di Alioscia
Castronovo/Giansandro Merli -
“L’anima ribelle non vuole sostituire un potere ad un altro, ma superare l’idea stessa del potere: per
questo si basa sull’orizzontalismo, sul dibattito, vuole cambiare le regole del
gioco. È il principio su cui si sono basati i social forum mondiali, di quel
“mondo in cui possano stare tanti mondi” in alternativa al modello
dell’Internazionale socialista. L’anima ribelle ha però un problema, lo stesso
che hanno le onde nel mare: esistono solamente grazie alla forza del vento… Alla
ribellione è sempre mancata una certa dimensione istituzionale capace
di consentirle la stabilizzazione delle conquiste”. Il leninismo
amabile, le strategie contro l'austerità, le elezioni spagnole e lo spazio
europeo: intervista a Monedero, co-fondatore di Podemos e docente della
Universidad Complutense di Madrid.
Hai
parlato spesso di tre anime “storiche” della sinistra che nel corso del secolo
scorso sono state separate, hai affermato l'urgenza di riconnetterle. Quali
sono queste tre anime? Potresti approfondire questa riflessione definendo le
strategie possibili per una rottura dell’egemonia neoliberale?
La storia è densa di conflitti contro la diseguaglianza, le risposte di
fronte al potere emergono già nella Bibbia. Se le forme della protesta sono
sempre state diversificate, notiamo come a partire dal diciannovesimo secolo il
socialismo le abbia in buona parte unificate. Il socialismo si è espresso
innanzitutto in forma rivoluzionaria, con la costruzione di un
contropotere rispetto al potere capitalista esistente; alcune conquiste
ottenute hanno poi reso tale risposta sempre più moderata e graduale, in
particolare mi riferisco alla sua forma parlamentare. Da qui nasce la proposta riformista,
espressa soprattutto dalla socialdemocrazia tedesca all’inizio del ventesimo
secolo. Ma è sempre esistito un terzo ambito di discussione nei movimenti di
protesta, che non riguardava il contro-potere ma l’anti-potere, che è l'anima ribelle.
Se guardiamo alle proposte sull’emancipazione sociale nel ventesimo secolo,
possiamo notare un progressivo divorzio tra riformismo e rivoluzione, che
avviene nel parlamento tedesco con il voto in favore dei fondi di guerra nel
1914, quando Rosa Luxemburg ricorda che le differenze importanti sono quelle
tra padroni ed operai, e non quelle tra operai tedeschi e operai francesi. Ma
alla fine proletari francesi e tedeschi si ammazzarono l’un l’altro in guerra.
Ciò dimostra come tale proposta non aveva ancora raggiunto la giusta maturità
in Europa. Lo scontro tra riforma e rivoluzione che si congela
nella diatriba tra Est e Ovest per molti decenni è stato un problema
drammatico. Il riformismo si è convertito in una mera gestione dell’esistente
nel sistema capitalista, rinunciando a pensare la trasformazione (un evento per
comprendere tale passaggio è il Congresso della SPD nel 1959, quando la
formazione socialdemocratica rinuncia al marxismo e dunque all’ideale del
superamento del sistema capitalista).
La rivoluzione, nei paesi dell’est e in alcuni altri paesi del mondo, ha di
fronte altri problemi e rinuncia alla dimensione democratica ed elettorale. La
proposta rivoluzionaria viene pensata nella forma di un programma massimalista
che non può cedere su nulla, in cui il fine giustifica i mezzi, arrivando fino
ad annullare la democrazia interna. Riforma e rivoluzione si trovano di fronte
allo stesso nodo problematico: il riformismo non ha fiducia nella gente e
tratta il popolo come un infante (dal latino in-fans, colui che non parla).
L’adulto (il riformista) deve pensare al popolo (l’infante) che deve così
solamente accontentarsi dei benefici derivanti da tali politiche: così il
popolo diventa come quelle volpi che si abituano a ricevere il cibo dai turisti,
e perdono la capacità di andare a caccia.
