di E. Brancaccio/ O. Costantini/ S.Lucarelli -
l’estratto
che proponiamo da “Crisi e centralizzazione del capitale finanziario” (Moneta e
Credito, vol. 68, n° 269, 2015) è un contributo utile a far riflettere sulla
crisi contemporanea. La crisi aveva messo a dura prova la tenuta del sistema
finanziario globale prima di scaricare i suoi effetti devastanti sul piano
sociale innescando meccanismi estrattivi di rifinanziarizzazione, socializzando
le perdite mediante l'azione selvaggia della leva fiscale con tagli di spesa e prelievo forzato che hanno immiserito le
condizioni di vita generali. L’analisi degli autori, a partire dalle
disamine critiche del paradigma economico sulla concorrenza e la
centralizzazione capitalistica, e date anche le risultanze delle politiche neoliberiste dominanti, riporta alla luce l’intuizione
di Marx che vedeva nella concentrazione dei sistemi bancari il radicarsi della
tendenza del capitale verso la crisi sistemica
La
possibilità di ridare lustro alle categorie scientifiche su cui la critica
dell’economia politica si fonda, non sembra oggi realizzabile limitandosi ai
contributi di studiosi che si ispirano esplicitamente a Marx. Gli scienziati
sociali marxisti non mancano, come d’altronde esistono ancora sedi editoriali
dedicate alla critica marxiana dell’economia politica che godono di un certo
prestigio a livello internazionale. Ciò che tuttavia manca è l’esplicita
legittimazione di queste linee di ricerca all’interno del dibattito che impegna
soprattutto gli economisti quando analizzano la crisi odierna. Nulla di
sorprendente, dal momento che, a differenza soprattutto degli anni Sessanta e
Settanta, nell’attuale formazione universitaria degli economisti ogni
riferimento approfondito a Marx è, nel migliore dei casi, raro. Eppure
dall’interpretazione dello sviluppo capitalistico come processo ciclico, fino
ai collegamenti tra concorrenza, centralizzazione dei capitali e crisi
economica, sono molti i lasciti di Marx in grado di fornire elementi di
approfondimento rilevanti per l’analisi del capitalismo contemporaneo (Sylos
Labini, 2006). Non è un caso, del resto, che molte sue tesi implicitamente
riemergano anche oggi, in studi recenti che non si rifanno in alcun modo alla
tradizione marxista. È interessante notare, a tale riguardo, che dall’ambito
della ricerca mainstream contemporanea scaturiscono analisi
empiriche che potrebbero essere interpretate come possibili verifiche di alcune
sequenze causali tipiche delle analisi marxiste esaminate nel paragrafo precedente.
Naturalmente,
la possibilità che test empirici ispirati dalla teoria dominante possano
costituire un banco di prova per le tesi marxiste solleva rilevanti problemi di
ordine epistemologico. Tra questi, vi è l’impossibilità di trarre spunto da
quelle analisi dei dati che siano ancorate all’approccio teorico mainstream e
alla sua concezione di “equilibrio naturale”, e che non possano essere
interpretate senza necessariamente rinviare ad esso. È interessante notare,
tuttavia, che alcuni dei risultati empirici dell’analisi mainstream rivelano
un nesso piuttosto labile con l’impalcatura generale della teoria dominante e
con il concetto di equilibrio naturale. Sotto queste condizioni, la possibilità
di raffrontare tali analisi empiriche ad almeno alcuni spezzoni delle linee di
argomentazione tipiche degli studi marxisti non risulta del tutto preclusa. In
quest’ottica, nel presente paragrafo proporremo una breve rassegna di studi di
ispirazione mainstream dedicati alle possibili relazioni empiriche
tra le concentrazioni bancarie e la connessa formazione di strutture too
big too fail, da un lato, e la struttura, le forme di mercato e, in ultima
istanza, la stabilità del sistema economico, dall’altro. Da questi studi sarà
possibile trarre evidenze utili anche per un esame delle tesi marxiste sui
legami tra centralizzazione del capitale finanziario, concorrenza, instabilità
e crisi economica. Come si vedrà, in questa letteratura il termine
marxiano centralizzazione non viene mai usato, e in sua vece si adotta la
definizione molto più circoscritta di “concentrazione” del mercato, calcolata
tramite opportuni indicatori.
In
generale, l’evidenza empirica esistente mostra che, laddove la concentrazione
del mercato del credito è maggiore, la nascita di nuove imprese procede più
lentamente (Black e Strahan, 2002). Tuttavia non è possibile catturare
attraverso un’unica variabile le caratteristiche complesse proprie
dell’efficienza sistemica: non conta solo la velocità con cui nascono le nuove
imprese, contano anche le caratteristiche delle nuove imprese, che possono
essere colte in parte dalla creazione di posti di lavoro ad esse riferite, ma
conta anche il volume complessivo dei prestiti concessi, il livello dei tassi
di interesse sui prestiti, l’andamento dei crediti in sofferenza. Come fanno
notare Alessandrini et al. (2003), mettendo a confronto
le ricerche di Focarelli et al. (1999) e di Bonaccorsi e Gobbi
(2001), i risultati delle stime dipendono anche dalla dimensione delle banche
coinvolte nei processi di concentrazione: se si guarda al volume complessivo
dei prestiti concessi ad esempio, questi tendono a crescere per le banche
coinvolte in operazioni di fusione, mentre tendono a diminuire se il
consolidamento avviene attraverso acquisizioni. Tuttavia, man mano che la
dimensione delle banche coinvolte aumenta, questi risultati si capovolgono.
