di
lanfranco caminiti
il cinquanta per
cento degli italiani se ne fotte dei partiti, vecchi e nuovi. Questo cinquanta
per cento, che sembra refrattario alle battaglie di rinnovamento del Pd, sia in
salsa liberale sia in salsa socialdemocratica, alle rifondazioni delle
rifondazioni comuniste, alle sirene del berlusconismo, alle sfuriate e alle
proteste del M5S, è una piaga o una riserva della democrazia e della
repubblica?
Di sicuro
c’è solo che si è votato. Ma la fluidità del comportamento elettorale è ormai
tale che diventa un busillis non solo predire con una qualche approssimazione
politica quel che succede ogni volta, ma anche quel che succederà la prossima
volta. Il cinquanta per cento degli elettori non va a votare. Dopo la Sicilia, dopo il Friuli,
in questa tornata di amministrative il fenomeno si è esteso a livello
nazionale, e a Roma sia per numero che per senso ha un significato
macroscopico. Identificare il profilo di questo “non elettore” è davvero
complicato, perché — è questo, a mio parere, il dato nuovo e perturbante del
sistema — non è sempre lo stesso soggetto [sociale, economico, geografico] a
andare a far parte di questo nuovo “blocco”. Qui il fenomeno, in un certo senso
dato per scontato da sondaggisti e spin doctor, di quel venti per cento di
resistenti e indifferenti alla liturgia democratica elettorale, quasi una
“plebaglia elettorale” di chi scribacchiava un insulto o preferiva il mare se
era la stagione buona o stiracchiarsi a letto se era una stagione fredda, si è
modificato in uno “zoccolo politico”. Da un sistema politico congelato in due
enormi blocchi, la Dc
e il Pci — che era il “segreto” funzionamento della Prima repubblica —, siamo
passati, attraverso il bipolarismo acciaccato di centrodestra e centrosinistra
della Seconda repubblica che avrebbe dovuto ammodernarci nel normale ricambio
di governo tra uno schieramento e l’altro, a una spaccatura tra chi vota e chi
no, che sembra la formula nuova della Terza repubblica. Il cinquanta per cento
degli elettori italiani non va a votare con una motivazione politica “forte”.
Il “fattore A”, A come astensione, è andato a sostituire il “fattore K”, come
Kommunismus, che era la “norma fondamentale”, la Grundnorme della Prima
repubblica. Solo che il fattore K era un elemento di “stallo” e fu intelligenza
comunista quella di governare dall’opposizione. Il fattore A è invece un
elemento di instabilità e non si vede ancora chi riesca a governarla — mi
sembra poca cosa il ragionamento di chi considera automatico un rafforzamento
del governo Letta. «Uno vale uno», che sarebbe il principio democratico
introdotto dal 5 stelle, non è più vero, perché uno non va a votare e se ne
fotte.
La
retorica del lavoro e quella di internet
Ci sono
due fenomeni che in qualche modo si possono accostare, senza sovrapporsi, a
questo, di una metà di elettori che non esercitano più il loro diritto/dovere
di voto. Il primo è quello riguardante le persone che non cercano più lavoro,
perché non lo trovano, e sono scoraggiati tanto da non mettersi più in fila,
non consultare gli elenchi ai Centri per l’impiego, non mandare in giro
curriculum, non bussare più ad alcuna porta, non chiedere neppure più alla
cerchia degli amici e dei parenti; sommando i circa tre milioni di inattivi con
i circa due milioni di disoccupati arriviamo a una cifra consistente che va vicino
alla metà della forza lavoro disponibile, con grosse concentrazioni tra le
donne e i giovani e nel Sud, quindi con notevoli squilibri nella distribuzione
regionale. Detto tra parentesi, a guardare questi dati viene da pensare quanto
sia ideologica e indecente la posizione di chi è contrario all’introduzione del
reddito minimo di cittadinanza perché “scoraggerebbe” le persone dalla ricerca
di un lavoro, acquietandole in un universo assistito, e in definitiva di
parassitaria sopravvivenza. Ideologica perché sembra aggrappata a un universo
di riferimento dell’occupazione di massa e della produzione affluente che
nessuna ripresa e nessuna crescita potrà mai più garantire; e indecente perché
hanno la faccia di tolla di dirlo con l’aria di chi di preoccupa per te e cerca
il tuo bene, quando lo “scoraggiamento” da non lavoro è già un dato di fatto.
