di Francesco Festa -
In questa nostra libera riduzione si mette
in risalto -crediamo- la critica contenuta nel contributo dell’autore, cioè il
rischio della “spazialità” come metodo, non solo perché presta il fianco ad un
determinismo geografico identitario, dal quale non emergono le dinamiche
economiche che incidono sui processi globalizzati di accumulazione e che hanno
ben altra dimensione politica rispetto alla pianificazione delle sovranità
nazionali dello scorso secolo, ma non favorisce parimenti la costruzione di un nuovo
internazionalismo proletario.
1. A
cosa ci riferiamo quando parliamo di subalternità? E quale campo semantico o
geografico interroghiamo nel nominare la nozione “Sud”?
In entrambi i casi segnaliamo l’urgenza di una cultura “altra”, se non di una «rottura epistemologica», di fratturare il rapporto egemonico con la razionalità occidentale e la cultura borghese. (…) Subalternità, cultura e identità sono spazi discorsivi in cui si esercita un certo tipo di potere e al cui sfondo si situa una nozione che solleva una molteplicità di “questioni”, ancorché sia una nozione dal carattere tanto geografico quanto giuridico-politico: i “Sud”. Sgombriamo il campo da fraintendimenti. Nel momento in cui si parla di “Sud”, che sia il Mezzogiorno d’Italia o il Sud d’Europa oppure genericamente i sud del Mondo, non si può trascurarne né la temporalità, né la spazialità. La posizione geografica non fa l’unità delle regioni meridionali; né tantomeno la condizione di assoggettamento determina un’identità culturale; e d’altro canto, le lotte asimmetriche nei paesi del Sud o nelle periferie non sono di fatto elementi che assommati aritmeticamente possano diventare denominatore comune di un’insubordinazione con orizzonte meridiano … Per quanto riguarda il Sud d’Italia, diciamo subito che le cose non stanno e non possono stare così. Non pochi scrittori e attivisti si sono cimentati in una “revisione” della storia del Mezzogiorno che, seppur generosa e ricca di apodittiche affermazioni e toni indignati quanto povera di ricerche atte a comprovare la funzione anti-risorgimentale, interroga immediatamente l’“identità italiana” dell’oggi, portandola dritto dritto al 1861, quasi che l’intera storia derivi da lì, così da riabilitare come “glorioso” il periodo borbonico interrotto dall’“invasione” e dall’occupazione piemontesi (...).
In entrambi i casi segnaliamo l’urgenza di una cultura “altra”, se non di una «rottura epistemologica», di fratturare il rapporto egemonico con la razionalità occidentale e la cultura borghese. (…) Subalternità, cultura e identità sono spazi discorsivi in cui si esercita un certo tipo di potere e al cui sfondo si situa una nozione che solleva una molteplicità di “questioni”, ancorché sia una nozione dal carattere tanto geografico quanto giuridico-politico: i “Sud”. Sgombriamo il campo da fraintendimenti. Nel momento in cui si parla di “Sud”, che sia il Mezzogiorno d’Italia o il Sud d’Europa oppure genericamente i sud del Mondo, non si può trascurarne né la temporalità, né la spazialità. La posizione geografica non fa l’unità delle regioni meridionali; né tantomeno la condizione di assoggettamento determina un’identità culturale; e d’altro canto, le lotte asimmetriche nei paesi del Sud o nelle periferie non sono di fatto elementi che assommati aritmeticamente possano diventare denominatore comune di un’insubordinazione con orizzonte meridiano … Per quanto riguarda il Sud d’Italia, diciamo subito che le cose non stanno e non possono stare così. Non pochi scrittori e attivisti si sono cimentati in una “revisione” della storia del Mezzogiorno che, seppur generosa e ricca di apodittiche affermazioni e toni indignati quanto povera di ricerche atte a comprovare la funzione anti-risorgimentale, interroga immediatamente l’“identità italiana” dell’oggi, portandola dritto dritto al 1861, quasi che l’intera storia derivi da lì, così da riabilitare come “glorioso” il periodo borbonico interrotto dall’“invasione” e dall’occupazione piemontesi (...).
