di Joe Vannelli
Il
24 dicembre 2014 il governo Renzi ha approvato il testo dei primi due decreti
attuativi collegati alla legge delega 10 dicembre 2014 n. 183, nota come Iobs Act. Il primo decreto
riguarda i licenziamenti (sono 12 articoli); il secondo decreto (16 articoli)
contiene invece le nuove norme sulla indennità legata alla disoccupazione
(involontaria naturalmente, con esclusione delle dimissioni)
Il
meccanismo utilizzato non è di agevole comprensione per chi non sia un addetto
ai lavori. In buona sostanza con il varo della legge delega l’esecutivo non ha
più bisogno dell’approvazione parlamentare e dunque i decreti (una volta
pubblicati in Gazzetta Ufficiale) sono ad ogni effetto in vigore. Ma va detto
(ad evitare equivoci) che allo stato il percorso non è ancora concluso e che
non possano escludersi modifiche (nel bene o nel male; più facile la seconda
ipotesi vista la situazione politica). Nel seguito andrò ad esaminare le
novità, per come attualmente codificate, senza poter escludere gli
aggiustamenti di tiro che potenti gruppi di pressione richiedono in danno dei
pur già bastonatissimi lavoratori (fissi e precari, autonomi e subordinati,
tutti quanti). I due testi, varati con gran fretta, sono in discussione nelle
commissioni lavoro della Camera e del Senato; in entrambe le commissioni gli
unici a opporsi davvero sono i gruppi di Cinque Stelle (un po’ assottigliati) e
di SEL (falcidiati, specie al Senato, dagli arruolamenti nelle furerie
renziane, a partire dal capogruppo Migliore). La sinistra del PD (rappresentata
da Fassina e Damiano) infatti si limita a fingere di contrastare gli eventi,
puntualmente approvando a fine corsa (con o senza fiducia) qualsiasi
nefandezza. In ogni caso le commissioni non hanno alcun potere di modificare,
possono solo proporre variazioni motivate che il governo
rimane libero di accogliere o disattendere. In linea di massima entro febbraio
avremo le nuove leggi vincolanti.
Primo
decreto. La disciplina dei licenziamenti e le cosiddette tutele crescenti.
I
12 articoli si applicano solo ai nuovi contratti di lavoro, per chi ha
attualmente un rapporto a tempo indeterminato si continua dunque ad applicare
il vecchio impianto di tutela (pur affievolito pesantemente dalla precedente
riforma Foriero). Ma, attenzione, per nuovi assunti non si intende
affatto l’ingresso al lavoro ma qualsiasi contratto (anche per
chi sia vicino magari alla pensione) sottoscritto, per qualsiasi ragione, dopo
la pubblicazione dei decreti. La differenza non è di poco conto. Pensiamo ai
cambi di appalto (pulizie, logistica, manutenzione, sanità, terzo settore); il
fenomeno è fisiologico, molto frequente. Con il cambio di gestione il
lavoratore viene assunto dall’impresa che subentra, ma si tratta pur sempre di
un nuovo contratto. Dunque con il nuovo appaltatore trova ingresso il
nuovo contratto delle cosiddette tutele crescenti. E lo stesso vale per
chiunque cambi lavoro o per chi finalmente arrivi alla stabilizzazione dopo la
trafila dei contratti a termine o dei contratti a progetto. Il turn
over nelle singole imprese è abbastanza elevato, così che in tempi
piuttosto rapidi i lavoratori garantiti diventeranno una minoranza.
La
reintegrazione si riduce ai pochissimi casi di licenziamento orale o
discriminatorio (nell’ordinamento italiano, a differenza di quello anglosassone
che mette a carico delle società la prova della non discriminazione,
è il lavoratore a dover provare che la discriminazione esiste, così che di
fatto l’operaio o l’impiegato italiano è ora meno tutelato in caso di
licenziamento rispetto all’operaio o impiegato inglese o americano). I
licenziamenti per discriminazione accertata (ovvero provata in giudizio) si
contano, in un anno, sulle dita di una mano. Per la generalità dei casi viene
cancellata dall’ordinamento la possibilità di essere riassunti, a prescindere
dal numero dei dipendenti.