Sui
legami tra concentrazione bancaria e concorrenza nel settore finanziario,
Claessens e Laeven (2004) esaminano un campione riferito a 50 sistemi bancari,
ciascuno composto da almeno 20 banche, nel periodo 1994-2001, e individuano una
correlazione statisticamente significativa fra concorrenza e concentrazione dei
sistemi bancari (Claessens e Laeven, 2004, p. 577). Gli autori sostengono
una tesi che trova oggi diffuso consenso in letteratura: non è possibile
considerare gli indici di concentrazione quali misure del livello di
competitività di un sistema bancario. Alla luce di questo studio si può
sostenere che il legame fra concorrenza e tendenza alla concentrazione nei
sistemi bancari andrebbe indagato attraverso un’analisi dinamica, che tenga
conto dei cambiamenti nella struttura produttiva e soprattutto negli assetti
istituzionali. A tal proposito, Cerasi e Chizzolini (2004) mettono in relazione
la concentrazione bancaria – che fanno dipendere dal livello di concorrenza
nella fissazione dei tassi di interesse – con la concorrenza nel settore
creditizio – che fanno invece dipendere dall’assetto legislativo e dalla
regolazione. Studiano poi le conseguenze della deregolazione sul grado di
concentrazione dei sistemi bancari europei nel periodo 1981-1999. Dall’analisi
emerge che il processo di deregolazione iniziato nel 1980 conduce a un
incremento della concentrazione dei sistemi bancari riscontrabile alla fine
degli anni Novanta nei quindici paesi europei oggetto della stima: la loro
conclusione è che più concorrenza oggi sembra implicare meno concorrenza
domani. Più precisamente: il processo di deregolazione implica un aumento della
concorrenza nei tassi di interesse, il che comporta nel lungo periodo un
incremento della concentrazione bancaria, che trova ulteriore conferma nella
tendenza alla riduzione della dimensione media della rete di sportelli delle
banche. Sebbene queste conclusioni non possano di per sé apparire robuste alla
luce della dimensione del campione, dal momento che l’analisi è condotta su
dati aggregati per quattro anni distinti tra il 1981 e il 1999, sono coerenti
con altre ricerche condotte su dati microeconomici: per esempio le stime
condotte da Cerasi, Chizzolini e Ivaldi (2002), per spiegare l’impatto della
deregolazione sui costi di entrata a livello di sportello bancario e sul grado
di concorrenza nei tassi di interesse, dimostrano che una concorrenza più
agguerrita sui tassi di interesse aumenta in modo significativo il grado di
concentrazione nei mercati nazionali. Inoltre, all’interno della stessa
ricerca, si riscontra una forte segmentazione all’interno dei mercati bancari
europei, per quanto riguarda i costi di entrata che devono essere sopportati
quando si aprono nuovi sportelli. Tuttavia questa segmentazione tende a diminuire
nel tempo, proprio perché il grado di concentrazione tende ad aumentare anche
in quei paesi in cui si attestava su livelli minori. La tendenza alla
concentrazione bancaria e le sue implicazioni sul funzionamento del mercato
sembrano dunque costituire delle risultanti di lungo periodo dei processi di
deregolazione del settore.
Diventa
quindi opportuno interrogarsi anche sui nessi che intercorrono fra i processi
di deregulation e il potenziale rischio sistemico cui può
essere soggetto il sistema bancario: assetti istituzionali favorevoli alla
concorrenza fra banche rendono più o meno stabile tale sistema? Le evidenze
disponibili appaiono in prima istanza controverse. Alcune sembrano indicare che
una elevata concorrenza fra le banche può minacciare la solvibilità delle
singole istituzioni sino a mettere in pericolo la stabilità dell’intero
sistema, mentre altre suggeriscono conclusioni opposte. L’idea che una maggiore
competitività spinga gli istituti bancari a mettere in campo strategie più
rischiose caratterizza diverse analisi mainstream (Smith,
1984; Keeley, 1990; Repullo, 2004). Altri studi mostrano che le banche con un
potere di mercato maggiore appaiono in grado di proteggere il proprio franchise
value: accumulando maggiori riserve, le banche possono ridurre il rischio
di credito (Boot e Greenbaum, 1993; Hellman et al., 2000; Matutes e
Vives, 2000). Secondo questi studi, la tendenza alla concentrazione bancaria
sarebbe spiegabile proprio in virtù della capacità di assicurare maggiore
stabilità ai singoli istituti e al sistema bancario nel suo complesso. Questo
punto di vista è stato messo in discussione da altri studi, dai quali si evince
che le banche che operano in mercati non competitivi appaiono più inclini a
concedere prestiti più rischiosi (Caminal e Matutes, 2002). Inoltre, come ha
argomentato tra gli altri Mishkin (1999), sistemi bancari più concentrati
risultano caratterizzati da una maggiore probabilità di essere oggetto di
interventi straordinari di salvataggio secondo la logica del too big to
fail: banche troppo grandi a rischio di fallimento vengono salvate dalle
autorità di governo, come è accaduto negli Stati Uniti con il Troubled
Asset Relief Program nell’ottobre del 2008.Tali politiche possono
incoraggiare i dirigenti bancari a intraprendere strategie più rischiose.
