martedì 10 ottobre 2017

abstract/ IL SINTOMO ANTROPOCENE

 -E. LEONARDI E A. BARBERO-



Del Degrado Ecologico del Pianeta - proponiamo un nostro estratto del testo pubblicato su Effimera (che fa seguito alla  parte-I) nel quale ci si interroga su “Come evadere dall’Antropocene?”
Al fine di precisare di non essere all’anno zero della critica tematica sviluppata, gli autori si richiamano giustamente ad Andrè Gorz, non solo per ricordarne il decennale della morte, ma per agganciarne il pensiero. 
Fra i maggiori critici del capitalismo postfordista, il grande teorico francese sin dal 1977 aveva dimostrato -col saggio “Ecologia e libertà”- «come l’eco-socialismo avesse bisogno simultaneamente di una re-invenzione radicale del lavoro, di una ri-localizzazione della produzione e di una ri-appropriazione autonoma della tecnologia»


Che si propenda per Antropocene, Capitalocene oppure per un’altra soluzione terminologica, ci pare comunque fuor di dubbio che lo stato di salute del pianeta non sia dei migliori e che l’esigenza di affrontare il degrado ecologico non possa essere ulteriormente rimandata. Scrive Agnès Sinaï al proposito:
L’Antropocene, in quanto periodo caratterizzato da un dispendio energetico senza precedenti, sarà solamente una tappa che andrà ben presto declinata al futuro anteriore. Il grande fallimento è cominciato e il suo emblema è Fukushima. La domanda che rimane è quella della sua eredità: fino a che punto le società umane saranno in grado di dispiegare strategie di resilienza di fronte alle tre grandi eredità dell’Antropocene: cambiamento climatico, radioattività diffusa, artificializzazione del mondo? (Sinaï 2016: 208).
Di fronte a queste sfide non è raro imbattersi in reazioni teconocratiche, convinte della funzione salvifica dei mercati e/o delle innovazioni, depresse, generalmente ispirate alla Gelassenheit heideggeriana, oppure apocalittiche, versioni più o meno raffinate del vecchio adagio “si salvi chi può”. Benissimo ha fatto, dunque, Mariaenrica Giannuzzi a raggruppare alcune filosofie non tristi del cambiamento climatico, cioè tentativi di sganciare l’Antropocene dalla sua aura di necessità naturale per riportarlo nell’alveo delle scelte politiche…
[…] Un buon modo per pensare la specificità del lavoro nel presente antropocenico è domandarsi come vediamo la nuova era geologica, cioè da quale regime di visibilità sia governata: su cosa si basa l’insieme delle norme che regolano la rappresentazione degli iper-oggetti? A noi pare ragionevole ipotizzare che sia il General Intellect (Marx 2012), divenuto astrazione reale del lavoro e principio organizzativo della produzione contemporanea (Vercellone 2006), a porre le condizioni di possibilità per vedere il cambiamento climatico. In altre parole, il regime di visibilità che ci consente di realizzare che abitiamo l’Antropocene s’innesta sul capitalismo cognitivo, cioè sullo sfruttamento generalizzato del lavoro-conoscenza. Questo è il sintomo. Ed è particolarmente grave perché a dispetto delle potenzialità esso non riduce per nulla gli impatti ambientali: come sostiene Carlo Vercellone, “[l]ungi dall’emanciparsi dalla logica produttivista del capitalismo industriale, il capitalismo cognitivo la sussume, la riproduce, e la estende, determinando una rottura drammatica degli equilibri necessari alla riproduzione dell’ecosistema” (Vercellone 2017 [in corso di pubblicazione]).
Non è un caso del resto che, benché noto fin dal XIX secolo, il cambiamento climatico sia diventato un problema pubblico, una questione politicamente visibile solo a partire dagli anni Ottanta del Novecento, cioè nel momento in cui la razionalità neoliberale ha permesso di scorgere una strategia di sviluppo peril capitale dentro ad una “crisi di riproduzione” (Gorz 2015) creata dal capitale stesso. Da allora – da quando le élites globali possono affermare che il riscaldamento globale è un fallimento del mercato (in quanto incapace di internalizzare i costi ambientali) che può tuttavia essere risolto solo da un’ulteriore ondata di mercatizzazione (carbon trading e mercificazione della natura) – l’Antropocene può finalmente diventare l’orizzonte dell’accumulazione ‘sostenibile’.
