di Collettivo Euronomade
La vittoria greca chiama ad un cambio di passo anche
nell’azione complessiva dei movimenti europei. Hic Rhodus hic salta! È un salto
che va compiuto subito: con un’intensificazione costituente e di lotta, di
mobilitazione e di traduzione
1.
«Borsa, Atene chiude a -3,20%». E ancora: «la borsa di Atene, -9,34». L’euro
regge. Le agenzie di rating fibrillano per rappresaglia. [...] Immediatamente
dopo l’esito elettorale: «Bruxelles apre al dialogo». Pochi giorni dopo,
Juncker: «Cancellare o tagliare il debito è escluso. Accordi sono possibili, ma
non cambieranno fondamentalmente le cose». Che la vittoria di Tsipras abbia
suscitato reazioni contrastanti in Grecia è indubbiamente un riflesso dello
scenario politico e della lotta di classe in Europa. Da una parte, il capitale
finanziario, le banche e i rentiers tremano dinanzi alla possibilità di veder
sfumare i crediti che fin qui gli erano stati garantiti dal commissariamento
delle politiche economiche, per mezzo del Memorandum concordato tra la troika e
l’ex premier Samaras. Dall’altra parte, coloro che la crisi l’hanno subita
provano a cambiare rotta: quel pezzo consistente di composizione sociale, di
lavoro vivo e di cooperazione sociale, su cui l’accumulazione finanziaria va
costruendo le proprie fortune; e parimenti larghi settori del terziario pubblico
che vanno tagliati per evitare quei «pasticci» che, secondo il thatcherismo,
«esauriscono i soldi degli altri». Una composizione di classe che ha dato il
suo 36% di consenso all’«azzardo» di Syriza, riconoscendone la presenza al
proprio fianco durante gli anni più atroci della crisi, in piazza Syntagma e
nelle strade in rivolta così come nei commissariati in cui avvenivano le
torture di una polizia storicamente fascista.
Pur nascendo dall’accorpamento di 7 partiti, e quindi non estranea alla
genealogia della “sinistra storica”, Syriza ha saputo mantenere
quell’«atteggiamento sperimentale» in
grado, anzitutto, di sconfiggere la paura e, poi, di tornare a vincere. La sua
capacità è stata quella di costruire un piano sul quale la grande e vasta
mobilitazione dei movimenti sociali non rifluisse, una volta incontrata
l’indifferenza della troika e dei suoi servitori in Grecia, nella ritirata o
nella sconfitta. Ha saputo mantenere viva la relazione con quel tessuto
sociale, senza pretendere di rappresentarlo: piuttosto, facendone un elemento
imprescindibile di apertura costante – e magari anche contraddittoria, mai
definitivamente risolta – della propria costruzione politica. Con un percorso
in gran parte diverso, anche in Spagna lo sviluppo di Podemos si muove in
questo senso: non pensare di rappresentare il movimento degli indignados, comprendere
fino in fondo quell’ “irrappresentabilità”, e nello stesso tempo costruire il
proprio progetto politico e la propria organizzazione in un continuo sforzo di
“articolazione” con il mondo moltitudinario che ha animato il 15M. È un campo
che si apre grazie all’effettiva rottura costituente avvenuta attorno al 2011;
e che, al contrario di quanto s’aspettava chi, al solito, sapeva prevedere solo
un “inevitabile” destino di riflusso dei movimenti, ha prodotto un gioco
inedito nel quale, ai limiti incontrati dalla mobilitazione antiausterity del
“sociale”, si è risposto con un esperimento di politicizzazione della società,
certo ancora parziale, ma sicuramente efficace.
