mercoledì 24 giugno 2015

Adam Smith a Gioia Tauro: “questione meridionale” e spazio europeo

di Francesco Festa -

In questa nostra libera riduzione si mette in risalto -crediamo- la critica contenuta nel contributo dell’autore, cioè il rischio della “spazialità” come metodo, non solo perché presta il fianco ad un determinismo geografico identitario, dal quale non emergono le dinamiche economiche che incidono sui processi globalizzati di accumulazione e che hanno ben altra dimensione politica rispetto alla pianificazione delle sovranità nazionali dello scorso secolo, ma non  favorisce parimenti la costruzione di un nuovo internazionalismo proletario.

1.  A cosa ci riferiamo quando parliamo di subalternità? E quale campo semantico o geografico interroghiamo nel nominare la nozione “Sud”?
In entrambi i casi segnaliamo l’urgenza di una cultura “altra”, se non di una «rottura epistemologica», di fratturare il rapporto egemonico con la razionalità occidentale e la cultura borghese. (…) Subalternità, cultura e identità sono spazi discorsivi in cui si esercita un certo tipo di potere e al cui sfondo si situa una nozione che solleva una molteplicità di “questioni”, ancorché sia una nozione dal carattere tanto geografico quanto giuridico-politico: i “Sud”. Sgombriamo il campo da fraintendimenti. Nel momento in cui si parla di “Sud”, che sia il Mezzogiorno d’Italia o il Sud d’Europa oppure genericamente i sud del Mondo, non si può trascurarne né la temporalità, né la spazialità. La posizione geografica non fa l’unità delle regioni meridionali; né tantomeno la condizione di assoggettamento determina un’identità culturale; e d’altro canto, le lotte asimmetriche nei paesi del Sud o nelle periferie non sono di fatto elementi che assommati aritmeticamente possano diventare denominatore comune di un’insubordinazione con orizzonte meridiano …  Per quanto riguarda il Sud d’Italia, diciamo subito che le cose non stanno e non possono stare così. Non pochi scrittori e attivisti si sono cimentati in una “revisione” della storia del Mezzogiorno che, seppur generosa e ricca di apodittiche affermazioni e toni indignati quanto povera di ricerche atte a comprovare la funzione anti-risorgimentale, interroga immediatamente l’“identità italiana” dell’oggi, portandola dritto dritto al 1861, quasi che l’intera storia derivi da lì, così da riabilitare come “glorioso” il periodo borbonico interrotto dall’“invasione” e dall’occupazione piemontesi (...)
Dunque, trascurare la «politica del sapere», l’amministrazione e il potere esercitati su un certo territorio lascia in un’astrattezza giuridico-politica. Non cogliendo le difformità del comando nell’«economia-mondo», le differenze fra imperialismi nello spazio imperiale, si genera solamente confusione con associazioni d’idee seppur affascinanti. (...).Nondimeno lascia molti dubbi l’idea di una sommatoria dei conflitti o della scintilla che incendi la prateria, a partire dai paesi meridionali. È un metodo che in realtà risente degli echi del Novecento, se non addirittura dell’età delle «rivoluzioni borghesi». In compenso, l’Internazionalismo proletario ci consegna l’immaginazione e la cooperazione delle lotte quali vettori per la nascita di organizzazioni in difesa degli interessi proletari e come deterrenti contro la guerre tra “nazioni borghesi”. Che non traeva forza dalla posizione geografica, bensì dagli interessi e dalla «potenzialità» della forza lavoro.


