di Carlo Formenti
pur
se convertita in una tecnologia di controllo sociale, la Rete resta ancora il
contesto dove poter immaginare una politica di riappropriazione della ricchezza?
Può essere immaginata come un modello alternativo di organizzazione politica? “Immaginare è sempre lecito - risponde nella
sua recensione Formenti al saggio di Benedetto Vecchi - resta da stabilire se,
prima di assumere la Rete a modello, anche solo immaginario, non convenga
appurare se gli algoritmi che governano lo spazio dei flussi siano strumenti
neutri, dei quali basterebbe riappropriarsi per rovesciarne senso e funzione”
Fare
i conti con la Rete vuol dire addentrarsi su un terreno scivoloso, dove i
limiti della cassetta degli attrezzi dell’autore di turno vengono
impietosamente evidenziati. Non sfugge alla regola il saggio di Benedetto
Vecchi, La Rete dall’utopia al mercato (manifestolibri - ecommons,
2015). Vecchi non affronta di petto il tema annunciato dal titolo, ma tenta
di farlo emergere progressivamente, costruendo un mosaico fatto di decine di
tessere, ognuna delle quali prende in esame le idee di uno dei tanti autori che
si sono occupati di Internet dagli anni Novanta a oggi. Evitando di seguirlo su
questo terreno, mi concentrerò sui nodi fondamentali del suo discorso e, per
agevolare il compito al lettore, anticipo il punto di vista da cui prende le
mosse la mia analisi critica: le tesi postoperaiste – campo teorico nel quale
si inscrive il contributo di Vecchi – scontano, fra le altre, tre evidenti
aporie associate alla nostalgia nei confronti di altrettanti “paradisi
perduti”.
Il
primo lutto è ascrivibile alla perdita delle speranze – stroncate dall’uso
capitalistico dell’innovazione digitale – che l’utopia hacker aveva
suscitato fra la seconda metà degli anni Novanta e i primi anni del Duemila.
Del resto il distacco di Vecchi da ciò che avrebbe potuto essere e non è stato
(l’utopia che si è fatta mercato) non è mai definitivo, per cui il retrogusto
di quella speranza, ancorché fondata oramai solo sull’immaginario, continua ad
aleggiare fra le righe, smentendo il senso del titolo. Il secondo lutto mancato
si riferisce a un evento ben più lontano nel tempo ma ancora tanto attuale da
sovradeterminare ogni passaggio del discorso: in barba alle impietose smentite
della storia, i postoperaisti (né Vecchi fa eccezione) restano abbarbicati al
dogma secondo cui il lavoro vivo, lungi dall’essere oggetto passivo
dell’accumulazione capitalistica, ne determina costantemente la direzione di
sviluppo. Di qui il disorientamento per il venir meno di una figura centrale
dell’antagonismo di classe quale è stato l’operaio massa, e il tentativo di
riesumarne la funzione raggruppando le proliferanti identità del nuovo
proletariato sotto la categoria di moltitudine. Infine il terzo lutto mancato,
il più paradossale, nella misura in cui riguarda un approccio teorico che
dichiara d’aver preso congedo dalla dialettica storicista: mi riferisco al
persistente riferimento alla tesi marxiana secondo cui la contraddizione fra
sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione è destinata a
raggiungere il punto di rottura nel momento in cui la potenza del general
intellect divenga tale da svelare la “miseria” della legge del valore
– momento che si ritiene superato con l’avvento dell’economia della conoscenza.
Questo evento, che negli anni Sessanta e Settanta veniva inquadrato nel
concetto di tendenza, viene ora considerato come pienamente realizzato, al
punto da determinare la forma stessa degli attuali rapporti di produzione, i
quali possono apparirci ancora capitalisti solo in ragione della costituiva
ambivalenza della realtà sociale in cui viviamo. Vediamo ora di districare i tre
nodi in questione seguendo l’ordine appena elencato.