Si tratta di una mutazione epistemica di primaria importanza – incapsulata nelle formule capitalismo cognitivo green economy – che tuttavia non può stupire se si considera il ruolo fondamentale svolto dalla computazione digitale nel produrre dati e simulazioni riguardanti il riscaldamento globale. Come ha mostrato lo storico Paul Edwards (2010), nessuno vive un’esperienza atmosferico-planetaria senza il supporto della scienza climatica. Affinché si possa stabilire un nesso tra un evento meteorologico – non importa quanto estremo – e il riscaldamento globale, si richiede invariabilmente una mobilitazione su larga scala del General Intellect nelle sue diverse forme (cioè le varie fabbriche del sapere: università, think-tanks, contro-argomentazioni da parte dei movimenti sociali, ecc.). Come è ovvio, una tale dipendenza dal sapere non riduce in nulla la concreta materialità dei mutamenti climatici, né per quanto riguarda l’individuazione delle loro multiple cause, né in riferimento al portato distruttivo dei loro eterogenei effetti. Ne deriva che un passo importante nell’elaborazione di una strategia di evasione dall’Antropocene sia quello di riflettere più in profondità sul concetto di lavoro nell’epoca della sua rilevanza geologica. Moore stesso, nella Conclusione scritta appositamente per questa edizione italiana, parla di lavoro/energia per indicare la necessità di superare l’opposizione lavoro-natura nel Capitalocene, il quale “mostra il deterioramento della natura come espressione specifica dell’organizzazione capitalistica del lavoro” (infra, p. 141). Questo tipo di lavoro – quello preso in carico dalla teoria energetica del valore-lavoro, che nel tempo avrebbe assunto forma industrial-fordista e si sarebbe incastonato in una cornice istituzionale quantitativa come quella del salario (Chicchi et al, 2016) – è senza dubbio responsabile del degrado ecologico. Ciò dipende dal fatto che in tale rapporto tra natura e lavoro la prima funge da limite non contabilizzato sia all’inizio del processo (materie prime della produzione) sia alla fine del processo (smaltimento dei rifiuti della produzione). Insomma, in questo modello la natura sociale astratta è certamente internalizzata (appare sia come componente gratuita dell’input che come recipiente, altrettanto gratuito, per scarti dell’output), ma solo per definire i limiti del lavoro sociale astratto propriamente produttivo, limiti che non la coinvolgono nell’attività trasformativa vera e propria (Leonardi 2012b).
Ben diversa è però la situazione nel momento in cui il lavoro-conoscenza diventa fattore primario della produzione e fa emergere, accanto alla propria dimensione di danno ambientale, un potenziale ecologicamente positivo legato alla cura dei beni comuni socio-naturali. L’analisi di questa forma di lavoro/energia – che non è quella discussa da Moore, più legata alla teoria del valore ‘tradizionale’ – ci pare oggi un compito politico di primaria importanza, il cui sviluppo travalica decisamente lo spazio di questa Introduzione. Ci limitiamo dunque a indicare un elemento che ci sembra importante problematizzare: il rapporto tra lavoro ed entropia[4] nel capitalismo cognitivo, cioè nell’Antropocene visibile e da cui è perciò possibile evadere politicamente.
Il tema dell’entropia è stato introdotto nel pensiero economico negli anni Settanta da Nicholas Georgescu-Roegen (2003), il quale ha sostenuto che qualsiasi processo che produce merci materiali diminuisce, nel futuro, la disponibilità di energia e quindi la possibilità di produrre altre merci materiali. Inoltre, nel corso del processo economico anche la materia si degrada, cioè diminuisce tendenzialmente la sua possibilità di essere utilizzata di nuovo: una volta disperse nell’ambiente le materie prime precedentemente concentrate in giacimenti nel sottosuolo, queste possono essere re-impiegate nel ciclo economico solo in misura ridotta e a prezzo di un alto dispendio di energia. Come accennato in precedenza, il lavoro salariato di matrice industrial-fordista, in quanto fortemente entropico, conferma questa analisi: risulta dunque evidente l’auspicabilità sociale una sua diminuzione. Come il movimento per la Decrescita ha più volte sottolineato, una riduzione del metabolismo sociale a livello globale è un requisito necessario per allontanare lo spettro della catastrofe ecologica (Deriu 2016).
Tale riduzione, tuttavia, non copre che una piccola parte della riflessione sul rapporto natura-lavoro nell’Antropocene.