Più
di recente, De Nicolò et al. (2004) analizzano dati relativi alle
attività finanziarie delle 500 imprese finanziarie più grandi su scala
mondiale, in più di 100 paesi; l’indagine riguarda la relazione che intercorre
fra conglomerati finanziari, da un lato, e rischio finanziario riferito alle
imprese, oltre al rischio sistemico potenziale del settore bancario,
dall’altro. I risultati ai quali la ricerca perviene sono i seguenti: nel 1995
le grandi imprese conglomerate non sembrano caratterizzate da rischi più bassi
rispetto ai rischi che caratterizzano le imprese più piccole. Nel 2000 i valori
cambiano e le grandi imprese conglomerate registrano un rischio più alto. Se si
guarda al sistema bancario, nel periodo 1993-2000 i sistemi creditizi
caratterizzati da una maggiore concentrazione presentano un livello maggiore di
rischio sistemico potenziale. Questa relazione si rafforza ulteriormente nel
periodo 1997-2000. Stando a questi risultati, dunque, pare che la dimensione
delle imprese conglomerali possa aumentare, soprattutto in caso di crisi,
l’ampiezza del rischio sistemico. Quest’ultimo è definito come uno “shock la
cui larghezza e profondità sono abbastanza grandi da compromettere gravemente
l’allocazione delle risorse e i meccanismi di condivisione del rischio
esistenti attraverso un sistema finanziario” (De Nicolòet al., 2004, p.
205, trad. nostra). Non sembra possibile sostenere, allora, che la
concentrazione bancaria incrementi la resistenza dei sistemi bancari.
Piuttosto, i grandi conglomerati finanziari appaiono correlati a maggiori
rischi sistemici.
Le
conclusioni alle quali giungono Beck et al. (2006) risultano in
parte diverse. Gli autori studiano la relazione tra variabili istituzionali e
livelli di concentrazione da un lato, e probabilità che un paese incorra in una
crisi bancaria sistemica dall’altro. Sono utilizzati dati relativi a 69 paesi
nel periodo che va dal 1980 al 1997. Sul campione preso in considerazione sono
individuabili 47 episodi di crisi bancaria. Risulta che le crisi sono meno
probabili in paesi i cui sistemi bancari risultano più concentrati. I dati
mostrano pure che le politiche di maggiore regolazione e le istituzioni che
ostacolano la concorrenza appaiono correlate a una maggiore fragilità del
sistema bancario. Gli autori segnalano che il loro studio lascia irrisolto il
problema relativo alla specificazione dei canali attraverso cui la
concentrazione e la concorrenza del sistema bancario inciderebbero sulla
stabilità sistemica.
Il
lavoro di Schaeck et al. (2009) sembra offrire un quadro più
preciso e maggiormente esaustivo. Gli autori analizzano i dati riferiti a 45
paesi relativamente all’intervallo di tempo che intercorre tra il 1980 e il
2003, considerando 31 crisi dei sistemi bancari nazionali. Come misura del
grado di concorrenza, l’analisi si avvale dell’indice H di
Panzar e Rosse (1987), che – ricordiamo – non richiede di avere informazioni
dirette sulla forma di mercato. Schaeck e colleghi sottolineano che la
competitività e la concentrazione del sistema bancario rappresentano fenomeni
profondamente diversi: un indice di concentrazione del sistema bancario non può
essere considerato una proxy della competitività. Il nesso fra
concorrenza e concentrazione è dunque complesso, e in generale non consente di
affermare che una maggior concentrazione del mercato sia necessariamente
associata a una minor concorrenza, e viceversa. Il lavoro di Schaeck et
al. offre elementi di riflessione anche sulla relazione fra concentrazione
bancaria e fragilità del sistema: in un contesto concorrenziale, i sistemi
bancari appaiono meno soggetti alle crisi sistemiche e il tempo necessario al
verificarsi di una crisi risulta più lungo rispetto ad un contesto
caratterizzato da minor competizione. Distinguendola ancora una volta dalla
concorrenza, gli autori rilevano pure che la maggior concentrazione dei sistemi
bancari risulta associata a una maggiore tendenza verso le crisi sistemiche.
Risultati, questi, che appaiono più vicini all’analisi originaria di Marx che a
quella dei suoi continuatori.
*estratto
da “Crisi e centralizzazione del capitale finanziario”, Moneta e Credito, vol.
68, N° 269 (2015)
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