A
tratti Vecchi sembra ammettere che la transizione dall’utopia al mercato (che
personalmente definirei come la metamorfosi dell’originaria
narrativa hacker – fondata sui principi della condivisione delle
conoscenze e della collaborazione competitiva fra tecnici informatici
professionali e amatoriali – nell’attuale narrativa neomanageriale)
è un processo compiuto e irreversibile. Ciò avviene, per esempio, laddove
afferma che, dietro a un cybercapitalismo che si basa sulle
nuove tipologie di “lavoro libero”, si annida in realtà un modo di produzione
in cui l’unica libertà concessa resta quella di vendere la propria forza
lavoro. Oppure laddove allude al “patto luciferino” che lega imprese e professional,
accomunati da un unico obiettivo: garantire una crescita di produttività in
grado di tradursi in costante aumento del valore delle azioni (passaggio in cui
si avverte un’eco delle tesi di Dardot e Laval sulla costruzione dell’homo
competitivus come soggetto antropologico neoliberista). O infine
laddove, nel contesto di un’analisi del mondo Apple, si parla di convivenza fra
forme di lavoro servile e militarizzato con i knowledge workers e
la potenza della cooperazione sociale messa a profitto (colpisce però la
mancata analisi del conflitto di interessi fra questi diversi strati di
classe).
Eppure
Vecchi non riesce a dare per chiusa la partita. Al contrario: è evidente come
restino potenti le seduzioni che continua a subire sia da parte delle sirene
anarcocapitaliste di Yochai Benkler, sia degli annunci di democrazia diretta e
partecipativa di Manuel Castells (il guru della “autocomunicazione di massa”).
Così, quando si misura con il discorso di Benkler, non resta insensibile alla
tesi secondo cui il fatto che la conoscenza sia divenuta il principale mezzo di
produzione comporterebbe automaticamente la messa in discussione della sua
appropriazione privata. Per Benkler – che rivendica esplicitamente la propria
vicinanza alle visioni “libertariane” degli anarco capitalisti – ciò significa
postulare la possibile transizione a un “capitalismo senza proprietà”, fondato
sulla cooperazione/competizione fra piccoli produttori indipendenti,
disponibili a condividere conoscenze sulla base di un’inedita economia del dono.
Vecchi, pur non sposando esplicitamente tale tesi, sembra concordare sul fatto
che le strategie di enclosure dei beni immateriali “non
riescono a bloccare la condivisone del sapere in quanto tratto distintivo di
Internet”. Al contempo tenta di tradurre la visione di Benkler nel lessico
marxiano, postulando “l’intrinseca eccedenza” di saperi e conoscenze rispetto
alle norme imposte dai rapporti di produzione vigenti.
Come
conciliare queste oscillazioni con la presa d’atto della resa dell’utopia
hacker al patto luciferino con il capitale? Semplice: basta postulare
la “assoluta ambivalenza” dell’attitudine hacker. Ambivalenza che viene
chiamata in causa anche laddove Vecchi, dialogando con Castells, ne rilancia
l’idea secondo cui “lo spazio dei flussi” (cioè lo spazio virtuale delle
relazioni sociali mediate dalla Rete) sarebbe il contesto in cui “prendono
forma nuove procedure per la decisione politica al di fuori del monopolio dello
stato”. Eppure Vecchi non ignora le analisi critiche – che cita del resto
ampiamente – di Evgenj Morozov e altri autori (compreso il sottoscritto) nei
confronti della presunta vocazione democratica della Rete; ciò non gli
impedisce di sostenere che, pur essendosi convertita in una tecnologia di
controllo sociale, la Rete resterebbe il contesto dove poter immaginare sia una
politica di riappropriazione della ricchezza sia un modello alternativo di
organizzazione politica. Immaginare è sempre lecito, resta da stabilire se,
prima di assumere la Rete a modello, anche solo immaginario, non convenga
appurare se gli algoritmi che governano lo spazio dei flussi siano strumenti
neutri, dei quali basterebbe riappropriarsi per rovesciarne senso e funzione
(ma di questo più avanti).
Passiamo
al secondo nodo. L’idea che la direzione di sviluppo dell’accumulazione
capitalista sia interamente determinata dalla necessità di superare la
resistenza operaia, è un dogma fondativo dell’operaismo, per cui si capisce
come risulti difficile prendere atto della disfatta del lavoro vivo nei
decenni successivi al ciclo di lotte conclusosi con gli anni Settanta. Pur di
non riconoscere che l’inversione del rapporto di forze fra lavoro vivo e
capitale è stato il frutto storicamente determinato e contingente del modello
produttivo fordista, ci si è arrampicati sugli specchi per identificare, di
volta in volta, nuove figure in grado di incarnare la tendenza: operaio
sociale, lavoratori della conoscenza, lavoro autonomo di seconda generazione
sono stati variamente convocati per recitare la parte del nuovo soggetto in
grado di esercitare pratiche autonome di “autovalorizzazione”.