2. Traduciamo la “questione meridionale” in questione europea. Osservando i dati dei Fondi europei per la coesione degli ultimi quindici anni notiamo come il divario fra le regioni del Nord e quelle del Sud d’Europa, anziché diminuire, sia cresciuto, contribuendo ad accelerare e radicalizzare un processo di vera e propria scomposizione dello spazio europeo*. Nei Fondi, rinnovati per il settennato apertosi nel 2014, non appaiono chiaramente gli obiettivi. Viene sottolineato a più riprese il «riscatto della qualità dell’azione pubblica nel Mezzogiorno» tramite l’utilizzo delle «Politiche di coesione», con riferimento a generiche «best practice», a «comportamenti» e «condotte». Sullo sfondo, lo scopo sarebbe la formazione di una classe dirigente e di un complesso di attività direzionali di gestione e organizzazione delle aziende pubbliche (management) che rispondano alla nuova ragione universale, quella presupposta dalla razionalità neoliberale come entità astratta permanente, ossia la «generalizzazione della concorrenza come norma di comportamento e dell’impresa come modello di soggettivizzazione»[P.Dardot/C.Laval].
(…) Nell’analisi del «pacchetto legislativo sulla politica di coesione 2014-2020» emerge direttamente dalle voci di finanziamento quale sia la funzione dei discorsi di sviluppo e di crescita all’interno dei meccanismi di governance*, ossia una funzione materiale e politica dei processi di accumulazione. In particolare, oltre alle “solite” voci sull’efficienza e la semplificazione della Pubblica Amministrazione, 23,4 mld verranno destinati nei prossimi 7 anni principalmente a due settori: la formazione di forza lavoro specializzata (cognitiva) e la valorizzazione del territorio (infrastrutture, in particolare web) e dell’ambiente. Tradotto nel Mezzogiorno italiano: saranno finanziati progetti di espropriazione di risorse naturali … e l’accumulazione tramite la formazione del lavoro vivo. Vale a dire: l’inaugurazione di nuovi insediamenti industriali; le bonifiche ambientali in Campania, a seguito del decreto legge “Terra dei fuochi”; l’estrazione di idrocarburi (in Basilicata e Campania ma anche, a macchia di leopardo, in altre regioni del Meridione d’Italia); e la formazione (universitaria, post-universitaria, corsi regionali, stage, ecc.), destinata alle regioni d’Europa che ne avranno bisogno e che potranno assorbirne le specializzazioni.
A chi giova il rapporto sviluppo/sottosviluppo e la dialettica dentro/fuori? Anzitutto va detto che dal 2000 al 2014 i Fondi comunitari hanno garantito un certo grado di subalternità al discorso egemone dell’unione, della costituzione e dell’integrazione dello spazio europeo; nel frattempo hanno incanalato la mobilità della forza lavoro meridionale all’interno di uno sviluppo complessivo del mercato europeo. In questo modo, la dualità sviluppo/sottosviluppo non è stata superata, bensì integrata nel sistema europeo. Non più il Sud d’Europa come rapporto esterno, ma come rapporto interno allo sviluppo. In altri termini: l’unificazione capitalistica dell’Europa come «dominio capitalistico totalizzante di uno specifico rapporto sociale e politico»*. Dunque, il mercato europeo funziona grazie al rapporto sviluppo/sottosviluppo che attiva delle variabili di accumulazione indispensabili: «fonti di approvvigionamento» di lavoro vivo a basso costo, «mercati di sbocco» e di «accumulazione di plusvalore». La “questione meridionale” è così diventata questione europea. E chissà quanti meridionalisti hanno speso fiumi d’inchiostro a favore di questa svolta, auspicando dapprima il suo divenire italiana e poi europea, per approdare infine al suo superamento. Pie illusioni di uno storicismo d’altri tempi.
In realtà, sviluppo e sottosviluppo sono condizioni strutturali del capitalismo. Tramite la messa a valore degli angoli “arretrati” del mercato europeo, gli scarti temporali garantiscono un’estrazione violenta di rendita e profitto; provano continuamente a imbrigliare la mobilità della forza lavoro; intersecano la classe, la «linea del colore» e i dispositivi di genere, nel tentativo di ricostruire il rapporto di sfruttamento e la sua capacità di valorizzazione; e favoriscono nuove accumulazioni sulla cooperazione e sul lavoro vivo (…). È andata così costituendosi una cittadinanza europea fatta non tanto e non solo in senso binario (Sud/Nord, centro/periferia, modernità/arretratezza), dove la spazialità ormai non cartografa più gli angoli attardati e quelli sviluppati, ma una cittadinanza in cui lo sviluppo convive accanto al sottosviluppo in un sistema più largo, molteplice e integrato (…).
Se finora le politiche comunitarie hanno consentito l’integrazione del sottosviluppo nello sviluppo, il prossimo settennato servirà alla formazione di forza lavoro specializzata nelle regioni periferiche e “poco sviluppate”; al controllo della mobilità della forza lavoro verso i mercati “avanzati” dell’UE, in particolare verso il mercato tedesco; e all’apertura di processi violenti di «accumulazione per spoliazione» nelle regioni “arretrate”, come ricostruzione del rapporto di sfruttamento, secondo una logica estrattiva.
(…) vale brevemente la pena analizzare un altro caso di «enclave» e «zona economica speciale» per eccellenza, all’interno dello spazio europeo: il porto di Gioia Tauro. Qui è difficile parlare di periferia o di Sud Europa oppure di zona “arretrata”, allorché su questi cliché si staglia non la marginalità e l’eccezione ma la realtà della globalizzazione capitalistica. Il porto di Gioia Tauro è uno dei punti più alti dell’accumulazione capitalistica e del flusso di merci globale; e la zona circostante è un contenitore esplosivo di sfruttamento, tensioni, attriti e conflitti. La sua condizione di frontiera contraddistingue una sovranità ambivalente. Il flusso di merci ne istituisce gli spazi caratterizzati dalla «confusione tra legale e illegale, pubblico e privato, disciplinato e selvaggio». Così, in una manciata di chilometri, in una delle tante periferie dell’Europa ormai assurta a ventre della bestia, è concentrata tutta la violenza del capitale: processi di sfruttamento del lavoro vivo, di estrazione di profitto e di finanziarizzazione; e un pò più in là, nella Piana di Gioia Tauro, la brutalità dell’inclusione differenziale: lo sfruttamento “schiavistico” e la ghettizzazione della forza lavoro migrante.