L’altro fenomeno da accostare riguarda la diffusione di internet e della rete e
dei social network, di cui si fa un gran parlare per la sua influenza politica
e per la deliberazione democratica, e che in realtà resta confinato a ventinove
milioni di italiani — peraltro in statistiche di ammucchiate comuni dove gli
utenti più pervicaci stanno assieme a quelli che in rete ci vanno solo una
volta al mese e magari solo per la posta elettronica —, con una distribuzione
più intensa in alcune province e non in altre, diverse zone del Sud connesse
poco e male, e con venti milioni che non frequentano la rete e che sembrano
indifferenti, refrattari [non gliel’ha mica consigliato il medico, e non è
mutuabile], ma continuano a vivere benissimo senza e, soprattutto, a poter
mantenere, se si vuole, un buon livello di informazione sugli eventi attraverso
strumenti più tradizionali: la radio, moltissimo, la televisione, i giornali locali.
Potremmo dire — con beneficio d’inventario, certo — che metà del paese è
“separata in casa” dall’altra metà. Non è propriamente una divisione geografica
e non è neppure una divisione verticale, nel senso che non si riconoscono
facilmente questioni di reddito, di sicurezze sociali, di appartenenza e
identità, di ruolo, di età, che in qualche modo renderebbero similare una metà
e altrettanto quell’altra. Invece, non è così. Le due metà non sono speculari,
e alcuni caratteri di densità — per la mancanza di lavoro il fatto che la
concentrazione più alta stia fra i giovani, oppure fra le donne e comunque dove
bassa è la scolarizzazione, per la connessione il fatto che le persone anziane
siano le più refrattarie e le aree metropolitane più periferiche come i comuni
più piccoli, mentre invece scolarizzazione, età e status rendono più similari
gli utenti forti, in generale perché nel Sud le negatività sembrano maggiori —
contraddicono ogni semplificazione sociologica.
Political
divide e implosione sociale
Mutuando
un termine legato alla diffusione di internet, il digital divide, parlerei
proprio di un political divide. È qualcosa di molto diverso dall’antipolitica,
di cui si è tanto parlato e si continua a fare — io, poi, credo che il
Movimento 5 Stelle, sempre tirato in ballo, rappresenti semmai l’arcipolitica —
perché, come per quel fenomeno legato al lavoro, c’è uno scoraggiamento,
perché, come per quel fenomeno legato alla connessione alla rete, c’è una
indifferenza, o meglio: una consapevolezza dell’impossibilità di costruire una
relazione qualunque di vantaggio fra se stessi e la rete. Una volta c’era “la
maggioranza silenziosa”, non protestava, ma votava. E faceva pesare col voto le
proprie opinioni, le proprie preferenze, le proprie ossessioni. In un tempo in
cui “prendere parola”, scendere in piazza, protestare, lottare, era la
democrazia, sottrarsi nel silenzio in penombra del voto era conservatore,
reazionario. Qui invece sembra affermarsi qualcosa di diverso. Questo cinquanta
per cento, che sembra refrattario alle battaglie di rinnovamento del Pd, sia in
salsa liberale sia in salsa socialdemocratica, alle rifondazioni delle
rifondazioni comuniste, alle sirene del berlusconismo, alle sfuriate e alle
proteste del M5S, è una piaga o una riserva — come suol dirsi ripetutamente
adesso a ogni piè sospinto — della democrazia e della repubblica? Non siamo gli
Stati uniti, dove da tempo ben più della maggioranza degli elettori non si
iscrive ai registri e non partecipa al voto. Tra una cosa e l’altra, un presidente
americano — cioè il leader della più grande potenza della storia — è al comando
con circa un venti per cento dei cittadini che lo hanno scelto. Ma a parte le
differenze di grandezza e di storia, i partiti in Italia sono stati la grande
scuola della democrazia, della partecipazione, della promozione sociale. E chi
non faceva vita politica aveva mille altre occasioni per partecipare alla vita
sociale. Da noi invece, la vita economica è strettissima e la vita sociale si è
andata progressivamente sfaldando. E se le pulsioni sociali non hanno voice,
non hanno exit, per riprendere le categorie di Hirschman, tendono a implodere
anche drammaticamente.
Si può
vivere senza partiti?