Di
fronte all’irriducibile polimorfismo della nuova forza lavoro globale, invece
di analizzarne nei dettagli la composizione, stabilendo una gerarchia fra i
diversi strati in base al tasso di antagonismo praticato (e non virtuale!), si
è preferito ricorrere alla categoria passepartout di moltitudine. Un concetto
privo di ogni concreta determinazione sociale e politica, in cui si tenta di
insufflare vita definendone un’improbabile identità produttiva. Ciò emerge con
particolare chiarezza quando ci si misura con la sfida della produzione in
Rete, e infatti Vecchi – consapevole dell’impossibilità di attribuire un ruolo
di “avanguardia” alle addomesticatissime schiere dei knowledge workers impiegati
nel ciclo high tech – se la cava estendendo illimitatamente il concetto di
lavoro cognitivo, per cui la totalità delle relazioni sociali mediate dalla
Rete diventa cooperazione sociale produttiva di saperi sans phrase.
Peccato che il concetto di produttività sociale diffusa - assieme a quello
secondo cui l’accumulazione originaria non è un evento storico puntuale, bensì
un processo ricorsivo di estensione degli ambiti di vita subordinati al
rapporto di capitale – siano stati tematizzati da Marx secoli prima dalla
rivoluzione digitale né costituiscano, di per sé, il presupposto di un processo
di soggettivazione antagonista (ma sono al contrario utilizzabili, vedi Dardot
e Laval, come materiali per la costruzione del soggetto neoliberista).
Veniamo
ora al terzo nodo, il più aggrovigliato, per cui sarò costretto ad accennarvi
sinteticamente semplificando drasticamente i termini della questione. Come ho
già sostenuto in scritti precedenti, sono convinto che, se c’è una categoria
marxiana che occorre relegare in soffitta, è proprio quella della presunta
contraddizione fra forze produttive e rapporti di produzione. Residuo di una
visione hegeliana della storia, e di una fiducia positivista nel ruolo
progressivo della scienza e della tecnica, tale visione, tanto ottimista da
avvicinarsi pericolosamente a una teoria del crollo, dovrebbe apparire superata
a chiunque abbia nutra una sia pur minima consapevolezza che le innovazioni
scientifiche e tecnologiche, non solo non sfuggono alla sovradeterminazione da
parte dei rapporti di dominio della classe capitalistica sulle classi
subordinate, ma li incarnano in modo diretto ed esplicito.
Non
lo hanno compreso Lenin e Gramsci, affascinati dall’organizzazione
“scientifica” del lavoro, al punto da vedere nel fordismo/taylorismo uno
strumento di cui il proletariato avrebbe potuto impadronirsi per volgerlo ai
propri fini. Non lo capiscono i postoperaisti che, in alcuni scritti raccolti
nel volume Gli
algoritmi del capitale (ombre corte, 2014), arrivano a teorizzare
che gli algoritmi che governano i flussi dei dati in Rete non sono “del”
capitale perché ne incarnano la logica di razionalizzazione e dominio della
produzione sociale, ma solo perché i rapporti di forza impediscono ai
lavoratori della conoscenza di farne buon uso.
Non
lo capisce Vecchi, il quale partendo dal presupposto neoschumpeteriano che
l’innovazione - nella misura in cui è oggi frutto di un processo collettivo e
sociale – sia di per sé positiva, denuncia il tentativo di stati e imprese di
frenarla e dirottarla dagli indirizzi che tenderebbe a seguire spontaneamente
ove “liberata” dalla governance capitalista. Dal che discende che “la mossa
migliore è sempre quella di stare dentro e contro il regine di accumulazione
capitalistico”. Detto altrimenti: l’ambivalenza dell’attuale modo di produrre
genera continuamente le condizioni del suo superamento. Con buona pace del
detto gramsciano che invita ad associare l’ottimismo della volontà al pessimismo
della ragione.