Quando
il licenziamento risulta intimato senza rispetto delle procedure e delle forme
(per esempio mancata contestazione preventiva di un addebito disciplinare) la
sanzione è da 2 a 12 mensilità, senza reintegrazione (articolo 4). In tutti i
casi di licenziamento accertato come illegittimo comunque non esiste
reintegrazione, ma la sola indennità economica risarcitoria da un minimo di 4 a
un massimo di 24 mensilità (articolo 3). Come si calcola l’indennità? Si
calcola nella misura di 2 mensilità per ogni anno si servizio (sempre con il
limite massimo e minimo). Per capirci: dopo 4 anni di lavoro l’impresa decide
di cacciare un dipendente senza motivo? Versa otto mesi e se ne libera
all’istante, senza dare spiegazioni. Le uniche eccezioni (davvero ipotetiche)
riguardano il licenziamento per motivi disciplinari, ma solo quando il lavoratore
dimostri l’inesistenza del fatto e non la semplice
sproporzione (solo un datore di lavoro idiota potrebbe incappare in una simile
eventualità) oppure quando la risoluzione del rapporto si fondi su una
inidoneità fisico-psichica risultata inesistente (e anche qui parliamo del
nulla). Naturalmente sotto i 15 dipendenti non cambia nulla, rimane il limite
di sei mensilità come prima. Le regole valgono anche in caso di licenziamento
collettivo dei nuovi assunti (sparisce anche in questo caso la reintegrazione).
L’articolo
7 del decreto riguarda gli appalti: il decreto conferma che si tratta di nuove
assunzioni (e dunque esclude la reintegrazione), ma ai soli
fini del calcolo del danno considera l’anzianità complessiva
nell’attività (dunque la continuità del lavoro). Il posto è perso, ma la monetizzazione
è più alta. Non è solo uno scrupolo di equità; il governo temeva che i
lavoratori potessero invocare la direttiva europea sulla cessione di attività e
con questo stratagemma intendeva porre al riparo da sorprese le aziende. Ma su
questo punto la battaglia giudiziaria presenta qualche spazio.
Per
agevolare le aziende e sconsigliare le azioni giudiziarie, l’articolo 6
consente alle imprese di offrire una mensilità per anno lavorato (minimo 2,
massimo 18) con un assegno a saldo, esentasse. Chi lo incassa rinunzia ad
impugnare il licenziamento. Oltre all’incidenza fiscale (fra il 23 e il 30%)
che già riduce assai la forbice fra transazione e vittoria piena e allo stato
di bisogno di chi ha perso il posto, va calcolato il timore del rischio di
causa (i Giudici del Lavoro, adeguandosi alle direttive ministeriali,
condannano i lavoratori alle spese di processo, in misura spesso assai pesante,
da 3 a 5 mila euro, con un effetto inevitabile di timor panico). Il numero di
oppositori è facile prevedere che sarà esiguo, grazie a questa norma che libera
le aziende anche dal peso fiscale e contributivo legato alle proposte di
accordo; e minore è anche il costo delle nuove assunzioni (per la sola parte
datoriale).
L’articolo
11 introduce infine la ricollocazione ed è stato sbandierato
come la grande novità in favore dei licenziati. In sostanza il licenziato può
andare in agenzia e incaricarla di trovare un nuovo lavoro (ma deve poi
prestarsi gratuitamente a corsi di formazione e sempre gratis rendersi
disponibile per ogni iniziativa dell’agenzia); l’agenzia viene
pagata solo se riesce nell’intento. Salvo sorprese e imprevisti si tratta, con
tutta evidenza, di una ulteriore (inutile) presa in giro; nel sistema ormai
consolidato di lavoro a chiamata una simile previsione è destinata a rimanere
astrazione per la gran parte del serbatoio di manodopera, valido solo per una
minoranza di dirigenti o specializzati che già ne usufruivano di fatto con gli
accordi sindacali in occasione delle riduzioni di personale. Il mondo dei precari
si avvale di caporali, di passaparola, di segnalazioni in rete; i rapporti
lavorativi sono sempre brevi e intermittenti, incompatibili con una struttura
complessa e burocratica come quella dell’art. 11, valida solo per mansioni di
nicchia (un saldatore marino specializzato, un conduttore di cingolati nei
cantieri esteri, un elettricista per le manutenzioni) che comunque già prima
non avevano problemi ad inviare curriculum presso le agenzie dei cacciatori di
teste (normalmente a spese aziendali). Si tratta dunque, eliminate le
suggestioni della propaganda, di una totale liberalizzazione dei licenziamenti,
di una aggressione senza precedenti al sistema di tute e di diritti dei
lavoratori italiani. Le lancette dell’orologio tornano indietro, fra il 1966 e
il 1970; mutano i rapporti di forza.