Ovviamente, sarebbe una semplificazione immaginare queste formazioni come
un’espressione lineare di una nuova istituzionalità nata e prodotta dalle lotte: mentre l’accumulazione finanziaria
riscrive in profondità le istituzioni classiche della statualità e della rappresentanza,
anche le risposte non possono avere nulla di lineare. Così il rapporto tra
formazioni nate dopo l’affievolirsi della spinta dei movimenti antiausterity e
i movimenti sociali non si iscrive né nel campo della classica – e inservibile
– rappresentanza dei movimenti, né in una riaffermazione astratta del Partito o
della centralità dello Stato nei processi politici: si è aperto, invece, un
campo aperto e sperimentale, oltre la distinzione costituzionale classica tra
spazi del sociale e del politico, e, in fondo, oltre la stessa idea di unità
dei processi costituzionali. In questo senso, il riferimento alle esperienze
latinoamericane non è solo una suggestione, ma una chiave di lettura del nuovo
tentativo di articolazione, molto mobile e anche conflittuale, tra sociale e
politico, tra movimenti e spazio “pubblico”. Nessuno può illudersi che
“prendere lo Stato” (o più prosaicamente il governo) oggi possa significare
davvero prendere il potere, se l’azione politica – e anche lo stesso processo
elettorale – non si mantiene in tensione con le pratiche che nascono dalla
cooperazione sociale; né che la dimensione statual-nazionale possa essere
risolutiva o definitiva nella lotta contro l’accumulazione finanziaria;
dall’altra parte, però, i movimenti sociali sono strappati via da ogni
illusione di poter mettere tra parentesi il problema del potere, e di
confondere la produzione/riappropriazione del comune con una oziosa e astratta
autonomia delle lotte sociali.
Le elezioni greche e la progressione assunta dalle vicende spagnole ci
restituiscono evidentemente il senso del possibile: perché rendono praticabile, pronunciabile in termini non
ideologici, una rottura effettiva dell’“estremismo di centro” che ha dominato
l’Unione Europea, sia nelle sue versioni ufficiali da “grandi intese” sia nei
suoi cascami direttamente nazionalistici e autoritari; e perché mostrano del
tutto concretamente l’apertura di quello spazio non neoliberale e non
socialdemocratico che le lotte per la riappropriazione del comune hanno da tempo
prefigurato come unica possibilità politica per uscire dalla crisi. Ma ancor
più, questa sensazione di un nuovo “possibile” è data dal fatto che emerge, pur
in modo necessariamente contradditorio e impuro, la rottura di quella
bipartizione astratta tra spazio politico e spazio sociale, che ha impedito per
lungo tempo ai movimenti sociali anche solo di mettere a tema il problema della
vittoria politica, relegandoli allo spazio della produzione di “pubblica
opinione”.
2. È molto significativo che questi processi di
politicizzazione si manifestino con particolare forza in un momento in cui la crisi
incontra una trasformazione profonda nelle sue modalità di governo e di
gestione. In realtà, almeno da due anni il management della crisi all’interno
dello spazio europeo si muove in misure difformi e secondo linearità
asincroniche. In più occasioni, abbiamo sottolineato come una «politica delle
lotte» non possa contare su una linearità progressiva, né tantomeno su
un’accumulazione di forza dettata dalla sommatoria, occasione dopo occasione,
di frizioni o tensioni, di esplosioni contingenti ed estemporanee, pena
l’apertura di spazi a formazioni identitarie se non al populismo reazionario.
Una progressività che non funziona neanche più nei termini classici della “transizione”,
poiché l’estrattivismo del capitale avviene ora direttamente sulle forme di
vita, attraversando e combinando in vario modo tempi e spazi.
Il salto di livello della crisi è ora percepibile nel Quantitative easing, voluto da Draghi qualche giorno
prima delle elezioni greche. Va da sé che fosse una risposta al quasi certo
successo di Syriza. Ciò nondimeno, l’acquisto sistematico da parte della Bce di
titoli di stato e privati, e l’immissione di liquidità nei circuiti finanziari
era una misura inevitabile, richiesta a gran voce dagli stessi mercati
finanziari. 1.100 miliardi di euro di acquisti fino a settembre 2016, in titoli
di stato sulle quote che ogni paese detiene del capitale della Bce:
un’immissione di liquidità più ampia del previsto che non può che compiacere le
borse. L’austerity ora va declinata in altro modo, poiché la deflazione,
l’assenza di domanda sui mercati e l’abbassamento dei prezzi vanno danneggiando
soprattutto la Germania, anche se essa mantiene dritta la barra sul rigore come
politiche per riscuotere crediti e continuare a godere dell’emigrazione e del
lavoro vivo a basso costo proveniente dalle periferie subimperiali.