Nemmeno la proposta rivoluzionaria ha avuto fiducia nel popolo: dato che
solo l’avanguardia era capace di comprendere ciò che non era considerato
accessibile al popolo, hanno finito per costruire muri, gulag e
bloccare ogni processo democratico e libero. Entrambe le opzioni hanno
avuto le loro ragioni: l’opzione rivoluzionaria si è trovata di fronte al
blocco capitalista che ha fatto di tutto per impedirne il dispiegamento, e il
riformismo ha effettivamente ha migliorato le condizioni di vita dei
lavoratori. Ma il divorzio tra queste due opzioni le ha condannate entrambe ad
essere incapaci di avanzare sul terreno dell’emancipazione sociale.
Entrambe queste due anime hanno poi abbandonato la terza anima, quella ribelle:
è quella incarnata da Bakunin rispetto a Marx, Rosa Luxemburg rispetto a Lenin,
Trotzki rispetto a Stalin, è quella dei movimenti libertari rispetto ai
movimenti comunisti, quella del 15M rispetto ai partiti politici spagnoli,
quella degli zapatisti.
L’anima ribelle non vuole sostituire un potere ad un altro, ma superare
l’idea stessa del potere: per questo si basa sull’orizzontalismo, sul
dibattito, vuole cambiare le regole del gioco. È il principio su cui si sono
basati i social forum mondiali, di quel “mondo in cui possano stare tanti
mondi” in alternativa al modello dell’Internazionale socialista. L’anima
ribelle ha però un problema, lo stesso che hanno le onde nel mare: esistono
solamente grazie alla forza del vento. Hirschman, nel libro Felicità
privata e felicità pubblica (pubblicato in Italia per la prima volta
dal Mulino nel 1983), si è interrogato su questo tema, riflettendo sull'ondata
di riflusso nel privato seguita ai movimenti del ’68. Egli sostiene che le
rivoluzioni finiscono per naufragare, che dopo aver dedicato tante
energie al processo di lotta si finisce per “tornare a casa”, come avvenuto
dopo il maggio del ’68, o in occasione di altri cicli collettivi di lotta, non
ultimo nel 15M. Alla ribellione è sempre mancata una certa dimensione
istituzionalecapace di consentirle la stabilizzazione delle conquiste.
Penso che mettere l’una contro l’altra queste tre anime della sinistra sia
un errore. Dobbiamo pensare a come rimetterle assieme: ogni processo è
composto da momenti rivoluzionari, momenti riformisti e momenti di ribellione,
all'interno di una realtà sociale che presenta una dimensione reticolare, in
cui si compongono tutti e tre questi momenti, che sono congiunturali, situati,
non definitivamente strutturati. In questo periodo storico abbiamo bisogno di
ridare forza alla dimensione della ribellione, perché le altre due opzioni
hanno poco da darci oggi. In una società della conoscenza, informatizzata,
reticolare, le strutture verticali non funzionano, così come il paternalismo. Dobbiamo
imparare da queste tre anime, ma dare priorità alla ribellione, che rappresenta
la capacità di riappropriarsi collettivamente della politica,
definendo così in comune gli obiettivi da perseguire. Dobbiamo essere coscienti
di trovarci in una fase deliberante, per dirla con Gramsci quella
fase in cui il nuovo mondo non è ancora nato e il vecchio mondo non è ancora
tramontato. Nei momenti di crisi, la soluzione è aprire dibattiti e dare forza
alla dimensione deliberante, ma senza abbandonare le strutture che ci
permettono di andare avanti nella lotta contro il potere costituito: non è uno
scherzo, ma è un ossimoro quello che sto per dire, in questi tempi di
incertezza e crisi occorre saper essere “leninisti amabili”. Abbiamo
bisogno di strutture che affrontino l’incertezza senza essere avanguardie, per
convincere tutti i cittadini della necessità del cambiamento.