Il
trattamento di disoccupazione. Secondo decreto
I
16 articoli del decreto relativo al trattamento di disoccupazione delineano
(senza oneri di spesa aggiuntiva, va detto subito con chiarezza) una nuova
struttura di sostegno temporaneo a chi ha perso il lavoro. Diminuisce la tutela
per gli occupati stabili (al sud, nei casi di mobilità per chi avesse
compiuto 50 anni, era di 4 anni complessivi, non di rado al termine di lunghe
CIGS); ma si apre ai collaboratori a progetto.
Già
dal 1 gennaio 2015 le tutele erano state tagliate dalla legge Fornero (e non di
poco: per esempio da 3 a 2 anni per gli ultracinquantenni). La nuova Naspi (che
sostituirà dal 1 maggio 2015 la vecchia Aspi) prende in considerazione l’ultimo
quadriennio (almeno 13 settimane nel quadriennio e almeno 18 giornate negli
ultimi 12 mesi). Detto così sembrerebbe una cosa buona, ma gli articolo 4 e 5
massacrano le speranze. La durata del trattamento è infatti pari a metà dei
periodi effettivamente lavorati; si prende la retribuzione media mensile dei
periodi lavorati (con una forbice di assegno che va dal 75% della media
percepita ad un massimo lordo di 1300 euro) ma si ha anche una riduzione del 3%
al mese dopo il quinto mese. Comunque l’erogazione della Naspi ha un limite di
78 settimane (18 mesi) qualunque sia l’anzianità retributiva o contributiva; e qualunque
attività alternativa deve essere comunicata (e incide sull’assegno)
con obbligo (articolo 7 lettera b) di partecipare ai corsi di qualificazione e
(con provvedimento allo studio) di dimostrare una ricerca attiva di
occupazione alternativa. L’articolo 8 consente di avere anticipata in
unica soluzione qualora il lavoratore apra una nuova attività autonoma; ma
quando la nuova attività è poi quella di diventare socio-dipendente di una
cooperativa (una cooperativa magari prossima al mondo criminale, per esempio
quella di Buzzi a Roma!) allora intera anticipazione della Naspi
compete alla cooperativa e non al lavoratore. Non è fantastico?
Vediamo
in concreto che cosa accadrà. In un consorzio (l’articolo 8 non lo esclude
affatto) la cooperativa Pincopalla (che si è vista assegnare
dal consorzio l’esecuzione di un appalto per la pulizia di uffici) licenzia il
facchino signor Caio, dopo tre anni di lavoro dipendente; il signor Caio fa
domanda e ottiene la sua Naspi per 18 mesi a mille euro mensili. A questo punto
un’altra cooperativa del medesimo consorzio, la cooperativa Acchiapppafondi lo
assume come socio e dipendente e lo mette a fare il medesimo lavoro di
prima, per disposizione del consorzio che cambia l’assegnataria. La cooperativa Acchiappafondi si
prende 18.000,00 euro; magari si ripete l’operazione per tutti i 20 operai
dell’unità produttiva e senza fatica si incassano legalmente 360.000,00 euro
pubblici. Lo stesso meccanismo, con l’aiuto di abili consulenti, può essere
organizzato nelle mense, nei depositi della logistica, nel recapito dei colli e
nel trasporto in genere.
Domanda?
