di Toni Negri e Marco Assennato -
Nel
recuperare un testo di Carlo Galli [→qui]
Assennato e Negri intervengono criticamente sul progetto della “Nuova Sinistra
Italiana”. In uno con la denuncia sulla «miseranda situazione in cui versa la
socialdemocrazia europea», Galli scopre post-faestum la strutturale organicità della terza via di Blair e Giddens, rispetto
all’impianto neoliberista. Vien da dire –dicono A. e N.- «meglio tardi che mai».
Anzi, suggeriscono, «di allargare l’archeologia al PCI di fine anni settanta,
così da disinnescare in anticipo un’ennesima nostalgia: perché lì le
istituzioni del movimento operaio ricusarono definitivamente il loro legame
organico con il proletariato metropolitano»
[…]
le società disciplinari sono entrate in crisi e sulla scena resta un nuovo
dispositivo di controllo che agisce su corpi sociali inediti, composti da
proletariato diffuso, migranti, lavoro immateriale e potenze produttive
pienamente socializzate. Da una parte, dunque, come suggeriva Deleuze 25 anni
fa, una «crisi generalizzata di tutti i regimi di contenimento: prigione,
ospedale, fabbrica, scuola, famiglia», che infatti non cessano di essere
sottoposti a continue riforme come per dilazionarne la morte certa o almeno
«gestirne l’agonia»; dall’altra modulazioni estensive di controllo su corpi
biopolitici nuovi, incomparabili a quelli del periodo precedente:
Lo
si vede bene nella questione dei salari: la fabbrica era un corpo che portava
le sue forze interne a un punto di equilibrio, il più alto possibile per la
produzione, il più basso possibile per i salari; ma nella società di controllo
l’impresa ha sostituito la fabbrica, e l’impresa è un’anima, un gas. Senza
dubbio la fabbrica conosceva già il sistema dei premi, ma l’impresa si sforza di
imporre una modulazione di ciascun salario, in uno stato di perpetua
metastabilità che passa attraverso sfide, esami e colloqui estremamente comici.
[...] La fabbrica costituiva gli individui in corpi, con un doppio vantaggio:
per il patronato che sorvegliava ogni elemento nella massa; e per i sindacati
che mobilitavano una massa di resistenza; ma l’impresa non la smette di
introdurre una rivalità inespiabile in termini di sana emulazione, eccellente
motivazione che oppone gli individui tra loro e attraversa ciascuno,
dividendolo in sé stesso. Il principio modulatore di salario di merito, tenta
l’educazione nazionale stessa: in effetti, così come l’impresa rimpiazza la
fabbrica, la formazione permanente tende a rimpiazzare la scuola e il controllo
continuo tende a sostituire l’esame.
Ora
il problema che Deleuze poneva in quel testo è il seguente: come ci si può
organizzare di fronte a questo nuovo rapporto di potere, che è insieme
massificante, anonimo e individuante, singolarizzante? Un bel problema, che meriterebbe
attento studio, scandaglio delle pratiche sociali esistenti, duro lavoro di
connessione e organizzazione politica. Invece di fronte a questa domanda lo
sguardo della sinistra istituzionale inorridisce e volge altrove. Le tesi di
Galli ci paiono un esempio di questo inorridito disprezzo. Si producono perciò
in esercizi di autoflagellazione politica, revisionismo debole, compensati dal
riemergere qua e là di blande forme di socialismo compassionevole: nuovi
umanesimi, nostalgie sovraniste per lo Stato nazionale, canzonette sui bei
tempi andati – quando la classe stava ordinata nei ranghi di fabbrica e
all’occorrenza veniva fuori in strada, a sporcare di grasso l’abito lindo del
buon borghese. Così, si invocano la tutela nazionale del lavoro contro la
società plutocratica globale, il ritorno dell’intervento pubblico in economia,
politiche per la crescita e la ripresa del dialogo tra le parti sociali:
interventi beninteso, attuabili dallo Stato Nazionale Repubblicano, mitico
agente sovra-ordinatore ed extra-economico che rimette a posto le disarmoniche
dinamiche della storia.
Una
bella ideologia regressiva dalla quale si può venir via solo accettando di
volersi sporcare un poco le mani, e il vestito. Di guardare negli occhi e
camminare accanto ai tanto deprecati soggetti sociali che si anela
rappresentare. Ci vuole molto a comprendere che tutta la storia della sinistra
politica è stata essenzialmente organizzazione di parte dei movimenti di
classe? Tutta: le pagine migliori e anche le peggiori. Una lettura a partire
dalle metamorfosi del lavoro e dei nuovi rapporti di classe riconoscerebbe
innanzitutto le diverse soggettività sociali investite dalla crisi ed
eviterebbe la volgare riduzione delle singolarità produttive in «anomia,
apatia, populismo». Così come permetterebbe, di riflesso una ricollocazione
dell’analisi istituzionale, realistica e concreta (per usare una parola tanto
cara a Carlo Galli). Concreta: cioè in grado di vedere la funzione specifica
delle istituzioni e delle Costituzioni nazionali nel contesto della
globalizzazione. Come anche l’urgenza di una verticalizzazione almeno europea
delle lotte. Quindi: dell’organizzazione politica di cui esse necessitano.
