di Biagio Quattrocchi
È possibile, alla luce dell’azzardo di Syriza e di
Podemos, «rompere il dispositivo politico keynesiano»? È possibile fare un «uso
politico non-keynesiano del keynesismo»? È possibile immaginare e praticare
nuove forme di congiunzione tra lotta economica e lotta politica capaci di
riaprire spazi di democrazia?
Recentemente Sandro Mezzadra e Toni Negri hanno
aperto, per il collettivo Euronomade, una riflessione sulla concatenazione
dell’imminente appuntamento elettorale in Grecia e su quello successivo, che si
terrà in Spagna verso la fine dell’anno. La posta in gioco di questo doppio
passaggio elettorale, senza nessuna retorica e senza alcuna particolare ingenua
illusione, resta elevata. Non è in discussione né la rottura lineare del regime
neoliberale europeo, né, nel tempo immediato, la definizione di un progetto
compiutamente post-liberista su scala continentale. Ma si potrebbe trattare pur
sempre di una rilevante rottura politica, qualora le più rosee previsioni
elettorali per le due “nuove formazioni di sinistra” – Syriza e Podemos –
dovessero essere confermate. Per cui, come scrivono gli autori: «questo non ci
impedisce di cogliere la rilevanza che specifiche elezioni possono avere dal
punto di vista della lotta di classe». Per noi, che pratichiamo la politica a
partire dalla centralità delle lotte sociali, è in discussione innanzitutto la
relazione tra queste lotte e la “verticalità” del soggetto politico. O, ancor
più in là, il rapporto tra queste ultime due dimensioni dell’azione politica,
quella istituzionale del governo e l’apertura di un terreno costituente per
l’auto-organizzazione del Comune.
La
rilevanza e l’urgenza di questo dibattito, è data dalle condizioni materiali
che si sono concretamente determinate in questi due paesi. Il punto non è
quello di discutere su un piano di trascendenza se le relazioni poc’anzi
accennate possono essere in assoluto pensate o agite. Qui, si tratta di
comprendere che in questi due paesi, nella violenza dell’attuale crisi, le
lotte sociali in qualche caso hanno spinto, in altri hanno direttamente assunto
su di sé, questo nuovo e inedito piano dell’agire politico. Eludere queste
questioni sarebbe come giocare a mosca cieca. Al contempo, eludere il rischio
di un “riassorbimento” delle stesse lotte sul piano istituzionale sarebbe da
stupidi.
Syriza
e Podemos sono due diverse forze politiche. Diverso è il rapporto con i
movimenti. Diverso è il modello organizzativo interno. Altrettanto diverso è il
loro richiamo alla “tradizione” politica e culturale della sinistra socialista
(o comunista). La prima organizzazione rivendica un terreno di internità e di
maggiore continuità con la storia. La seconda opera una rottura, aprendosi al
populismo nella accezione di Laclau. In entrambi i casi, però, tali
organizzazioni sembrano lavorare per un rinnovamento del “laboratorio
socialdemocratico” in Europa ed è questo il nodo insieme rilevante e
problematico su voglio concentrarmi.
Dal
programma di Syriza, si legge della volontà (trovate le condizioni per
l’eventuale formazione del governo) di riaprire una contesa con le istituzioni
europee ed internazionali (Commissione, BCE e FMI) per la «rinegoziazione del
debito pubblico» e, contestualmente, per la rottura della spirale
dell’austerity attraverso un programma espansivo di politica fiscale. Lo scopo
è minare alla base alcuni dei principi ordoliberali contenuti nei regolamenti e
nella disciplina di bilancio dell’unione monetaria. Benché non esaustive, dal
punto di vista della fine – o solo dell’ammorbidimento – degli effetti sociali
della crisi, le due questioni sono certamente rilevanti, in sé e nel porre il
problema sulla scala europea, aprendo alla possibilità di rompere gli equilibri
interni al management della crisi, senza necessariamente
chiudere ai movimenti la possibilità di riarticolare uno spazio di azione nella
geografia dell’Europa. In più, cosa di non poco conto nella fase attuale, si
tratta di un piano discorsivo che sembra sottrarsi all’ordine del discorso
“uscita dall’euro vs sostegno alla moneta unica così com’è”.
Lasciando, invece, aperta la possibilità ad una critica radicale dell’attuale
sistema istituzionale del “circuito della moneta” europeo.
A
ben vedere, così come è stato già sottolineato da altri, si tratta di un
programma che punta a recuperare (o almeno si mostra coerente con) un piano di
politica economica post-keynesiano. Centralità della domanda
effettiva, rottura dell’indipendenza della BCE dal Tesoro, coordinamento
con la politica fiscale, (presunto) recupero dello Stato come agente capace di
“programmare” indipendentemente dalla razionalità del mercato. Ma come spesso
accade all’interno dello stesso dibattito teorico post-keynesiano,
i due corni dell’economia politica finiscono per perdere forza e la
dimensione politica finisce per non mordere. Riemerge quell’incrollabile
«naturalismo» politico dei post-keynesiani, che magari pensando che
il neoliberismo sia stato nient’altro che una riedizione del laissez-faire
tendono a pensare che sia sufficiente, come si fa per i morti, riesumare
dall’oltretomba lo Stato liberale keynesiano.