Chi è l’autore (l’estensore materiale o magari l’ideatore) di questa norma
meravigliosa, nascosta nelle pieghe del decreto, e fatta apposta per consentire
alle cooperative (e solo alle cooperative) guadagni stratosferici? Il ministro
del lavoro, Poletti, quale esperto del ramo (visto che era il rappresentante
condiviso dell’associazione che raggruppa le cooperative dei diversi
orientamenti), è in grado di offrirci qualche delucidazione in proposito? E il
senatore Ichino, normalmente attento ai dettagli, e studioso conoscitore (quale
avvocato giuslavorista difensore di consorzi importanti di cooperative) del
mutualismo, ci potrebbe offrire un qualche commento su questo risvolto?
Gli
articoli 15 e 16 contengono l’unica estensione favorevole ai prestatori (un
parziale reimpiego di quanto risparmiato riducendo altrove l’esborso); ovvero
un assegno di disoccupazione (al massimo semestrale) nei limiti dei fondi
disponibili e a peraltro con mille clausole di accesso nonché la Dis Coll per
i collaboratori a progetto.
Viene
escluso, per questi ultimi, il vasto popolo delle partite Iva e
limitato l’esborso pubblico (dal gennaio 2015) ai soli non dipendenti iscritti in
via esclusiva alla c.d.gestione separata (i cocopro per
intenderci). Bisogna avere almeno tre mesi di contribuzione nell’anno
precedente ed almeno un mese di attività nell’anno in corso; con un tetto di
1300,00 euro mensili lordi l’assegno è pari al 75% del reddito mensile
percepito in media, per un numero di mesi pari al 50% di quelli lavorati
nell’anno precedente (dunque con un limite massimo di sei mesi). Non è molto e
non riguarderà molti; ma in questo periodo di vacche magre è pur sempre qualche
cosa e va detto per correttezza di esposizione. Speriamo che qualche manina non
provveda a rimuovere l’unica norma decente in questo mare di guasti e di
aggressione ai lavoratori (precari e non).
Il
partito democratico getta la maschera.
Ce
ne occuperemo fra pochi giorni in un altro scritto, interamente dedicato
all’equilibrio politico e alle prospettive (ci corre l’obbligo della
costruzione di una ribellione per modificare lo stato di cose presenti e il
pessimismo, anche se fondato, non ci è consentito dalle circostanze).
Ma
fin d’ora rileviamo come la vicenda del Jobs Act abbia davvero
messo termine ad una vera e propria epoca. Nanni Alleva, nel Manifesto, ha
giustamente ravvisato nel comportamento della sinistra PD un tradimento
dei chierici. I voti al Senato di coloro che si erano dichiarati avversi
firmando un documento in tal senso si sono alla conta rivelati decisivi; se non
si fossero piegati la legge delega sarebbe stata respinta. Costoro ne portano
intera la responsabilità ed è giusto non averci mai più nulla a che fare, per
qualunque ragione; hanno scelto la parte avversa ed imboccato una via senza
ritorno.
Proprio
dopo aver ottenuto alle elezioni europee il 40% dei voti si sono scatenati nel
più feroce attacco ai lavoratori dell’era repubblicana, hanno fatto quello che
la destra non aveva mai osato fare.
Il
PD ha gettato la maschera e si mostra ora come il rappresentante violento del
liberismo; intende imporre con la forza l’esproprio dei diritti delle
moltitudini, trasformare in senso autoritario le istituzioni, far pagare il
costo della crisi ai precari e ai ceti popolari, impadronirsi delle risorse
ambientali anche a costo di distruggerle, cancellare le libertà.
Non
sono solo alleati della destra, sono i consapevoli complici degli apparati
liberisti e dell’oppressione finanziaria globale, non esitano ad avvalersi, per
imporre la loro governance, delle strutture criminali. Ma
hanno al tempo stesso chiarito la situazione, hanno eliminato ogni spazio di
mediazione. La vecchia talpa non ha smesso tuttavia di
scavare, sono cattivi e potenti ma al tempo stesso più fragili di quel che non
si pensi. Si apre, dopo il Jobs Act, un nuovo scenario che attende
nuovi protagonisti.