di Andrea Fumagalli
In
questi giorni si è concluso il primo round della trattativa tra governo greco
ed Eurogruppo. Presentiamo qui una prima analisi dei risultati raggiunti, delle
opportunità guadagnate e delle eventuali occasioni perse. L’intento è quello di
problematizzare con lucidità l’attuale fase, importante e delicata, evitando di
farsi cogliere dal disfattismo o viceversa dall’euforia. Il presente contributo
si è avvalso di un fruttifero scambio di opinioni con Christian Marazzi
Si
è chiusa la prima fase della trattativa tra il governo Tsipras e la troika (ora
chiamata “le istituzioni”) per la ristrutturazione del debito greco e il
possibile superamento delle politiche di austerity. Non sappiamo ancora come il
processo avviato nel mese di febbraio si concluderà e quindi è prematuro
tracciare un bilancio definitivo. Ma alcune considerazioni possono essere
avanzate già da ora.
La
successione degli eventi
Cominciamo
con i fatti. Perché un minimo di informazione è necessaria, per capire di che
stiamo parlando.
Il
4 febbraio 2015 la Bce decide di non accettare più come garanzia “collaterale”
i titoli di stato greci per fornire la liquidità necessaria al sistema
creditizio greco al fine di far fronte alle normali operazioni bancarie. Di
fatto, un drastico taglio alla liquidità greca che incentiva la fuga di
capitali all’estero. Di fatto, un atto diterrorismo
economico per condizionare la trattativa che si sarebbe aperta da lì a
poco. Il governo greco inizia così la trattativa con una pistola puntata alla
tempia.
L’11
febbraio si svolge la riunione straordinaria dell’Eurogruppo sulla Grecia. Il
governo Tsipras presenta la proposta di rinegoziazione del debito greco. Le
proposte del ministro delle Finanze greco Veroufakis si basano principalmente
su due punti:
a. riesame delle scadenze delle rate del debito, allungandole e chiedendo per i primi anni (si parla sino al 2020) una moratoria al pagamento degli interessi per consentire che i soldi risparmiati possano essere finalizzati alla crescita economica, intervenendo così sul denominatore del rapporto debito/pil.
b. scambiare gli attuali titoli di stato con due tipi di nuovi bond (di fatto degli swap): il primo indicizzato alla effettiva crescita economica greca, da scambiare con i crediti erogati dai paesi e dalle istituzioni europee. In questo caso il pagamento delle cedole o del capitale viene subordinato alla crescita del Pil o al calo della disoccupazione. Il secondo è invece costituito da titoli di stato di durata perpetua che servirebbero a sostituire quelli detenuti dalla Bce, con il passato piano anticrisi SMP (Securities Markets Programme). Si tratta di titoli che pagano una cedola all’anno e non vengono mai rimborsati avendo scadenza infinita.
a. riesame delle scadenze delle rate del debito, allungandole e chiedendo per i primi anni (si parla sino al 2020) una moratoria al pagamento degli interessi per consentire che i soldi risparmiati possano essere finalizzati alla crescita economica, intervenendo così sul denominatore del rapporto debito/pil.
b. scambiare gli attuali titoli di stato con due tipi di nuovi bond (di fatto degli swap): il primo indicizzato alla effettiva crescita economica greca, da scambiare con i crediti erogati dai paesi e dalle istituzioni europee. In questo caso il pagamento delle cedole o del capitale viene subordinato alla crescita del Pil o al calo della disoccupazione. Il secondo è invece costituito da titoli di stato di durata perpetua che servirebbero a sostituire quelli detenuti dalla Bce, con il passato piano anticrisi SMP (Securities Markets Programme). Si tratta di titoli che pagano una cedola all’anno e non vengono mai rimborsati avendo scadenza infinita.