Il risultato è per ora il rafforzamento e l’istituzionalizzazione del
ruolo interventista della BCE,
con l’invasione dei mercati finanziari da parte di un costante e imponente
flusso di liquidità. Manovre che, in realtà, rafforzano l’accumulazione
finanziaria e favoriscono l’incremento della già feroce forbice della
diseguaglianza: eppure, è un’operazione che, proprio perché rende estremamente
dinamica la gestione dell’austerity e colloca più che mai al centro del governo
della crisi la produzione di moneta da parte della Banca Centrale, apre
rilevanti contraddizioni all’interno delle stesse oligarchie finanziarie e
rende possibile, almeno potenzialmente, far fare un salto qualitativo allo
stesso conflitto antiausterity. Rinegoziazione del debito, redistribuzione dei
redditi, fiscalità europea, un welfare europeo non più declinabile come
questione subordinata e astrattamente separata da quella della produzione, ma
come forma di riconoscimento della centralità della cooperazione e sociale e
remunerazione della sua produttività: i punti centrali delle lotte per un nuovo
modello di sviluppo europeo diventano ora, grazie al salto di qualità imposto
dalla nuova fase dell’austerity e all’irruzione greca, poste politiche sempre
più concretamente perseguibili.
La vittoria greca chiama, perciò, ad un cambio di passo anche nell’azione
complessiva dei movimenti europei,
a uno sforzo di immaginazione e costruzione di passaggi. Il 25 gennaio di Atene
richiede, e allo stesso tempo rende pragmaticamente perseguibile, a partire già
dalle mobilitazioni del 18 marzo, quelle della coalizione di Blockupy contro
l’inaugurazione della nuova sede della BCE di Francoforte, sia
l’intensificazione della transnazionalità “orizzontale” delle campagne europee,
sia la sperimentazione di nuovi dispositivi “verticali” di intensificazione e
di direzione politica.
3. Che sia chiaro. Non pensiamo affatto che il rapporto fra estensione
delle lotte e traduzione delle istanze in
proposta politica passi attraverso chi propone vecchi schemi. Autonomia del
politico, compromesso nazionale, mediazioni al ribasso: tutto ciò non ci appartiene.
Un metodo: a coloro che pensano di raccattare pezzi e volti, eccitandosi per la
vittoria di Syriza e candidandosi a rappresentarne l’identità, opponiamo il
nostro più completo disinteresse per operazioni di ricucitura di pezzi già
usurati dalle lunghe sequele di sconfitte. Occorre avere quell’intelligenza
collettiva per dar vita a modelli organizzativi innovativi, una capacità di
invenzione che soltanto le lotte possono dare. Le nuove forme organizzative
possono passare soltanto da un atteggiamento di sperimentazioni che mettano al
centro il comune e la composizione sociale degli sfruttati. Non siamo in Italia
di fronte al vuoto, all’inesistenza di luoghi di sperimentazione. Ciò che manca
è la costruzione di coalizioni costituenti. Le pratiche di welfare dal basso,
le riappropriazione di tempi e spazi, il sindacalismo sociale, i laboratori per
lo sciopero sociale, le lotte territoriali e contro lo spossessamento dei beni
comuni, sono spazi non vuoti, anzi, sono luoghi ricchi di potenzialità politiche,
sono matrici anche di nuovi modelli organizzativi.
Crediamo fermamente che senza una decisa presa di congedo dalle forme
organizzative presenti ora a sinistra –
e anche da un personale politico non più ripresentabile – sia davvero
inimmaginabile una reale sperimentazione politica all’altezza delle
trasformazioni radicali del campo europeo. Ma questa convinzione non deve
autorizzarci a nessuna pigrizia sul lato delle lotte e dei movimenti sociali.
Lo si diceva in apertura: sono proprio gli esiti attuali dei movimenti
antiausterity che spingono alla revisione complessiva delle pratiche politiche,
se non dell’agire politico in quanto tale. Va portata certo sino in fondo la
critica alle forme rappresentative residuali e sopravvissute – la critica a
chi, per esempio, con scarso senso del ridicolo, proponeva, proprio il giorno
della vittoria di Tsipras, un “coordinamento delle doppie tessere” tra i
dirigenti delle varie famiglie di sinistra in sofferenza rispetto al renzismo;
va sgomberato il campo da quelle pratiche, dai quei linguaggi, e anche da chi
li incarna. Ma tutto questo si fermerebbe a lamentevole recriminazione, e
rischierebbe anzi di confondersi con quella retorica della rottamazione che in
Italia ha coperto il più bieco continuismo di potere, se non si affermasse
contemporaneamente e con la stessa decisione la necessità di un salto politico,
di una discontinuità complessiva anche nell’azione dei movimenti e nei processi
di lotta.
