di
Evelyn Couch
Come recita il
sottotitolo, il libro Femministe a parole (Ediesse, Roma, 2012, pp. 368),
curato da Sabrina Marchetti, Jamila M.H. Mascat e Vincenza Perilli, si presenta
come un insieme di grovigli da districare. La raccolta di voci, che va dalla A
di Anticolonialismo alla W di Welfare transnazionale, è stata compilata da
diverse autrici – più un autore e un collettivo – che hanno cercato di stilare
una «lista di temi aggrovigliati». I lemmi sono selezionati dalle curatrici in
modo parziale, ovvero secondo una scelta di parte derivata dal posizionamento
di ognuna, «a volte distante e persino opposto», e sono pensati per essere
letti da un pubblico vasto di donne e di femministe. Secondo l’intenzione delle
curatrici, ridefinendo alcune delle proprie parole chiave il femminismo può
ripensare se stesso. In questo groviglio di temi, o tra questi temi
aggrovigliati, è allora legittimo chiedersi come riemerga il femminismo e in
che modo riesca a esprimere una parzialità.
Si
può dire che ne emerga, in primo luogo, un femminismo plurale. Non esiste – e
non si vuole che esista – un accordo tra le molte autrici del libro sulla
natura stessa della ricerca femminista. La disomogeneità delle posizioni è il
punto di partenza dichiarato sin dall’introduzione, ritenuto necessario a
«stimolare una riflessione critica sulle esperienze teoriche e pratiche che
oggi abitano l’universo femminista». In questo modo, il testo è sicuramente in
grado di cogliere la complessità del femminismo, che non è oggi e non è mai
stato un discorso uniforme e privo di interne tensioni. Tuttavia, ciò che
rischia di perdersi nella pluralità delle voci è il fatto che le tensioni sono
anche luoghi di distanza, incomunicabilità e scontro, così che fare della
disomogeneità un valore in sé rischia di diventare un pronunciamento a favore
della completa malleabilità dei significati. Le parole, però, non sono segni
neutri che si lasciano risignificare a piacere. Esse identificano chi parla,
evocano simboli e significati, e portano con sé rapporti di potere. Come il
femminismo ha storicamente dimostrato, le parole possono dire ma anche impedire
di parlare, in base ai soggetti che prevedono e ai confini che pongono. Non
sono immutabili ma sono il terreno di uno scontro. Mostrare tale scontro è
possibile mettendo le parole alla prova del presente globale, a partire dai
confini e dai loro attraversamenti. Così il libro può essere letto, senza
pretendere di esaurire la quantità e qualità delle voci e la loro ricchezza
tematica, per fare emergere, all’interno di quei «grovigli da districare»,
contraddizioni difficilmente ricomponibili in un’aspirazione pluralistica.
Per
fare questo si può partire dalla voce meno «globale» di questo testo, ovvero Cittadinanza, una categoria che è stata
storicamente contestata dalle istanze portate avanti dai soggetti che ne sono
stati esclusi o inclusi in posizione subordinata e che oggi può essere
osservata solo alla luce dei movimenti globali di uomini e donne e
dell’orizzonte transnazionale del femminismo. Alessandra Sciurba registra
questa dimensione non più confinabile della cittadinanza, e propone quindi di ridefinirla
appellandosi alla «valorizzazione degli esseri umani in quanto esseri sociali
inseriti in un contesto di interdipendenze con l’ambiente in cui vivono». In
questo modo, anche se sembra riconoscere l’insieme delle condizioni concrete
che determinano quanti godono della cittadinanza o ne sono esclusi, Sciurba
recupera l’umanesimo che sta alla base del linguaggio astratto dei diritti,
trascurando in ultima istanza le contraddizioni che proprio le donne e le
femministe hanno continuamente fatto emergere, prima di tutto con le loro
pratiche. Da questo punto di vista, è indicativo che venga citata la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del
cittadino, ma non la Dichiarazione
dei diritti delle donne di Olympe de Gouges, che nel momento stesso in cui
rivendicava un’inclusione delle donne nella sfera della cittadinanza moderna
metteva in luce i rapporti di potere sui quali essa si è strutturata sin dal