Il
16 febbraio, nuova riunione dell’Eurogruppo. I ministri europei chiedono ad
Atene di estendere il programma di salvataggio, ponendo di fatto un ultimatum
in linea con i diktat precedenti. La Grecia non solo rifiuta ma rilancia,
chiedendo una “proroga di 4 mesi per discutere un nuovo accordo”. Il livello di
scontro si alza e i paesi europei, nessuno escluso (compresi Italia e Francia),
ripropongono la validità della politica di austerità. La possibilità che la
Grecia possa essere indotta a uscire dall’Euro si fa concreta.
19-20
febbraio: i ministri delle finanze dell’Eurogruppo raggiungono un accordo di
fondo su un testo di compromesso per l’estensione del programma di aiuti alla
Grecia per quattro mesi, chiedendo in cambio che la Grecia proponga una serie
di misure concrete che la troika dovrà approvare.
23
febbraio: rispettando i tempi concessi, poco prima di mezzanotte il governo
greco presenta alla Commissione Europea e al Fmi le misure che intende adottare
nei prossimi 4 mesi. La reazione sembra essere positiva,
con parere positivo dell’Eurogruppo ma qualche perplessità della Bce e del FMI.
Qualcosa
di nuovo sotto il sole europeo?
Questa
la mera cronaca. Si ridiscuterà tra quattro mesi. Ciò significa che nulla è
cambiato? Niente affatto:
1.
Per la prima volta da quando le politiche di austerity sono diventate
insindacabili in Europa (“there is no alternative”), un paese si conquista il
diritto a trattare. Non è una questione solo formale, a prescindere poi dal
risultato che potrà ottenere. Si è messo in discussione il “principio di
autorità” dell’oligarchia finanziaria di commissariare un paese ed imporgli una
politica economica neoliberista: principio fino ad oggi indiscutibile. Non è
certo autodeterminazione, come la trattativa ha ben evidenziato, ma viene rotto
un tabù. Sul piano simbolico, è un risultato importante e non è un caso che,
per evitare questa eventualità, nel corso della trattativa, l’Eurogruppo abbia
cercato di impedire che tale primo obiettivo venisse raggiunto, mettendo la
Grecia di fronte all’aut-aut di uscire o rimanere nell’Euro. In questo caso chi
ha bleffato è stato proprio l’Eurogruppo, che non poteva permettersi il default
della Grecia, pena notevoli perdite non solo per le banche tedesche e francesi
(che detengono buona parte del debito greco) ma anche per la BCE, che avrebbe
visto ridursi le proprie riserve di liquidità.
2.
Al riguardo non stupisce affatto la reazione negativa e stizzita di Spagna,
Portogallo e Irlanda, i cui governi negli ultimi anni hanno accettato, senza
colpo ferire, le misure draconiane imposte dalla troika con tutti gli effetti
di miseria sociale che hanno comportato. Come poter giustificare oggi quella
subalternità e passività ai diktat europei che, oltre ogni ragionevole dubbio,
hanno evidenziato la complicità e la collusione che tali governi hanno
intrapreso con gli interessi delle oligarchie finanziarie europee?
3.
Il rischio di un “effetto domino” diventa così uno spettro che si aggira negli
uffici di Bruxelles e Francoforte. Un effetto domino che non è quello
orchestrato dalla speculazione finanziaria ma, all’inverso, dalla possibilità
che sia possibile mettere una zeppa agli ingranaggi della governance
neoliberista dell’Europa. A patto, tuttavia, che l’esempio greco, venga seguito
da altri paesi europei. Sappiamo tutti che a ottobre si svolgeranno le elezioni
politiche in Spagna, precedute dal test delle elezioni amministrative. Abbiamo
già sottolineato che il peso specifico della Spagna è ben superiore di quello
della Grecia e per questo da qui a ottobre ne vedremo delle belle. E’ facile
prevedere che si svilupperà una canea mediatica e un gioco di ricatti per impedire
a tutti i costi che la Spagna possa seguire l’esempio della Grecia.
