di Francesco Raparelli -
L’ultimo
lavoro di Rocco Ronchi, Gilles
Deleuze. Credere nel reale (ed. Feltrinelli), è «un capitolo di
storia della filosofia contemporanea». Lo chiarisce l’autore nelle prime
battute, lo affermiamo dopo aver letto con passione. Eppure non appare
sbagliato parlare di una nuova ricerca sul materialismo. Della vita, della
«materia intensa», del divenire. È questo il materialismo insolito di cui, da
tempo, va alla ricerca Ronchi, occupandosi della pragmatica di Bachtin o
leggendo il Sartre meno battuto (quello degli scritti giovanili), seguendo
Brecht o Bergson. È questo il materialismo di Deleuze
Fare
di Deleuze un materialista non è mai operazione facile. Ronchi, che dell’autore
di Differenza e ripetizione segnala nel dettaglio le genealogie,
conosce la difficoltà e non si sottrae. Anzi, tra i reagenti chimici utilizza
l’attualismo gentiliano, e le difficoltà non possono che aumentare. Come
pensare in termini materialistici facendo a meno della «negazione determinata»?
Come, se il piano in cui ci si colloca è quello del reale o dell’«esperienza
pura»? L’immanenza di una vita impersonale, «un puro evento liberato dagli
accidenti della vita interiore ed esteriore», è uno scarto irriducibile nei
confronti del materialismo o una sua rinnovata potenza?
Ronchi
non ha dubbi, e neanche chi scrive, quello di Deleuze è un materialismo
della potenza. Ma nel modo di intendere questa nozione, fondamentale per la
filosofia tutta, si gioca la differenza che conta. Decisive le genealogie di
Ronchi: la potenza-processo di Deleuze non è la capacità-latenza di Aristotele.
In Deleuze prevale la rottura spinoziana del conatus, essenza
(sempre) attuale, gradus singolare dell’infinita potenza
produttiva di Dio (sive Natura). Pur trattandosi di una vera
discontinuità, la nozione spinoziana di potenza è stata lungamente preparata.
In alcuni passi decisivi Deleuze rintraccia le linee, Ronchi le ripercorre e le
complica: sicuramente Plotino (che tanto segna anche Bergson), sicuramente
Scoto e il suo «fattore contraente» (haecceitas), sicuramente Cusano e
il suo possest. Solo Spinoza rompe ogni emanazione, dunque ogni
gerarchia ontologica, e conquista «l’infinita uguaglianza dell’essere di ogni
ente». Ma la traiettoria è chiara: pensare l’individuo a partire
dall’individuazione, dal suo campo (comune); pensare il reale a partire
dal suo divenire, prima della distinzione tra soggetto e oggetto. Il richiamo
al Gentile dell’«atto in atto» va inteso come grimaldello ulteriore
per afferrare l’evento («vapore nella prateria») di ogni accadimento.
La
Sostanza è i suoi modi, come il mare le sue onde e l’Essere le sue pieghe.
Meglio dire però: modulazione, variazione continua, ripiegamento incessante. In
questo senso, e fa bene Ronchi a ribadirlo, quella di Deleuze è un’ontologia
(del processo, del molteplice, della differenza, modale) e non è
un’antropologia. La «coscienza impersonale» – nozione che Deleuze riprende,
complicandola, dal suo «maestro» Sartre – non riguarda l’uomo, ma anche gli
animali e le piante, le pietre. Distrugge dunque i confini della coscienza per
farsi vita, l’immanenza di una vita, la potenza impersonale e però singolare
che ci attraversa, che attraversa ogni ente costituendolo. Una vita – scrive
Deleuze – «non contiene altro che dei virtuali». Un grappolo di concetti
dunque: vita, singolarità, virtuale, evento. Decisivo per far emergere in primo
piano il reale come «processo di attualizzazione» che sempre – senza telos,
e in modo splendente ma spietato – costruisce il piano.
Questo
Deleuze, questo materialismo della differenza e delle quantità intensive,
Ronchi lo presenta con chiarezza e in modo avvincente. Non gli sfugge nulla.
Resta da capire se quello di Deleuze è ancora un materialismo della lotta di
classe. Problema, nel disastro nel quale siamo immersi, tutt’altro che ozioso.
So
che tutti i deleuzisti hanno già la risposta pronta, con una spruzzatina di
gergo e qualche «anarchia incoronata». So pure che Agamben, in modo
originale e raffinato, fa di Deleuze un autore della (sua) «potenza
destituente». Proverei a scavare di più, ricordando Deleuze lettore di Hume e
di Saint-Just, dunque teorico delle istituzioni contro la Legge. Oppure
Deleuze-Guattari che rinnovano la nozione marxiana di «accumulazione
originaria». Ancora: le pagine di Mille plateaux su Clastres e
le «macchine da guerra». Deleuze-Guattari pluralisti e machiavelliani.
Ma
forse si può fare ancora di meglio e cercare la lotta e il suo primato nella
definizione del pensiero (come potenza). Sono memorabili, e le ricorda in più
occasioni Ronchi, le pagine di Differenza e ripetizione in cui
Deleuze si scaglia contro l’Immagine del pensiero, rappresentativo o del
riconoscimento. La domanda è tagliente: «Che cos’è un pensiero che non fa male
ad alcuno, né a colui che pensa, né agli altri»? La risposta arriva poche
righe sotto, avvicinando d’un balzo Deleuze a Foucault, ad Althusser,
all’operaismo italiano: «è tanto più assolutamente necessario che esso [il
pensiero] nasca, per effrazione, dal fortuito nel mondo. Ciò che è primo nel
pensiero è l’effrazione, la violenza, il nemico, e nulla presuppone la
filosofia, tutto muove da una misosofia». Primato del sentire, indubbiamente,
ma primato del sentire come campo di battaglia. Gli accidenti (la povertà, le
guerre, le carestie, la malattia, ecc.), messi all’angolo dalla vita
impersonale, tornano al centro della vita stessa e rendono il pensiero
necessario. Una buona indicazione per liberare Deleuze dall’accademia marginale
e per ritrovarlo nello sciopero riuscito.
euronomade.info