterioramento
della natura come espressione specifica dell’organizzazione capitalistica del
lavoro” (infra, p. 141). Questo tipo di lavoro – quello
preso in carico dalla teoria energetica del valore-lavoro, che
nel tempo avrebbe assunto forma industrial-fordista e si sarebbe incastonato in
una cornice istituzionale quantitativa come quella del salario (Chicchi et
al, 2016) – è senza dubbio responsabile del degrado ecologico. Ciò dipende
dal fatto che in tale rapporto tra natura e lavoro la prima funge da limite non
contabilizzato sia all’inizio del processo (materie prime della produzione) sia
alla fine del processo (smaltimento dei rifiuti della produzione). Insomma, in
questo modello la natura sociale astratta è certamente internalizzata (appare
sia come componente gratuita dell’input che come recipiente,
altrettanto gratuito, per scarti dell’output), ma solo per definire i
limiti del lavoro sociale astratto propriamente produttivo, limiti che non la
coinvolgono nell’attività trasformativa vera e propria (Leonardi 2012b).
Ben diversa è però la
situazione nel momento in cui il lavoro-conoscenza diventa fattore primario della
produzione e fa emergere, accanto alla propria dimensione di danno ambientale,
un potenziale ecologicamente positivo legato alla cura dei beni comuni
socio-naturali. L’analisi di questa forma di lavoro/energia –
che non è quella discussa da Moore, più legata alla teoria del valore
‘tradizionale’ – ci pare oggi un compito politico di primaria importanza, il
cui sviluppo travalica decisamente lo spazio di questa Introduzione. Ci
limitiamo dunque a indicare un elemento che ci sembra importante problematizzare:
il rapporto tra lavoro ed entropia[4] nel capitalismo cognitivo, cioè
nell’Antropocene visibile e da cui è perciò possibile evadere politicamente.
Il tema dell’entropia
è stato introdotto nel pensiero economico negli anni Settanta da Nicholas
Georgescu-Roegen (2003), il quale ha sostenuto che qualsiasi processo che
produce merci materiali diminuisce, nel futuro, la disponibilità di energia e
quindi la possibilità di produrre altre merci materiali. Inoltre, nel corso del
processo economico anche la materia si degrada, cioè diminuisce tendenzialmente
la sua possibilità di essere utilizzata di nuovo: una volta disperse nell’ambiente
le materie prime precedentemente concentrate in giacimenti nel sottosuolo,
queste possono essere re-impiegate nel ciclo economico solo in misura ridotta e
a prezzo di un alto dispendio di energia. Come accennato in precedenza, il
lavoro salariato di matrice industrial-fordista, in quanto fortemente entropico,
conferma questa analisi: risulta dunque evidente l’auspicabilità sociale una
sua diminuzione. Come il movimento per la Decrescita ha più volte sottolineato,
una riduzione del metabolismo sociale a livello globale è un requisito
necessario per allontanare lo spettro della catastrofe ecologica (Deriu 2016).
Tale riduzione,
tuttavia, non copre che una piccola parte della riflessione sul rapporto
natura-lavoro nell’Antropocene.