3. Parafrasando un classico di Giovanni Arrighi, forse sarebbe necessario mandare Adam Smith a Gioia Tauro. Cosa vuol dire questo? E che cosa ci dicono quelle coordinate che abbiamo provato a rincorrere e riacciuffare nel corso di queste analisi? Queste domande in realtà ci aprono le porte a quelle sfide che rimandano alla comunicabilità delle differenze e alla traducibilità delle lotte; al ripensamento radicale della politica della traduzione delle lotte, tanto a livello europeo quanto a livello globale. Non si tratta di andare da una lingua a un’altra tenendo ferma la barra delle coordinate Nord/Sud, centro/periferia, che solo a pronunciarle farebbero idealmente alleare i subalterni meridionali. Questo tipo di traduzione non tiene conto dei processi di accumulazione, delle forme di sfruttamento, dei differenti livelli della lotta di classe e dell’eterogeneità degli stessi “Sud”. Certo, una sorta di “geografia della percezione” potrebbe essere uno strumento tra i tanti di una politica della traduzione delle lotte. Tuttavia non va trascurato come all’interno delle periferie pulsi il cuore della bestia: alti livelli di accumulazione così come violente forme di sfruttamento; e come nel centro della finanza internazionale convivano pratiche di precarietà e povertà. Si tratta di una traduzione che di fatto non passa più soltanto per la lingua della spazialità. Ma al contempo va preso atto come le politiche nello spazio europeo proprio tramite la retorica del sottosviluppo, i proclami sul rigore, i discorsi orientalistici, abbiano ormai riconfigurato i processi di accumulazione, il mercato del lavoro, la mobilità dello sfruttamento, la formazione di sacche da cui attingere «mezzi di produzione» e dove praticare nuove forme di «accumulazione originaria».
Tentare di sperimentare la traducibilità fra subalternità eterogenee, ad esempio nei paesi del Sud d’Europa, significa creare ambiti di connessione e di comunicazione di «contro-condotte», di esperienze di solidarietà e di resistenza, nuove forme di sindacalismo e di mutualismo fra classi subalterne; e individuare dei momenti, dei punti e dei luoghi di accumulo in cui misurare i rapporti di forza. Attingendo dal “cantiere” gramsciano, varrebbe forse la pena di interrogarsi sul come produrre «egemonia» in grado di divenire discorso pubblico. Che tenga insieme pratiche conflittuali e consenso sempre più largo: «egemonia» in grado di parlare la lingua delle subalternità e di creare un «sistema di alleanze di classe» che consentano di «mobilitare contro il capitalismo», e contro la cultura e la solitudine neoliberiste, la «maggioranza» di quell’eterogeneità precaria all’interno dello spazio europeo.

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