Daniel
Cohn-Bendit, il ragazzo anarchico che partendo da Nanterre infiammò le barricate
del Maggio francese, l’ebreo tedesco espulso dalla Francia che fece urlare nei
cortei del 1968 «Nous sommes tous juif allemandes», il fondatore, con Joschka
Fischer, del movimento dei Grunen, i Verdi tedeschi, i Realo pragmatici che
hanno avuto un ruolo importante nella politica della Germania degli ultimi
venti anni, l’europarlamentare che si è battuto per difendere e diffondere i
temi ecologici in Europa, non si ricandiderà alle elezioni. Cohn-Bendit ha
condensato in un piccolo libro — una cinquantina di pagine — da poco arrivato
in libreria una serie di convincimenti maturati nel tempo: Pour supprimer les
partis politiques!? Réflexions d’un apatride sans parti, Editions Indigènes,
che è insieme una rapida autobiografia e un pamphlet contro il partito politico
— qualsiasi, possiamo supporre anche il “suo”, dei Verdi —, questo artificio
che dalla rivoluzione giacobina passando per la rivoluzione d’Ottobre e le
riflessioni di Weber si è incistato nel continente. Il titolo del pamphlet di
Cohn-Bendit riecheggia un altro piccolo grande libro, della filosofa e
militante Simone Weil, scritto nel 1940: Note sur la suppression générale des
partis politiques. Cohn-Bendit, che non ha alcuna intenzione di abbandonare la
scena pubblica, pensa che siano necessarie piuttosto forme di cooperazione, di
associazione fra cittadini per portare avanti proposte, proteste e per
conquistare «l’autonomie». Per quanto possa essere interessante, e lo è, per
quello che una biografia può raccontare di un periodo storico e del suo
lascito, la dichiarazione di intenti di Cohn-Bendit sembra più una presa d’atto
che un programma. Voglio dire: i partiti politici sono già soppressi, c’è poco
da interrogarsene e agitarsene in merito. Non credo che la disaffezione quando
non l’ostilità ai partiti politici — di cui l’Europa sta sperimentando varie
forme, un po’ dovunque, dalla crescita dell’astensione al proliferare di
movimenti apertamente contro i partiti alla rinascita di movimenti identitari,
territoriali— sia solo una questione “politica”, dipenda cioè esclusivamente
dalla crisi delle ideologie e degli orientamenti che hanno caratterizzato il
Novecento. Credo piuttosto che la crisi dei partiti politici debba essere
ricondotta alla crisi dell’universalità e alle modificazioni produttive. L’una
e l’altra — universalità e produzione — sono le strutture della rappresentanza
politica, della cittadinanza. La storia europea dal Seicento al Novecento è
storia dello Stato, senza lo Stato — il suo monopolio della forza, il patto di
obbedienza in cambio di sicurezza — saremmo condannati alla frantumazione,
all’implosione, alla sopraffazione, alla guerra intestina. È in questa
“visione” che sta la centralità dello Stato e trova ragione lo strumento del
partito politico per conquistarlo o per mantenerne il comando. La storia dello
Stato del Novecento è stata storia di conflitti tra partiti del proletariato e
partiti della borghesia, tra partito del capitale e partito del lavoro. Ed è
stata una storia grande. Era qui — capitale e lavoro — la materialità del
partito politico. La materialità del conflitto e del compromesso. Si può ancora
dire oggi che esista un partito del capitale, il “comitato d’affari della
borghesia”? E, di converso, si può ancora dire che esista un partito del
lavoro? Sembra piuttosto che capitale e lavoro siano senza un partito
“proprio”, sembra anzi che ne facciano bellamente o mestamente a meno. Il
capitale, inoltre, può fare a meno dello Stato, dello Stato-nazione, ha
dismesso lo Stato, e per questa via il lavoro [il lavoro che produce] non può
più usare lo Stato ai propri fini. Lo Stato è un involucro vuoto, o meglio un
apparato privo di senso e di scopo — guardate com’è carta straccia la nostra
Costituzione —, tranne la propria riproduzione. In questo “parassitismo” è
rimasto intrappolato il partito politico. I processi multitudinari — la
scomposizione della classe operaia dalla sua unicità in mille prestazioni
d’opera, una volta che la fabbrica e il suo modello di produzione non è stato
più il parametro delle relazioni sociali — hanno investito in pieno la
“borghesia”, frammentandone a sua volta la sua unicità di comportamento, di
status. Il comando dei processi come l’investitura di una missione sono passati
direttamente alle nuove élite. Transnazionali come il denaro. L’atomizzazione,
l’individualizzazione non sono stati processi che hanno colpito solo il
“proletariato”, ma anche le classi medie. Per un verso si è tutti “ceto medio”,
per un altro si è sempre tutti a rischio di scivolare dall’inclusione verso
l’esclusione.
Riappropriazione
del voto e critica della politica
Un
comportamento sociale così massiccio come l’astensione al cinquanta per cento
non può più essere letto solo come uno degli aspetti di liquidità sociale o di
“crisi della rappresentanza politica”, che sposta l’attenzione e il focus sulle
questioni dei partiti e dell’esercizio della trasmissione della delega,
tralasciando la soggettività politica del soggetto che esercita il “non voto”.
Piuttosto, sembra una “opzione politica”, cosciente e determinata: una critica
della politica. Qui dunque stiamo: la politica, intesa come costruzione di un
consenso e esercizio della sua forza non è certo scomparsa. Anzi, cresce la
consapevolezza di questa necessità. È sui territori, nella vita quotidiana che
si sperimentano forme nuove di associazione tra liberi e uguali. Tra movimenti
e istituzioni si apre una dinamica nuova, di conflitto e compromesso quando
necessario, che è tutta da costruire e scoprire.
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