Hic Rhodus hic salta! È un salto che va compiuto subito: con un’intensificazione
costituente e di lotta, di mobilitazione e di traduzione. È dirimente tenere aperti tutti
questi fronti: produzione di istituzionalità autonoma, estensione delle lotte a
livello europeo, e, contemporaneamente, fuoriuscita dal campo di una presunta
innocenza politica del sociale, o della produzione di “opinione”, più o meno
conflittuale. Il che significa portare nel cuore dell’azione dei movimenti e
delle lotte sociali il problema dell’esercizio del potere politico, non, per
chiarirci, quello di trovare una qualche rappresentanza dei movimenti. Tanto
Syriza quanto Podemos non hanno sottratto forza alle lotte o catturato i
movimenti pretendendone la rappresentanza, bensì hanno costruito dispositivi
perché i movimenti potessero potenziare la propria efficacia politica reale, la
propria capacità di esercitare la forza per imporre al nemico pezzi di
trasformazione politica. Una differenza non da poco rispetto alla biografia
della sinistra radicale o meno della provincia italiana.
4. Insistiamo infine ancora su un aspetto di quest’accelerazione dei
tempi della crisi e delle resistenza. È
la particolare intensità qualitativa di questo momento di salto nella crisi:
l’avvertiamo come un momento di non ritorno. Le resistenze dei Sud si fanno
strada, la governance della crisi a sua volta incrementa modalità e ritmi di
intervento. Ma tutto questo significa anche che difficilmente potrà
ristabilirsi l’equilibrio dello sfruttamento “ben temperato” sul quale si era
attestato il gioco tra “integrazione” funzionale e “diritto dell’eccezione”
nello spazio europeo, tra forme inclusive ed espansive della cittadinanza
europea e imposizione degli imperativi monetaristi e neoliberali.
Quell’equilibrio, comunque sia, è rotto: non sarà mai più su quel tipo di
compromesso che potrà riassestarsi il governo dell’Europa. Questa è
probabilmente la radice della crisi delle socialdemocrazie europee, spinte alla
trasformazione neoliberale, e all’estinzione in quanto socialdemocrazie
classiche. I movimenti nel Sud mostrano ora la divaricazione: o l’apertura di
uno spazio altro rispetto all’alternanza e/o consociazione tra neoliberali
conservatori e socialdemocratici (anche se questo spazio può assumere
nell’immediato tratti classici “difensivi” del welfarismo statale classico,
come nel programma di interventi immediati contro la povertà del governo greco)
oppure la ricaduta indietro in forme nazionalistiche, ultrasovraniste e
fasciste.
Si è discusso molto della spregiudicata apertura di Tsipras a un
partitino populista e nazionalista: non ci entusiasma l’esercizio di
politologia in casa altrui, e comunque i primi atti del governo greco sono
tutti indirizzati a rimarcare la portata europea della lotta contro la Troika.
Benissimo! Però il punto è che la ricaduta fascista è in realtà un rischio
terribilmente immanente a questa fase di rottura degli equilibri, non è legato
all’una o all’altra malaccorta manovra. E proprio per questo, è indispensabile
intensificare la connessione transnazionale delle lotte e, insieme, non restare
incantati né alla restaurazione delle antiche rappresentanze, né alla
contemplazione dell’astratta purezza della forma-movimento o della separatezza
del “sociale”. Impiantare all’interno dell’azione dei movimenti dispositivi
robusti di capacità di governo e di direzione politica, di forza e di solidità
nell’agire per la trasformazione radicale dello spazio politico è un passaggio
urgente per evitare fascismi e nazionalismi. L’alternativa è tra la conquista
di quanto più potere è possibile da parte di organizzazioni ben radicate nel
comune, per guadagnare finalmente alla cooperazione sociale le funzioni di
decisione politica, o la frattura dello spazio europeo nella barbarie. Come
dicevano, con una rapida ed efficace semplificazione, nella manifestazione di
Podemos a Madrid di sabato scorso: non siamo più a chiedere o a protestare, ma
a prendere le istituzioni per riconquistarle al popolo.