Dunque, trascurare la «politica del
sapere», l’amministrazione e il potere esercitati su un certo territorio lascia
in un’astrattezza giuridico-politica. Non cogliendo le difformità del comando
nell’«economia-mondo», le differenze fra imperialismi nello spazio imperiale,
si genera solamente confusione con associazioni d’idee seppur affascinanti. (...).Nondimeno lascia molti dubbi l’idea di una sommatoria dei conflitti o della
scintilla che incendi la prateria, a partire dai paesi meridionali. È un metodo
che in realtà risente degli echi del Novecento, se non addirittura dell’età
delle «rivoluzioni borghesi». In compenso, l’Internazionalismo proletario ci
consegna l’immaginazione e la cooperazione delle lotte quali vettori per la
nascita di organizzazioni in difesa degli interessi proletari e come deterrenti
contro la guerre tra “nazioni borghesi”. Che non traeva forza dalla posizione
geografica, bensì dagli interessi e dalla «potenzialità» della forza lavoro.
2. Traduciamo la
“questione meridionale” in questione europea. Osservando i dati dei Fondi
europei per la coesione degli ultimi quindici anni notiamo come il divario
fra le regioni del Nord e quelle del Sud d’Europa, anziché diminuire, sia
cresciuto, contribuendo ad accelerare e radicalizzare un processo di vera e
propria scomposizione dello spazio europeo*. Nei Fondi, rinnovati per il settennato
apertosi nel 2014, non appaiono chiaramente gli obiettivi. Viene sottolineato a
più riprese il «riscatto della qualità dell’azione pubblica nel Mezzogiorno»
tramite l’utilizzo delle «Politiche di coesione», con riferimento a generiche «best
practice», a «comportamenti» e «condotte». Sullo sfondo, lo scopo sarebbe
la formazione di una classe dirigente e di un complesso di attività direzionali
di gestione e organizzazione delle aziende pubbliche (management) che
rispondano alla nuova ragione universale, quella presupposta dalla razionalità
neoliberale come entità astratta permanente, ossia la «generalizzazione della
concorrenza come norma di comportamento e dell’impresa come modello di
soggettivizzazione»[P.Dardot/C.Laval].
(…) Nell’analisi del
«pacchetto legislativo sulla politica di coesione 2014-2020» emerge
direttamente dalle voci di finanziamento quale sia la funzione dei discorsi di
sviluppo e di crescita all’interno dei meccanismi di governance*, ossia una funzione materiale e politica
dei processi di accumulazione. In particolare, oltre alle “solite” voci
sull’efficienza e la semplificazione della Pubblica Amministrazione, 23,4 mld
verranno destinati nei prossimi 7 anni principalmente a due settori: la
formazione di forza lavoro specializzata (cognitiva) e la valorizzazione del
territorio (infrastrutture, in particolare web) e dell’ambiente. Tradotto nel
Mezzogiorno italiano: saranno finanziati progetti di espropriazione di risorse
naturali … e l’accumulazione tramite la formazione del lavoro vivo. Vale a
dire: l’inaugurazione di nuovi insediamenti industriali; le bonifiche
ambientali in Campania, a seguito del decreto legge “Terra dei
fuochi”; l’estrazione di idrocarburi (in Basilicata e Campania ma anche, a
macchia di leopardo, in altre regioni del Meridione d’Italia); e la formazione
(universitaria, post-universitaria, corsi regionali, stage, ecc.), destinata
alle regioni d’Europa che ne avranno bisogno e che potranno assorbirne le
specializzazioni.