4.
In questo gioco simbolico, in Italia, senza che nessuno se ne sia accorto, tale
canea ha già cominciato ad attivarsi. Nell’ultimo mese, con un ritmo alquanto
sospetto, sono stati dati in pasto all’opinione pubblica una serie di dati
economici che portano ad un’unica conclusione: grazie all’operato del governo
Renzi e alle sue “riforme” (sarebbe meglio chiamarle “controriforme”), la
recessione economica è improvvisamente terminata. Il Centro Studi Confindustria
(maggior sponsor del governo) ha solennemente predetto che
nel 2015 il PIl crescera del 2,1% nel 2015 e del 2,5% nel 2016! Una stima tre
volte superiore a quella del Fmi! La Confcommercio afferma che, dopo 5 anni,
gli occupati (non i posti di lavoro) sono aumentati nell’ultimo trimestre di
59.000 unità (di cui due terzi nel settore della vendita ambulante!). La stessa Banca Centrale
Italiana, pur in modo più moderato, corregge al rialzo le stime di
crescita, un misero + 0,5% nel 2015 rispetto al + 0,4% di novembre 2014, ma un
più rassicurante + 1,1% nel 2016. Viene spiegato che è la conseguenza degli
effetti benefici del Job Act e del decreto sulla liberalizzazione dell’energia.
Sulla base di queste previsioni euforiche (del tutto in contrasto con quelle
dell’Eurostat e del Fmi – ma nessuno ne parla), proprio pochi giorni fa, l’Ocse
ha affermato,
per bocca del suo segretario generale Angel Gurrìa, che la riduzione della
rigidità del lavoro, grazie al Job Act, può “determinare un incremento del Pil
pari al 6% nei prossimi 10 anni”. Insomma, la situazione economica volge al
bello, senza dover mettere in discussione le politiche d’austerity, anzi
confermandone le validità. Le riforme attuate in questi mesi dal governo Renzi
– occorre ricordarlo – ricalcano perfettamente quelle auspicate dalla famosa
lettera segreta del 5 agosto 2011 di Trichet e Draghi al fu governo Berlusconi
come condizione per la riduzione del debito pubblico. In altre parole: a
parole, Renzi e Padoan si dicono solidali con la Grecia ma nei fatti sono i più
fedeli alleati della Merkel e di Schauble.
L’importanza
del tempo
Sul
piano sostanziale, possiamo aggiungere altre osservazioni:
a.
Le misure che la Grecia, in piena autonomia e non sotto dettatura del
memorandum, intende adottare nei prossimi 4 mesi per poter usufruire
dell’allungamento dei tempi per ridiscutere il piano di risanamento del debito
dovrebbero recuperare circa 7 miliardi di euro, così suddivisi : 2,5 miliardi
dall’introduzione di una tassa patrimoniale per i ricchi; 2,3 miliardi dalla
lotta all’evasione fiscale e alla corruzione, 2,2 miliardi dalla riduzione
della burocrazia statale, dal contrabbando di benzina e sigarette e dal
recupero crediti da parte dell’amministrazione pubblica. Le principali
richieste dell’Eurogruppo, già precedentemente inserite nel memorandum, vengono
rigettate: aumento dell’Iva, licenziamenti pubblici, riduzione delle pensioni.
Seppur in modo limitato, alcuni punti del programma di Salonicco (il programma
su cui Syriza aveva imbastito la vincente campagna elettorale) vengono
confermati: tredicesima sulle pensione sotto i 700 euro, graduale introduzione
di un salario minimo (invece che immediata), blocco dei licenziamenti, accesso
gratuito per e famiglie povere a servizi di pubblica utilità, come luce e gas,
l’introduzione di un voucher alimentare per chi è nullatenente. Riguardo il
tema delle privatizzazioni – forse il più spinoso per gli interessi della
troika -, ci si avvia a un compromesso: i piani di privatizzazione, già avviati
(tramite bandi di vendita e di acquisizioni) non vengono toccati, quelli
annunciati dal precedente governo ma non ancora avviati sono soggetti a ridiscussione.
b.