principio. Certamente, Sciurba evidenzia come la cittadinanza possegga una
«vocazione egualitaria» e al tempo stesso una «tendenza discriminante», che
favorisce l’affermazione di quello che Foucault chiama razzismo di Stato, e
riconosce la centralità di donne e migranti nella messa in crisi del concetto a
partire da coloro che ne venivano esclusi. Questa critica, però, sembra
ancorata a due limiti. In primo luogo, il riferimento al razzismo «di Stato»
non tiene conto della natura transnazionale e quindi globale del potere
veicolato dalle istituzioni che governano i regimi nazionali della
cittadinanza. In secondo luogo, l’idea che il connotato nazionale e
nazionalistico dei diritti determini la subordinazione solo dello straniero,
l’altro da sé incarnato nel «diverso» per colore o patria, mentre si sostiene
che le donne oramai sono state «almeno formalmente» normalizzate nella
«funzione includente della cittadinanza». Insistere sulla natura solo formale
dell’inclusione tiene aperta la possibilità di un’inclusione reale che non
sconta alcune questioni che ci paiono dirimenti, ovvero in che modo le donne
sono incluse nella cittadinanza, per quali motivi, con quali effetti? Quando le
donne sono state ricomprese nella cerchia dei cittadini, spesso lo sono state
come madri di famiglia, mogli o figlie, e la differenza sessuale è stata
integrata nel meccanismo della cittadinanza, come elemento ora da ignorare in
nome di una astratta uguaglianza, ora utile a rinsaldare i rapporti di potere
tra i sessi. Quello che l’inclusione ha alimentato è stata in altri termini una
divisione sessuale del lavoro che si è riconfigurata proprio attraverso il
linguaggio dei diritti. In questo senso, sono le donne migranti che oggi
permettono di portare alla luce con maggior forza le contraddizioni della
cittadinanza, che si edifica sulle strutture patriarcali che rappresentano
l’elemento di continuità tra il paese di origine e quelli di arrivo o di
transito. Riconoscere la centralità delle donne migranti significa fare i conti
con il fatto che l’idea di cittadinanza non può semplicemente essere
risignificata e che, anzi, forgiando una nuova definizione non si crea un’arma
contro la sua «vocazione» patriarcale ma ristabilisce la mutata continuità di
questo istituto di inclusione subordinata.
Le
donne migranti ricompaiono nella coppia Serva
& Padrona, che Sabrina Marchetti discute guardando le dinamiche di
potere nel rapporto tra le colf/badanti e le loro datrici di lavoro. Marchetti
sostiene che l’inclusione delle migranti nell’economia della cura abbia
implicato la «conservazione inalterata dei ruoli di genere». In questo senso,
coglie molto bene che l’emancipazione di alcune donne dal lavoro riproduttivo
tramite il lavoro salariato domestico e di cura di altre donne non mette in
discussione la divisione sessuale del lavoro. In questa voce «dialettica»,
tuttavia, le figure della serva e della padrona rischiano di essere
cristallizzate in una «frammentazione dei modelli di genere» che vedrebbe da
una parte «le donne bianche, educate, cittadine» e dall’altra le «non bianche,
povere e straniere». Alla luce di questa spaccatura diventa allora complesso
considerare che, per quanto contraddittoriamente, le donne migranti possano
conseguire proprio attraverso il lavoro domestico salariato un’autonomia almeno
parziale dai rapporti familiari e dalle strutture patriarcali del paese di
provenienza, oppure il fatto che molto spesso le «padrone» non sono affatto
borghesi, ma usano una quota del loro salario per pagare quello delle loro
«serve» oppure ancora, infine, che, con la crisi economica, molte donne –
bianche, educate, cittadine – ritornino a lavorare dentro le proprie o altrui
case perché rigettate dalla crisi fuori dal mercato del lavoro produttivo e
nella povertà. Cade la frammentazione, ma rimane la divisione sessuale del
lavoro, di cui le donne – migranti e non – continuano a fare esperienza per quanto
in modi molto diversi. Quella tra serva e padrona rischia dunque di ridursi a
una coppia semplicemente oppositiva, che impedisce di articolare l’insieme di
differenze che si installano su una condizione che è pure comune.