A chi giova il rapporto
sviluppo/sottosviluppo e la dialettica dentro/fuori? Anzitutto va detto che dal
2000 al 2014 i Fondi comunitari hanno garantito un certo grado di subalternità
al discorso egemone dell’unione, della costituzione e dell’integrazione dello
spazio europeo; nel frattempo hanno incanalato la mobilità della forza lavoro
meridionale all’interno di uno sviluppo complessivo del mercato europeo. In
questo modo, la dualità sviluppo/sottosviluppo non è stata superata, bensì
integrata nel sistema europeo. Non più il Sud d’Europa come rapporto esterno,
ma come rapporto interno allo sviluppo. In altri termini: l’unificazione
capitalistica dell’Europa come «dominio capitalistico totalizzante di uno
specifico rapporto sociale e politico»*. Dunque, il mercato europeo funziona
grazie al rapporto sviluppo/sottosviluppo che attiva delle variabili di
accumulazione indispensabili: «fonti di approvvigionamento» di lavoro vivo a
basso costo, «mercati di sbocco» e di «accumulazione di plusvalore». La
“questione meridionale” è così diventata questione europea. E chissà quanti
meridionalisti hanno speso fiumi d’inchiostro a favore di questa svolta,
auspicando dapprima il suo divenire italiana e poi europea, per approdare
infine al suo superamento. Pie illusioni di uno storicismo d’altri tempi.
In realtà, sviluppo e sottosviluppo sono condizioni strutturali del capitalismo. Tramite la messa a valore degli angoli “arretrati” del mercato europeo, gli scarti temporali garantiscono un’estrazione violenta di rendita e profitto; provano continuamente a imbrigliare la mobilità della forza lavoro; intersecano la classe, la «linea del colore» e i dispositivi di genere, nel tentativo di ricostruire il rapporto di sfruttamento e la sua capacità di valorizzazione; e favoriscono nuove accumulazioni sulla cooperazione e sul lavoro vivo (…). È andata così costituendosi una cittadinanza europea fatta non tanto e non solo in senso binario (Sud/Nord, centro/periferia, modernità/arretratezza), dove la spazialità ormai non cartografa più gli angoli attardati e quelli sviluppati, ma una cittadinanza in cui lo sviluppo convive accanto al sottosviluppo in un sistema più largo, molteplice e integrato (…).
In realtà, sviluppo e sottosviluppo sono condizioni strutturali del capitalismo. Tramite la messa a valore degli angoli “arretrati” del mercato europeo, gli scarti temporali garantiscono un’estrazione violenta di rendita e profitto; provano continuamente a imbrigliare la mobilità della forza lavoro; intersecano la classe, la «linea del colore» e i dispositivi di genere, nel tentativo di ricostruire il rapporto di sfruttamento e la sua capacità di valorizzazione; e favoriscono nuove accumulazioni sulla cooperazione e sul lavoro vivo (…). È andata così costituendosi una cittadinanza europea fatta non tanto e non solo in senso binario (Sud/Nord, centro/periferia, modernità/arretratezza), dove la spazialità ormai non cartografa più gli angoli attardati e quelli sviluppati, ma una cittadinanza in cui lo sviluppo convive accanto al sottosviluppo in un sistema più largo, molteplice e integrato (…).
Se finora le politiche
comunitarie hanno consentito l’integrazione del sottosviluppo nello sviluppo,
il prossimo settennato servirà alla formazione di forza lavoro specializzata
nelle regioni periferiche e “poco sviluppate”; al controllo della mobilità
della forza lavoro verso i mercati “avanzati” dell’UE, in particolare verso il
mercato tedesco; e all’apertura di processi violenti di «accumulazione per
spoliazione» nelle regioni “arretrate”, come ricostruzione del rapporto di
sfruttamento, secondo una logica estrattiva.
(…) vale brevemente la pena analizzare un
altro caso di «enclave» e «zona economica speciale» per eccellenza, all’interno
dello spazio europeo: il porto di Gioia Tauro. Qui è difficile parlare di
periferia o di Sud Europa oppure di zona “arretrata”, allorché su questi cliché
si staglia non la marginalità e l’eccezione ma la realtà della globalizzazione
capitalistica. Il porto di Gioia Tauro è uno dei punti più alti
dell’accumulazione capitalistica e del flusso di merci globale; e la zona
circostante è un contenitore esplosivo di sfruttamento, tensioni, attriti e
conflitti. La sua condizione di frontiera contraddistingue una sovranità
ambivalente. Il flusso di merci ne istituisce gli spazi caratterizzati dalla
«confusione tra legale e illegale, pubblico e privato, disciplinato e
selvaggio». Così, in una manciata di chilometri, in una delle tante periferie
dell’Europa ormai assurta a ventre della bestia, è concentrata tutta la
violenza del capitale: processi di sfruttamento del lavoro vivo, di estrazione
di profitto e di finanziarizzazione; e un pò più in là, nella Piana di Gioia
Tauro, la brutalità dell’inclusione differenziale: lo sfruttamento
“schiavistico” e la ghettizzazione della forza lavoro migrante.