Vorremmo
qui approfondire la questione del cambiamento: la sfida oggi riguarda
immediatamente lo spazio transnazionale e dunque perlomeno europeo, inteso come
spazio minimo per poter costruire una risposta all’altezza del comando
capitalistico e dell’offensiva neoliberale. Hai parlato dello spazio globale e
europeo come spazi del comando, e dello spazio nazionale come spazio di
politicizzazione. Quale relazioni esiste tra questi spazi e i processi di
politicizzazione in relazione all’esperienza di Podemos?
Credo che dobbiamo prendere sul serio Foucault quando dice che il
neoliberismo è diventato senso comune, e i suoi valori egemonici. Credo che
Podemos sia diverso dai partiti della sinistra tradizionale, perché partiamo
dall’assunzione di aver subito una grande sconfitta, e coscienti di ciò abbiamo
davvero la possibilità di costruire processi che vadano oltre i luoghi
tradizionali della sinistra, arrivando a settori della società a cui la
sinistra non è mai arrivata, a causa della sua dimensione ideologica.
Credo che veniamo da una sconfitta storica anche sul piano teorico:
a causa delle riflessioni legate alla dimensione nazionale, alla struttura del
lavoro fordista, al mondo della fabbriche, alla promessa del welfare state –
che è stato un caso storico e non la normalità capitalistica – ci è stato
impossibile capire che il capitalismo ha avuto quattro secoli di sviluppo e
solo uno di decadenza. E all’interno di questa crisi non ci siamo saputi
situare in maniera nuova. Veniamo da una sconfitta teorica della lettura
marxista della società, ci siamo sbagliati rispetto al soggetto,
all'interpretazione della crisi, non abbiamo saputo proporre un’alternativa
credibile al sistema di produzione capitalista, dare risposte alla crisi
ambientale, alle questioni di genere. Il collasso della cosmo-visione storica,
degli immaginari e dell’impianto teorico della sinistra è una questione che
dobbiamo saper affrontare ed interiorizzare.
La seconda sconfitta riguarda la gestione, sia quella
socialdemocratica che quella comunista. Entrambe, come dicevo prima, non hanno
avuto fiducia nel popolo e hanno bloccato le possibilità di cambiamento.
La terza sconfitta riguarda i valori della sinistra: la
dimensione cooperativa e comunitaria ha lasciato spazio all’individualismo, la
solidarietà è scomparsa, lasciando prevalere una visione negativa dell’essere
umano. Si è andata diffondendo una concezione individualista della sconfitta,
del fallimento, sintetizzata dall’espressione “looser”, perdenti, che altro non
è che la definitiva interiorizzazione ed individualizzazione delle irrisolte
questioni sociali. Le imprese private vengono considerate più efficaci dello
stato e del pubblico – un luogo etico, secondo Gramsci e Marx – che invece di
essere considerato il luogo “di tutti” diventa lo spazio di nessuno. Questa
sconfitta dei valori della sinistra nella fase di egemonia neoliberale, questo
divenire zombi di cui nemmeno ci rendiamo conto, ci obbliga a pensare la
ricostruzione politica a partire da questa sconfitta, per ribaltare il senso
comune.
L’Europa è un concetto da avanguardia, in un continente in cui la cittadinanza è diventata
retroguardia. Siamo, come ha scritto tempo fa Alonso, consumatori del
ventunesimo secolo e cittadini del diciannovesimo. Il sogno consumista ha
distrutto la possibilità della trasformazione, lo aveva già scritto Pasolini
negli anni settanta. Noi come Podemos siamo molto gramsciani, assumiamo il suo
concetto di guerra di posizione a fronte della guerra di movimento, e diciamo
oggi, a che serve ottenere posizioni se non cambiamo il modo di pensare
della gente? Ci sono idee di avanguardia, comprese da alcune élite,
che non sono comprese dalla massa. La globalizzazione, l’Europa, il Tribunale
penale internazionale, l’organizzazione Internazionale del Commercio e così
via, sono concetti e strutture comprese dalle élite, che pongono queste
strutture al servizio dei propri interessi, presentandoli come strumenti etici
al servizio di tutti.