Considerando gli stretti margini di manovra e il poco tempo a disposizione, si
tratta di un compromesso che possiamo realisticamente definire ragionevole. E’
comprensibile che esso abbia lasciato l’amaro in bozza ad alcuni componenti
della dirigenza di Syriza, a partire dalla presa di posizione di Manolis
Glezos, icona della resistenza greca nonché, appunto, membro del comitato
centrale del partito di Tsipras. Ma sappiamo anche che la politica è la scienza
del possibile, non dei desiderata. Tuttavia, riteniamo che discutere
esclusivamente il merito di questo compromesso sia fuorviante. Per due motivi.
Il primo è che le misure proposte sono assai aleatorie. Occorrerà
effettivamente verificare se il gettito ipotizzato si realizzerà
effettivamente. Ma ciò conta poco. Ciò che conta – e questo è il secondo motivo
– è che, come giustamente sottolineato da Sandro Mezzadra da un punto
di vista politico, si guadagna “tempo”. Ed è proprio il “tempo” che
finora è mancato alla Grecia. Si tratta di un aspetto nevralgico e allo stesso
tempo sostanziale. Nel capitalismo biocognitivo, l’unità temporale che viene
imposta dalla logica della valorizzazione finanziaria, anche quando ha a che
fare con decisioni di politica economica, è quella del brevissimo termine: sono
i tempi dettati della speculazione finanziaria e del divenire rendita del
profitto. Riuscire a scardinare questa logica è condizione necessaria (anche se
può non essere sufficiente) per imporre un’altra logica di azione economica,
non supina alle esigenze delle oligarchie finanziarie. E’ un passaggio assai
fastidioso, come implicitamente conferma l’infame
titolo di La Repubblica del 23 febbraio scorso, non a caso fotocopia
di quello de Il
Giornale. Si vuole confermare, a tutti i costi, che non c’è alternativa
all’austerity, come viene ribadito anche il 25
febbraio dal quotidiano “renziano” .
Le
difficoltà geopolitiche dell’Europa
Ma
c’è dell’altro, a dimostrazione di come la situazione sia allo stesso tempo
complessa, delicata e in movimento, al punto da sconsigliare di prendere
posizioni drastiche. Ci riferiamo, soprattutto, a due aspetti. Il primo ha che
fare con i contatti che il nuovo ministro degli esteri greco ha avviato con la
Russia e con la Cina. I viaggi fatti a Mosca e a Pechino– anche se poco
sottolineati dalla servizievole stampa nostrana – hanno avuto a che fare con la
possibilità di accedere a fonti di finanziamento extra-europei e extra-Fmi per
evitare il default greco: una sorta di possibile piano B nel caso la trattativa
con l’Eurogruppo fosse naufragata o possa fallire in futuro. Non sappiamo quale
sia la possibile contropartita. Ma considerando le problematiche che sta
vivendola Russia in seguito al calo del prezzo dei prodotti energetici, alle
sanzioni europee per la questione ucraina e alla fuga di capitali verso gli Usa
in seguito alla svalutazione del rublo e sapendo degli interessi cinesi per
garantirsi una supremazia della logistica del trasporto marittimo nel
Mediterraneo (la via meridionale della seta), possiamo ben immaginare quale sia
la posta in gioco. E’ quindi sicuro che l’oligarchia europea (e men che meno
quella Usa) non veda di buon occhio una possibile ingerenza di tal fatta nei
propri affari interni.