Abbiamo
imparato che la questione del “keynesismo storico” (o “reale”), sul piano
politico, è stata una vicenda assai più complessa di quanto ce la raccontano
per lo più, ancora oggi, gli stessi post-keynesiani. Per sir John
Maynard Keynes i fatti erano strettamente integrati tra loro, o almeno così lo
sono stati nel “keynesismo reale”. Lo Stato-piano controllava attraverso la domanda
effettiva la stabilità del ciclo economico, programmando l’apertura di
mercati. Definendo talvolta cosa e come produrre.
Contestualmente il controllo della domanda effettiva rifletteva, sul piano
politico, il tentativo di «democratizzazione del ciclo economico». Al centro di
questa costruzione figurava il partito-massa, innestato saldamente nella
struttura istituzionale della rappresentanza. E ancora più a fondo, la forza
del movimento operaio, che attraverso le lotte salariali è stato capace di
imprimere una dinamica espansiva tenendo insieme crescita economica,
occupazione, miglioramento delle condizioni riproduttive e democrazia. Fino a
minacciare, nei punti alti delle lotte, la compatibilità interna di questa
costruzione, aprendo inediti spazi di liberazione. Ma la storia del keynesismo,
le sue profonde contraddizioni, le sue forme di comando sulla forza-lavoro, sui
corpi, le abbiamo più volte discusse, e non vale la pena di continuare a farlo
qui.
Abbiamo
anche imparato da Foucault che nel tempo presente le molteplici forme-Stato del
neoliberalismo, oltre ad introiettare dentro di sé la razionalità del mercato –
facendo quindi dello Stato un agente che opera per il mercato
– hanno prodotto una separazione sempre più rilevante tra intervento statuale e
democrazia. E’ lo Stato, non certamente scomparso nel lungo ciclo neoliberale,
che ha continuato e continua a governare insieme alle altre istituzioni i
violenti meccanismi “estrattivi” del capitale finanziario. La democrazia,
quindi, ha perso la sua forza espansiva e della crisi della rappresentanza
istituzionale mi sembra che oramai neppure più l’establishment ne
faccia mistero.
Per
giunta, se si svolgesse fino in fondo il discorso post-keynesiano,
così come viene fuori dai suoi laboratori accademici più intelligenti, come il Levy
Economics Institute di New York, si
troverebbe la loro quasi costante insistenza sul recupero della “sovranità
nazionale”. E’ l’altra faccia del discorso che “in una certa sinistra” si fa
sulla rottura della moneta unica, e principalmente sul ritorno alle monete
nazionali. Come si fa a non capire che “sovranità nazionale”, in assenza dei
contropoteri a cui prima facevamo riferimento, oggi sarebbe solo una terribile
tragedia? Come fare a non vedere, per esempio dopo i tragici fatti di
Parigi, che il tema della sovranità nazionale è già tutto occupato dalle
“consorterie neoconservatrici” e dai fascismi?
Uso
un’espressione ancora provvisoria, ma che mi aiuta a puntare i piedi dritti su
una questione. È possibile, alla luce dell’azzardo di Syriza e
di Podemos, «rompere il dispositivo politico keynesiano»? O, se preferite: è
possibile fare un «uso politico non-keynesiano del keynesismo»?
Si
tratta di immaginare e di praticare nuove forme di congiunzione tra lotta
economica e lotta politica, capaci di riaprire spazi di democrazia.
E’
stato correttamente osservato da Christian Marazzi che nel passato la relazione
salariale, e quindi la lotta sul salario, ha avuto la forza di «comprendere la
vita nella sua interezza». Perché oltre a riguardare il momento diretto della
produzione (quindi il potere interno ai luoghi di produzione), gli aumenti
salariali, attraverso il welfare beveridgiano, assicuravano la
formazione, il pensionamento e così diversi altri momenti della vita. La
rottura di questi legami, di queste «consequenzialità», deve suggerire una
nuova articolazione delle lotte.
La
riapertura di un programma di politica fiscale espansivo, dicevamo, deve
incontrare la pressione della lotta sociale sul terreno del reddito di base
incondizionato, allo scopo di favorire nello spazio sociale riproduttivo quanto
c’è di comune nelle relazioni sociali. Allo stesso tempo, questa rottura dall’alto
relativa alla spesa pubblica deve incontrare la sperimentazione di modelli di
auto-organizzazione di servizi mutualistici nel campo del welfare del
comune. Sarebbe, quest’ultimo, un terreno concreto di espansione e
consolidamento di nuove istituzioni sociali, capaci di riaprire contropoteri
diffusi ed esperienze di democrazia diretta. E potrebbe, per giunta, fare leva
su prototipi che già si stanno dando in Grecia come quelli della rete Solidarity
for all, oppure in Spagna, nelle diverse esperienze mutualistiche germinate
dal 15-M. È in questo senso che intendo,
provvisoriamente, «rottura del dispositivo politico keynesiano». E se non fosse
ancora chiaro, la questione è quella di affinare nella concretezza di questa
fase storica le armi della critica dell’economia politica.