La cittadinanza vede tutto ciò molto lontano, si lascia colpire dagli
aspetti più appariscenti di tali processi, ma non li comprendono fino in fondo:
penso a quando Bush ci ricordava che presto avremmo potuto fare le vacanze su
Marte, cosa che mi fa pensare alle favole in cui si attende l’arrivo di un
principe per poter essere felici. Queste distrazioni servono alle élite per
costringerci a vivere, qui ed adesso, in una valle di lacrime. Questa questione
l’ho discussa anche con Toni Negri: non possiamo trasformare i nostri paesi se
non convinciamo la gente della necessità di cambiare. Come diceva Machiavelli, senza
la necessità non c’è cambiamento. Per cui a cosa serve costruire cose
che non vengono comprese dalle masse? A meno di non volere una specie di
dispotismo illuminato, nel nome del popolo, ma senza il popolo.
Ma i nostri tempi esigono cose diverse: la gente preferisce
l’individualismo neoliberale al paternalismo della sinistra, anche
se quest’ultimo gli potrebbe garantire migliori condizioni di vita, mentre il
primo solo la miseria. Per cui dobbiamo avere fiducia nei cittadini, e questi
processi di politicizzazione possono funzionare meglio negli spazi percepiti
come propri dai cittadini stessi. Per questo lo spazio nazionale e popolare è
una possibilità per costruire un soggetto che si percepisca come soggetto del
cambiamento, non solo legato alla classe operaia, ma anche ad altri aspetti,
anche simbolici, che permettano la mobilitazione sociale. Sappiamo che
è necessaria una mobilitazione transnazionale, ma dobbiamo prima passare per lo
spazio nazionale. C’è una cosa che mi piace molto di Marx, mi sembra
un'intuizione tuttora valida: le rivoluzioni possono svilupparsi solo nei paesi
a capitalismo avanzato. Gramsci mette in discussione questa questione, dicendo
che è possibile anche nei paesi meno sviluppati, come diceva anche Lenin. A me
sembra complesso costruire il socialismo laddove non si è passati per lo stato
borghese: non pretendo di avere ragione, ma credo che lo stato borghese e il
welfare state abbiano costruito una sfera pubblica in cui è possibile pensare
il comune come qualcosa da difendere e ci cui riappropriarsi collettivamente,
mentre nelle altre società, come per esempio il Venezuela, è impossibile costruire
un socialismo perché non ci sono socialisti. Dunque se l’Europa è la soluzione,
dico anche che non possiamo costruire l’Europa fintanto che non abbiamo
europeisti, cosa che non possiamo ottenere senza avere prima cittadini
democratici e protagonisti nel proprio spazio nazionale. Essere europeisti oggi
comporta il rischio di avanguardismo, rispetto si nostri concittadini stessi.
Tanto Syriza come Podemos, come Corbyn in Inghilterra,
come Lafontaine della Linke, tutti critichiamo la privatizzazione del pubblico
e l’austerità in quanto attacco allo stato sociale. Penso che questi aspetti
del pubblico siano densi di significato, ed è questo il cuore della nascita di
Podemos. Se questi significati fossero già andati perduti, avremmo dovuto
aspettare una generazione per poter tornare a contare.