3. Parafrasando un classico di Giovanni
Arrighi, forse sarebbe necessario mandare Adam Smith a Gioia Tauro. Cosa vuol
dire questo? E che cosa ci dicono quelle coordinate che abbiamo provato a
rincorrere e riacciuffare nel corso di queste analisi? Queste domande in realtà
ci aprono le porte a quelle sfide che rimandano alla comunicabilità delle
differenze e alla traducibilità delle lotte; al ripensamento radicale della
politica della traduzione delle lotte, tanto a livello europeo quanto a livello
globale. Non si tratta di andare da una lingua a un’altra tenendo ferma la
barra delle coordinate Nord/Sud, centro/periferia, che solo a pronunciarle
farebbero idealmente alleare i subalterni meridionali. Questo tipo di
traduzione non tiene conto dei processi di accumulazione, delle forme di
sfruttamento, dei differenti livelli della lotta di classe e dell’eterogeneità
degli stessi “Sud”. Certo, una sorta di “geografia della percezione” potrebbe
essere uno strumento tra i tanti di una politica della traduzione delle lotte.
Tuttavia non va trascurato come all’interno delle periferie pulsi il cuore
della bestia: alti livelli di accumulazione così come violente forme di
sfruttamento; e come nel centro della finanza internazionale convivano pratiche
di precarietà e povertà. Si tratta di una traduzione che di fatto non passa più
soltanto per la lingua della spazialità. Ma al contempo va preso atto come le
politiche nello spazio europeo proprio tramite la retorica del sottosviluppo, i
proclami sul rigore, i discorsi orientalistici, abbiano ormai riconfigurato i
processi di accumulazione, il mercato del lavoro, la mobilità dello
sfruttamento, la formazione di sacche da cui attingere «mezzi di produzione» e
dove praticare nuove forme di «accumulazione originaria».
Tentare di sperimentare la traducibilità fra subalternità eterogenee, ad esempio nei paesi del Sud d’Europa, significa creare ambiti di connessione e di comunicazione di «contro-condotte», di esperienze di solidarietà e di resistenza, nuove forme di sindacalismo e di mutualismo fra classi subalterne; e individuare dei momenti, dei punti e dei luoghi di accumulo in cui misurare i rapporti di forza. Attingendo dal “cantiere” gramsciano, varrebbe forse la pena di interrogarsi sul come produrre «egemonia» in grado di divenire discorso pubblico. Che tenga insieme pratiche conflittuali e consenso sempre più largo: «egemonia» in grado di parlare la lingua delle subalternità e di creare un «sistema di alleanze di classe» che consentano di «mobilitare contro il capitalismo», e contro la cultura e la solitudine neoliberiste, la «maggioranza» di quell’eterogeneità precaria all’interno dello spazio europeo.
Tentare di sperimentare la traducibilità fra subalternità eterogenee, ad esempio nei paesi del Sud d’Europa, significa creare ambiti di connessione e di comunicazione di «contro-condotte», di esperienze di solidarietà e di resistenza, nuove forme di sindacalismo e di mutualismo fra classi subalterne; e individuare dei momenti, dei punti e dei luoghi di accumulo in cui misurare i rapporti di forza. Attingendo dal “cantiere” gramsciano, varrebbe forse la pena di interrogarsi sul come produrre «egemonia» in grado di divenire discorso pubblico. Che tenga insieme pratiche conflittuali e consenso sempre più largo: «egemonia» in grado di parlare la lingua delle subalternità e di creare un «sistema di alleanze di classe» che consentano di «mobilitare contro il capitalismo», e contro la cultura e la solitudine neoliberiste, la «maggioranza» di quell’eterogeneità precaria all’interno dello spazio europeo.
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