Questo
intreccio di problemi viene affrontato nella voce Intersezionalità, trattato da Vincenza Perilli e Liliana Ellena a
partire da una ricostruzione delle radici del termine e da una discussione
dell’uso che ne viene fatto nel dibattito femminista, dei suoi pregi ma anche
dei suoi punti critici. Nato come strumento giuridico per supplire a «quei
dispositivi legislativi di lotta alle discriminazioni incapaci di riconoscere
la simultaneità dei diversi sistemi di dominio», l’intersezionalità ha il
merito di riconoscere l’imbricazione delle differenze e delle forme di
oppressione. Il concetto di intersezionalità
sconta però tutti i limiti della prospettiva giuridica da cui trae origine che
guarda ai rapporti sociali come a settori d’intervento codificabili mentre,
nella realtà, il loro carattere è mobile. Questa mobilità dovrebbe ritrovarsi
nella voce Migranti, che Francesca
Brizzi elabora pensando alla figura di Antigone, donna che incarnerebbe il
destino delle migranti. Per Brizzi, le migranti sarebbero nella posizione di
parlare in nome di tutti gli offesi della terra, così che la loro identità è
fissata nell’oppressione e il portato etico della loro posizione rischia di
oscurare in questo modo le pratiche di lotta, individuali e collettive, che
quotidianamente le donne migranti mettono in campo per sottrarsi a
quell’oppressione. Le parole viaggio, confini o frontiere sono i punti fermi,
seppur in movimento, della riflessione, che non va oltre la proposta del
meticciato come categoria di analisi che dovrebbe combinarsi senza tensioni con
il portato universalistico che nella posizione dei migranti e delle migranti si
esprimerebbe. La rappresentazione del migrante – uomo o donna – è poi
appiattita sul riconoscimento delle differenze culturali e religiose. Queste,
così, sono in un certo senso cristallizzate: non sono messe alla prova della
natura «mobile» delle differenze che la critica dell’uso giuridico della
categoria Intersezionalità porta alla luce, e si traducono in altrettante
«identità» che dovrebbero trovare posto in una «identità europea plurivoca»,
fondata su «principi morali universali» e sulla «dignità del singolo». In
questo modo, diventa impossibile interrogarsi sui rapporti di
(in)subordinazione che le stesse culture veicolano.
L’insistenza
sulle differenze è nondimeno essenziale per smontare la pretesa di parlare
della Donna in termini di identità. In questa direzione va la trattazione della
coppia Sesso/Genere, messa a tema
ancora da Liliana Ellena e Vincenza Perilli. La tensione tra i due termini è
tenuta produttivamente aperta, perché viene esplicitamente criticata la
«formulazione monolitica e il presupposto universalizzante e transculturale»
che accomuna alcuni dei discorsi che pongono l’accento sulla differenza
sessuale. Il riconoscimento del fatto che proprio il sesso è e, continua a
essere, il parametro dei rapporti sociali e delle elaborazioni simboliche, non
porta però a interrogare fino in fondo e a scompaginare quegli approcci teorici
e politici che dalla prospettiva di genere traggono impeto. Si riportano
infatti le idee di alcune studiose che, nell’intento di rinvenire l’origine
della «scansione binaria della produzione della sessualità», sostengono che
essa sia stata imposta dall’obbligo dell’eterosessualità. In questo modo, il
problema del «sesso» è spostato dal corpo alla sessualità, senza che sia
possibile interrogarsi su quale spazio lascino alla concreta esperienza di
avere un corpo di donna teorie come quelle che muovono dall’intersessualismo o
descrivono un immaginario post-gender per rifiutare la violenza del binarismo
sessuale. Se porre la questione della differenza sessuale non può ricadere
nella definizione di un’«essenza femminile», di una «natura» o di un «destino»
immediatamente determinati dal proprio corpo, un discorso sul genere che ponga
l’accento sulla sessualità rischia continuamente di precludere la possibilità
di dare voce al fatto che il corpo delle donne continua a essere il luogo di
iscrizione di un potere patriarcale che si dispiega su scala globale.