Mentre
l’approccio tutto istituzionale di Galli – un vero ritorno dell’autonomia del politico,
perduti ormai i riferimenti a Lenin e a Marx – condanna la sua proposta ad
anticipare e sostituire i movimenti soggettivi. I quali, per tutta risposta
resteranno, facile previsione, del tutto indifferenti a questo blando discorso
nostalgico. Per di più con il rischio che la Nuova sinistra preconizzata da
Galli, si trovi a collimare effettivamente con le ipotesi neo-nazionaliste del
nuovo fascismo europeo: Marine Le Pen fa della repubblica la sua bandiera e
quanto resta dello Stato-Nazione lo si può preservare solo erigendo muri,
piazzando filo spinato e usando l’esercito contro i movimenti che attraversano
l’Europa.
Contro i nazionalismi
Si
direbbe, per usare un vecchio paradosso che, con le tesi di Galli, ritorni la
sinisteritas: quella lunga vicenda fatale che lega gli intellettuali
progressisti ad un destino di inettitudine, goffaggine, incapacità. Che li
obbliga ad indossare sempre a rovescio –links anziehen – i panni della storia.
Laddove invece si dovrebbe interpretare il potenziale liberatorio che sempre è
contenuto nella rottura dei rapporti di potere e dei vecchi ordinatori
politici. Uno sguardo radicalmente immanente potrebbe funzionare esattamente
come critica dei sistemi di sicurezza gnoseologica, rompere le gabbie della
storia, aiutarci a perdere gioiosamente i miti antichi. Altrimenti il pensiero
affoga. Non vede. Brancola nel buio. Si arena nelle gelide steppe della
sconfitta socialdemocrazia europea. E ricomincia a cantare la vecchia canzone:
lo stato-nazione, la rappresentanza, la costituzione. Operatori politici che
avrebbero dovuto fare emergere la razionalità naturale dei rapporti economici
che una cattiva gestione capitalistica – avida e individuale – impediva.
Possiamo ricominciare di nuovo con questa illusione?
Non
ci si accorge che così si evocano semplicemente quegli specifici strumenti di
gestione che avevano funzionato al tempo delle società disciplinari? Non si
vede che per questa via si precipita facilmente in ipotesi Rosso-Brune? Si
evoca un mondo passato nel quale il capitalismo funzionava per concentrazioni,
al fine di garantire la produzione di merci e la proprietà privata dei mezzi di
produzione. E nel quale il mercato funzionava come spazio di redistribuzione
relativa e asimmetrica degli utili.
Ma
torniamo allora a Deleuze. A quel bel post-scriptum: nella situazione attuale –
diciamo da un trentennio a questa parte – il capitalismo non è più un sistema
di produzione, è piuttosto un rapporto sociale che compra prodotti già fatti o
migliora prodotti già socialmente realizzati. Vende servizi e compra azioni.
Perciò è essenzialmente dispersivo: «la famiglia, la scuola, l’esercito, la
fabbrica, non sono più ambienti analoghi e distinti che convergono verso un
unico proprietario, lo Stato o una potenza privata». Sono piuttosto figure
«deformabili e trasformabili di una stessa impresa che non ha altro che
amministratori». Il marketing scava la logica informale del controllo sociale,
l’indebitamento lega i soggetti alla macchina di valorizzazione, le agenzie
istituzionali nazionali e sovranazionali assicurano la repressione costante
degli eccessi di condensazione sociale che le nuove forme del lavoro
biopolitico costruiscono senza tregua. Qui è il punto. Rileggiamo Deleuze per
ricominciare ad analizzare i meccanismi di controllo e descrivere ciò che già
adesso s’oppone e eccede i nuovi regimi di dominio e sfruttamento. Diceva quel
vecchio post-scriptum: i nuovi lavoratori del regime di impresa transnazionale
devono essere motivati, formati, valorizzati. Per concluderne: «sta a loro scoprire
per che cosa servono, come i loro antenati hanno scoperto, non senza pena, la
finalità delle discipline. Le spire di un serpente sono ancora più complicate
dei buchi di una talpa». Lavoriamo allora affinché il serpente della coalizione
sociale europea strozzi nelle sue spire l’incubo del nazionalismo: tanto di
destra quanto di sinistra.
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