Siamo nati adesso come Podemos, perché abbiamo pensato: “se dovesse
naturalizzarsi nelle coscienze collettive il processo di privatizzazione,
nemmeno tra trenta anni potremo accumulare tanta forza per costruire una
risposta all’altezza”, così come invece è avvenuto in America Latina. E questo
ci avrebbe condannato ad una generazione devastata, ad una vera e propria latinoamericanizzazione
dell’Europa. Non è facile spiegare perché alcune cose accadono in un paese
e non in un altro, non è per niente facile. Credo che la differenza tra la
Spagna e l’Italia non è tanto legata alla nascita di Podemos, quanto invece al
15M, che ha determinato il diffondersi di una contro-narrazione che ha reso
possibile Podemos, forse perché non abbiamo raggiunto ancora quel livello di
esaurimento della speranza nel cambiamento, che riguarda invece le società che
hanno vissuto a lungo in democrazia. Questa è una mia intuizione, non so se sia
vera, ma mi sembra che i paesi che fino alla seconda metà del ventesimo secolo
hanno vissuto sotto dittatura abbiano “congelato” alcuni processi, cosa che ha
permesso il riaprirsi di un ciclo di lotte talmente intenso e forte. Cosa che è
accaduta in Grecia e in Spagna (per confermare la mia ipotesi dovrebbe
succedere anche in Portogallo) perché l’interiorizzazione della nostra
condizione sociale di “loosers” non è ancora del tutto compiuta. Questo
non significa che non possiamo perdere ancora: pur essendo stati traditi dai
partiti e dai sindacati, non abbiamo vissuto ancora socialmente la grande
sconfitta di cui parlavo prima. Sappiamo che le conseguenze di questa sconfitta
sono qui attorno a noi: ma in Spagna credo ci sia oggi la possibilità di
costruire una contro narrazione che riapra questo spazio.
A
proposito di questo spazio, la sconfitta di Syriza nelle trattative con la UE,
con il memorandum di luglio, che influenza ha avuto in Spagna e in particolare
per Podemos?
Non dobbiamo rimproverare a dei nani di non aver combattuto abbastanza
contro i giganti. Dalla Spagna e dall’Italia rimproveriamo al governo greco di
non aver lottato abbastanza, ma la Grecia è una piccola economia dell’Eurozona:
non si può lottare contro un drago con in mano un acchiappafarfalle. L’errore
di Syriza è stato il fatto di credere di negoziare con dei democratici,
pensando che bastava appellanrsi alla costituzione democratica dell’Europa, per
far rispettare dalla Troika le proprie decisioni, ma si è trovata di fronte a
dei mafiosi.
Il referendum è stato un errore: non puoi convocare un referendum se poi
non sei capace di difenderne i risultati. Così ci si è trovati in una
situazione in cui il piano B della Grecia è diventato il piano A della Germania,
parlo ovviamente della Grexit. Tsipras ha lanciato una sfida ma non aveva le
forze per sostenerla, questo è stato l’errore. Accanto a questo errore, ne
segnalo altri due: la spaccatura del partito, cosa intollerabile, e la
rassegnazione che ha causato al popolo greco, altra cosa imperdonabile. Queste
energie utopiche capitano ogni venti o trenta anni, tu non puoi sacrificarle
così, come ha fatto Tsipras. Si sarebbe dovuto dimettere, per far si che Syriza
potesse rinascere, e invece si è comportato da politico. Credo che Syriza
avrebbe dovuto guadagnare tempo, aspettando che in Europa altre forze anti
austerità potessero vincere le elezioni. Quello che è avvenuto riguarda il
problema che ogni partito deve affrontare, noi compresi: entrare nel regno
oscuro della rappresentanza è un rischio, lo sappiamo e lo abbiamo scelto. Sono
rischi reali. Quando non hai gli anticorpi, vieni divorato dalle logiche della
rappresentanza, come secondo me è accaduto a Tsipras. Noi condividiamo le
questioni poste da Syriza, non le risposte. Se è vero che la firma sul
memorandum ha defraudato della speranza, credo anche che nella storia di Davide
e Golia di solito vince Golia, per cui dobbiamo prenderci le responsabilità nei
nostri paesi e non recriminare ai paesi piccoli di non aver fatto ciò che non
hanno le forze per fare.