Il
differente portato critico e dunque politico dei termini sesso e genere emerge ad esempio se si considera il termine Famiglia, che si confronta con una delle
principali istituzioni messe in stato d’accusa da donne e femministe come sede
di rapporti di potere e luogo di conflitto. Se la si osserva dal punto di vista
della differenza sessuale, dalla posizione in cui essa obbliga le donne
all’interno dei regimi di produzione e riproduzione sociale,la famiglia
difficilmente può essere considerata come un contenitore neutro, o addirittura
come un veicolo di emancipazione. È proprio questa, invece, la prospettiva
offerta da Gaia Giuliani, che nel lemma Famiglia ambisce a proporre una lettura
alternativa - e in quanto tale positiva - delle «nuove» famiglie, che vengono
pensate in relazione al contesto attuale di precarietà e alle «trasformazioni
dell’affettività». Usando come background analitico la critica transgender e
queer alla teoria femminista, Giuliani definisce le nuove affettività e le
famiglie non-tradizionali come quelle che si formano «tra coinquilini/e,
amiche/i, colleghi/e, compagni/e di lotta o di migrazione». La ripetizione
costante del sostantivo, al di là dell’aggettivo che lo accompagna, fa sì che
le nuove famiglie siano strettamente interrelate a quelle vecchie e alle
comunità. Significativamente le famiglie allargate dei migranti sono
considerate come fonte di sostegno e rassicurazione di fronte alle difficoltà
legate alla migrazione, ma questa innegabile funzione sussiste accanto al fatto
che, ad esempio, molte di queste famiglie si ricreano per mezzo dell’istituto
del ricongiungimento familiare, che rende la posizione delle donne
giuridicamente dipendente da quella del marito e con ciò riafferma quell’ordine
patriarcale che le migrazioni femminili tendono a scardinare. Se è vero che
proprio le donne hanno affermato che la famiglia non è l’unica modalità di
espressione dell’affettività, è altrettanto vero che essa difficilmente può
diventare uno spazio scevro da dinamiche di potere se solo si cambiano i
soggetti che ne fanno parte, ad esempio sostituendo alla coppia padre-madre una
coppia madre-madre oppure padre-madre migranti. La discontinuità segnalata
dall’aggettivo, quindi, non si può determinare solo a parole, senza porre in
questione i regimi prima di tutto simbolici e poi giuridici che istituiscono i
rapporti di potere sessuale, primo fra tutti la divisione sessuale del lavoro
riproduttivo, in cui la famiglia si iscrive, e che inevitabilmente si oppongono
alla creazione di un «immaginario comune» capace di destrutturare la famiglia
tradizionale.
Femministe a parole ha il merito di restituire la
varietà e la complessità dei dibattiti attuali e passati che le donne hanno
messo in campo per prendere nominare se stesse, e dimostra l’urgenza di una
rimessa in discussione del femminismo a partire dalle tensioni che lo
attraversano. Questa operazione non può certamente trovare soluzione
nell’omogeneità, che è il principale imputato di questa ricca raccolta di voci,
ma non può forse ridursi neppure a un insieme pluralistico di posizioni. Per
restituire un quadro plurale e a più voci, non si dà peso alla
contraddittorietà tra le diverse prospettive, così che il carattere
frammentario e parziale è in fondo la reale linea comune tra i lemmi. Se nel tentativo
di definire nuove forme di famiglia, di cittadinanza, di genere, non si
considerano il conflitto e la crisi in cui esse si generano, ciò che rimane è
in fondo un esercizio linguistico, che riconosce il linguaggio come un oggetto
completamente disponibile che fa presa sull’equivalenza dei significati, così
che le parole sembrano poter essere usate indifferentemente e non essere,
invece, un terreno di scontro solcato da linee di potere. Più che porre la
sfida di districare i suoi grovigli, il pluralismo restituisce un’immagine del
femminismo che rischia di essere compiuta in sé, e di recuperare un orizzonte
universalistico che, come ogni universale, può tenere dentro tutto solo al
prezzo di escludere o subordinare ciò che lo pone radicalmente in questione. Un
femminismo che, proprio perché è per tutte, è sempre esposto alla possibilità
di non essere per nessuna.