di Fausto Bertinotti
l'accordo non vede
coinvolti i sindacati non confederali, né prevede che lo siano in futuro.
Trattandosi di regole che riguardano tutti i lavoratori, iscritti e non
iscritti al sindacato, la questione non è di poco conto. La zoppia è
significativa e rilevante anche per le dinamiche sociali del futuro nelle
aziende. Non c'è bisogno di riassumere il cammino dell'esperienza sindacale per
sapere che il referendum tra i lavoratori è l'unica forma certa per misurare la
validazione dell'accordo sindacale
È
stato stipulato tra i sindacati confederali e la Confindustria un accordo sulla
rappresentanza sindacale. Saccheggiando nei luoghi comuni si potrebbe dire, al
proposito, che "un accordo è un accordo" e che "il diavolo sta
nei dettagli".
La
lunga e pesante vacanza di regole nelle relazioni sindacali non consente una
sottovalutazione dell'intesa a cui va, dunque, riconosciuta una qualche
importanza. Il suo contenuto non consente però neppure l'enfasi con cui è stato
in generale salutato. Un giuslavorista di valore come Nanni Alleva ne ha già
precisamente criticato i limiti. Varrà la pena ricordare alcuni punti deboli
che ne evidenziano i piedi d'argilla.
L'accordo
riguarda una platea di aziende, quelle aderenti a Confindustria, che
rappresentano una parte assai meno grande del passato delle realtà dove opera
il lavoro dipendente, inoltre l'uscita da essa della Fiat ha determinato un
vulnus non trascurabile nelle relazioni sindacali. Si dirà che questo e non
altro era alla portata dei contraenti dell'accordo. Vero e non vero.
Questo
limite di partenza avrebbe potuto essere forzato da un appello congiunto delle
parti al legislatore affinché, con una legge, esso, nella sua autonomia,
provvedesse a generalizzarne l'attuabilità. Se si ha presente l'opposizione ad
una legge sulla rappresentanza che, sino ad ora, ne ha impedito il varo, si
capisce bene quanto questo punto politico sia rilevante (anche ai fini della
soluzione di casi Fiat).
L'accordo
non vede coinvolti i sindacati non confederali, né prevede che lo siano in
futuro. Trattandosi di regole che riguardano tutti i lavoratori, iscritti e non
iscritti al sindacato, la questione non è di poco conto. La zoppia è
significativa e rilevante anche per le dinamiche sociali del futuro nelle
aziende.
C'è
un punto dell'accordo che un pò sorprende per la manifesta contraddizione che esso
evidenzia. L'accordo non è onnicomprensivo, cioè non regola ex novo l'intera materia. Esso si pone
in continuità con due precedenti accordi confederali, quello del 22 gennaio
2009 e quello del 16 novembre 2012, entrambi accordi separati ai quali la Cgil
non aderì, mentre è in vigore l'articolo 8 della legge Sacconi che manomette e
limita il contratto nazionale di lavoro a favore della contrattazione
aziendale, di una contrattazione, nella crisi, spesso peggiorativa della
condizione dei lavoratori.
Si
può tradurre così lo stato dell'arte: è in atto un processo in cui convergono
congiuntamente la legge, i contratti, le scelte politiche delle principali
organizzazioni sociali, un processo che prevede la riduzione del peso del
contratto nazionale e l'accrescimento del peso della contrattazione aziendale.
Questo, dunque, dovrebbe essere il futuro delle relazioni sociali.
La
contraddizione con l'accordo stipulato si evidenzia nel fatto, clamoroso, che
esso regola il primo e lascia scoperto il secondo, quello che dovrebbe
diventare centrale nella realtà del futuro. Ma, anche laddove si regola, non
mancano le ombre. Non c'è bisogno di riassumere il cammino dell'esperienza
sindacale, né il dibattito che l'ha accompagnato, per sapere che il referendum
tra i lavoratori è l'unica forma certa per misurare la validazione dell'accordo
sindacale, mentre certo non è, nell'accordo, il diritto al suo ricorso da parte
di ogni e tutti i lavoratori.
È
buona la norma che prevede che un sindacato che superi una certa soglia nel
consenso tra i lavoratori abbia diritto ad essere presente al tavolo delle
trattative, quand'anche non abbia firmato il contratto, ma non è bene che
questo consenso venga verificato, e quindi agibile, solo "nell'ambito di
applicazione del contratto". E come fa a perseguirlo chi è escluso, in
quanto non firmatario, dall'uso della delega sindacale per la riscossione della
quota sindacale ai fini del tesseramento?
Si
dovrebbe proseguire assai più approfonditamente nell'analisi di un accordo così
impegnativo. Ma si può forse, per un primo sommario giudizio sull'accordo, fare
ricorso ad un altro luogo comune: un bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto. Un
accordo tutt'altro che storico. La risposta alla crisi della democrazia
sindacale resta aperta come quella dell'autonomia del sindacato e del carattere
del conflitto sociale.