Per
concludere, ti vogliamo chiedere di affrontare la questione della relazione tra
movimenti sociali e Podemos, per come si sta configurando in relazione scadenza
elettorale di novembre.
Noi siamo nati dal 15M ma non siamo il 15M, e non lo siamo nella misura in cui
abbiamo deciso di formare un partito politico, con tutti i rischi che esso
comporta. Abbiamo deciso di vivere questa contraddizione e questa tensione,
abbiamo creato i circoli, strutture orizzontali di contatto tra la società e la
politica, accanto alla macchina elettorale, alla dimensione della
rappresentanza, ben centrata sui mezzi di comunicazione. Possiamo dire che se
una volta i rivoluzionari andavano in montagna, ora danno battaglia negli studi
televisivi. Ma noi siamo pochi, non abbiamo mezzi né denaro, abbiamo fatto
Podemos nel nostro tempo libero, e sappiamo che nella politica partitica
prevale la logica rappresentativa, e che i tempi deliberativi collettivi sono
molto più lenti dei tempi della politica. La politica di partito è un mercato
influenzato dai mezzi di comunicazione e particolarmente segnato dall’urgenza,
incompatibile con la lentezza della deliberazione e della discussione
orizzontale. Ciò che ho definito leninismo amabile riguarda proprio la
necessità di creare un apparato, diverso dai partiti comunisti tradizionali,
capace di assumersi il caqrico di saper rispondere alle sfide che l'attuale
situazione politica ci pone. I circoli devono sempre controllare i
rappresentanti ma mai inceppare la macchina elettorale. Altrimenti non avremmo
creato Podemos, saremmo rimasti nella logica del 15M, del movimento degli
indignados.
Dobbiamo trovare un equilibrio e non è semplice, perché davanti hai un
nemico molto potente e dobbiamo fare i conti con un enorme problema: il
movimento funziona bene nella fase destituente, ma non altrettanto in quella
costituente. Il movimento affronta e contrasta l’esistente, ma fatica a
costruire alternative in una società egemonizzata dai valori neoliberali,
dall’individualismo, dall’egoismo. Siamo consapevoli che il blocco della
mobilità sociale verso l’alto ha aperto una opportunità per trasformare quella
rabbia in una politica radicale. Ma non è facile. Dobbiamo essere molto
intelligenti, molto rigorosi, molto flessibili, molto austeri, molto ben preparati,
dedicare molto tempo alla gente. Ci siamo trovati a inventare una specie di
star del rock and roll della rivoluzione politica, con tutte le contraddizioni
che ciò porta con sè. Seppure siamo stati efficaci nel costruire la macchina
elettorale, abbiamo ancora molto da fare per quanto riguarda la dimensione
deliberativa e rappresentativa, e ho paura che non ci sia una soluzione a
questa contraddizione. Una delle cose terribili di questo inizio del secolo XXI
è che non ci sono soluzioni già date, dobbiamo vivere nelle contraddizioni di
questa società avendo la sensibilità e la capacità di concentrare gli sforzi
laddove si presentano delle occasioni e delle tensioni. Non abbiamo il quadro
completo di una alternativa complessiva, ma solo piccole tessere per comporre
un mosaico tutto da inventare.
Chi è impegnato a trasformare il mondo spesso si dedica poco a negoziare
con ciò che già esiste, elabora teorie sofisticate, incomprensibili per la
maggior parte dei cittadini. A nessuno interessa se Laclau è post-kantiano
o post-marxista: è più rilevante capire se Laclau può darti qualche
chiave per orientarti in una situazione in cui si può dare battaglia nel campo
della democrazia rappresentativa. Se ti aiuta a comprendere quale può essere il
soggetto della trasformazione. Voglio dire che alcune discussioni, anche se
vogliono essere rivoluzionarie, alla fine mostrano una certa dimensione
conservatrice, perché non cambiano assolutamente niente, non producendo
accumulazione nemmeno nel medio e nel lungo periodo. Mi inquieta il fatto che
una forza politica che agisce nel 2015 debba basarsi su autori di quasi 100
anni fa, come Gramsci, perché questo significa che nel frattempo non è abbiamo
elaborato categorie utili a ripensare la nostra condizione.