Il
secondo aspetto, correlato al primo, riguarda la definizione degli assetti
geopolitici dell’Europa: da un lato, impegnata nelle trattive per definire
l’accordo Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP), agognato dagli
Usa per ricostituire un’area di egemonia economica “occidentale” in grado di
sottrarre l’Europa (ed in primis la Germania) alle chimere orientali (Russia,
ma soprattutto Cina) , dall’altro, la necessità di ribadire , tramite il ruolo
della Nato, una coesione interna in funzione di controllo dell’espansionismo
del fondamentalismo islamico, non tanto dal punto religioso ma piuttosto come elemento
di destabilizzazione nel medio-oriente, già fortemente minato dalle primavere
arabe (seppur con gli esiti che conosciamo).
Non
è un caso che nella prima fase della trattativa dell’Eurogruppo con la Grecia
(l’ultimatum posto nella riunione del 16 febbraio) si sanciva come punto
centrale il divieto per la Grecia di intraprendere “iniziative unilaterali”,
Avvertimento rientrato – almeno finora – in seguito alle assicurazioni della
Grecia di non uscire dalla Nato, ma in futuro non del tutto scongiurato.
E
allora?
Stiamo
vivendo – lo ripetiamo – un momento molto delicato per i futuri assetti
europei. L’oligarchia europea conferma ancora una volta di avere il fiato
corto. La decisione della Bce di “istituzionalizzare” il Quantitive Easing
rischia di essere il classico “pannicello caldo”, incapace di risolvere le
questioni aperte.
E’
doveroso quindi porsi la domanda se le oligarchie europee oggi dominanti siano
più un elemento di destabilizzazione che di equilibrio, seppur di stampo
neoliberista. E’ evidente che una simile situazione non può continuare. Le
politiche di austerity hanno mostrato tutta la loro inefficacia nel ridurre
“ufficialmente” i debiti pubblici. Hanno avuto, invece, pieno successo, nel
favorire un enorme trasferimento di reddito e di ricchezza dalle fasce più
povere a un élite di poco più dell’1% della popolazione.
Paradossalmente,
è la stessa speculazione finanziaria a indicarlo. Nelle ultime settimane,
nonostante la fuga di capitali dalla Grecia ma grazie all’incremento dei tassi
d’interesse a valori oltre il 20%, gli hedge fund hanno compiuto massicci investimenti
sui titoli greci e non a caso gli indici di borsa principali sono
saliti dopo l’accordo con l’Eurogruppo. A nessuno conviene il default greco,
perché non ha senso strozzare la gallina dalla uova d’oro. Varoufakis lo sa.
Oltre
a ciò occorre considerare la possibilità concreta di sperimentare una moneta
complementare in Grecia, in grado di attutire la possibile crisi di liquidità,
anche se la Bce, dopo aver aumentato le risorse del fondo di ultima istanza:
Emergency Liquidity Assistance (ELA), ha anche dichiarato che se le trattative
con l’Eurogruppo vanno in porto, è disposta a ritornare sui suoi passi e a
accettare come garanzia “collaterale” i titoli di stato greci per fornire la
liquidità necessaria al sistema creditizio greco. E sono proprio queste
considerazione che stimolano l’idea di immaginare l’istituzione di un circuito
finanziario alternativo, in grado di essere autonomo dai diktat
dell’oligarchia finanziaria: una sorta di istituzione finanziaria del comune.
Ma questa è un’altra storia, su cui ritorneremo a partire dalla prossima
pubblicazione degli atti del convegno sulla
“Moneta del comune”, che si è svolto nello scorso giugno a Milano.
Finito
il primo round, vi è ora il tempo per provare ad attuare la “rottamazione”
dell’attuale governance europea e la destrutturazione dei governi nazionali
neoliberisti (a partire da quello italiano). Compito sicuramente arduo ma non
emendabile ma soprattutto ineludibile se vogliamo ancora sperare in un futuro
umano, a partire dal prossimo appuntamento del 18 marzo a Francoforte sotto le
finestre della nuova Eurotower. Un primo punto di partenza a cui ne devono
seguire altri. Abbiamo tempo, stavolta!