Ma non è del tutto così: penso a Boaventura Sousa Santos, un
pensatore che viene dal marxismo, che ne ha compreso i limiti e ha imparato a
ricostruire il suo apparato teorico a partire dalla sua esperienza nei
movimenti sociali. Boaventura è fondatore del Foro Sociale Mondiale e ha molti
contatti con i movimenti sociali in America Latina e in Africa. E ovviamente in
Europa. Credo che questo gli abbia permesso di avere una visione complessa, la
cui teoria parte dalle lotte concrete, e mi sembra ben più interessante di
Laclau e del suo significante vuoto che non mi ha mai convinto. Contro Chavez
hanno tentato un golpe non perché era un significante vuoto, ma perché era un
significante pieno! Rispetto al significante vuoto preferisco l’idea di traduzione:
Boaventura sostiene che bisogna far discutere le diversità, mettere in
relazioni i punti di scontro e di incontro per rendere intellegibili le lotte.
E questa idea di traduzione ha molto a che vedere con ciò che ho detto a
proposito di riforma, rivoluzione e ribellione, per pensare la possibilità di
tradurre le lotte. In fondo, noi progressisti abbiamo un vantaggio rispetto ai
conservatori ed è l’ottimismo della volontà. Come diceva Pessoa, non sappiamo
perché, ma ogni notte la luce della luna illumina l’erba sui campi. C’è un
lampo nella notte che illumina le cose: la fiducia nell’essere umano è
ciò che ci permette di non darci per vinti. Veniamo da tante
sconfitte, ma non siamo sconfitti. E credo che questa sorta di tragico
ottimismo, questo pessimismo pieno di speranza, non abbia una fonte teorica, ma
nasca dalla quotidianità. Per questo dobbiamo recuperare l’allegria della vita,
perché le passioni tristi alimentano solamente l’egemonia conservatrice.
Per concludere sull’attualità, ribadisco che abbiamo fatto Podemos con
l’obiettivo di fare irruzione nel parlamento spagnolo, dare battaglia per il
governo. Abbiamo bisogno di un processo costituente, e lo abbiamo messo al
centro della nostra proposta politica. In questo lungo anno e mezzo in cui esiste
Podemos, siamo stati sottoposti a centinaia di attacchi. Ci hanno descritto
come utopisti, hanno detto che le nostre proposte sono irreali perché
proponiamo il reddito garantito, il processo costituente, la difesa dei diritti
umani, la costituzionalizzazione dei diritti sociali. Dobbiamo essere capaci di
recuperare per queste elezioni la freschezza che avevamo all’inizio, dobbiamo
essere capaci di tornare a emozionare, di mettere al centro la
possibilità della trasformazione. Nonostante da un anno e mezzo abbiamo
tutti contro, siamo ancora qui. Rivoluzione significa rendere possibile
l’impossibile, non va intesa solo come cambiamento violento. E se ogni
rivoluzione ha come preludio un grande dibattito, che per noi è rappresentato
dalla potenza del 15M, occorre recuperare in primis questa dimensione
deliberativa ed affrontare le elezioni come un grande dibattito. Per questo,
dato che Podemos è già un riferimento consolidato, siamo disponibili a
completare le liste con candidature di unità popolare, con la formula Podemos -
Madrid en Comùn, affinché possiamo tenere assieme differenti esperienze in base
alla tensione di cui ho parlato prima, tra dispositivo elettorale e movimenti,
mantenendo la vocazione all’unità popolare.
*l'intervista è stata realizzata durante la scuola estiva di Euronomade, tenutasi a Roma, presso Officine Zero, dal 10 al 13
settembre 2015