di Giovanni
Mazzetti
Tra le intuizioni dei
sostenitori del reddito di cittadinanza e le critiche di chi, come Giorgio
Lunghini, pensa che quel reddito non risolva la questione dell’autonomia dei
non occupati, rimane aperta una sola via: la redistribuzione del lavoro tra
tutti, con la riduzione del tempo di lavoro ma senza decurtazioni di salario
Giorgio
Lunghini nel suo “Reddito sì, ma da lavoro” (Sbilanciamoci.info 12 giugno 2013 http://www.sbilanciamoci.info/Ultimi-articoli/Reddito-si-ma-da-lavoro-18898)
ha sottolineato che la proposta del reddito di cittadinanza soffre di limiti
intrinseci. Con le sue parole: “quel reddito è semplicemente l’eccesso del
salario percepito dai lavoratori occupati rispetto al costo di riproduzione di
questi. Il palliativo rappresentato da un reddito di cittadinanza o di
esistenza non risolve la questione dell’autonomia economica e politica dei non
occupati, probabilmente ne aumenterebbe il numero, ne certificherebbe
l’emarginazione, favorirebbe il voto di scambio e lascerebbe irrisolta la
questione dei bisogni sociali insoddisfatti. L’autonomia economica e politica
presuppone un reddito da lavoro.”
Si tratta di
un’argomentazione logicamente ineccepibile. Ma l’evoluzione della realtà
sociale notoriamente non va di pari passo con la logica, visto il ricorrente
sopravvenire di eventi contraddittori,
cioè di fenomeni che impongono la ristrutturazione degli stessi presupposti del
ragionamento e dell’azione. Può così accadere che la giusta critica alla proposta del reddito di cittadinanza venga
articolata senza tener conto di alcuni degli elementi che hanno fondatamente spinto i sostenitori di
quella strategia ad optare per quella soluzione, anche se poi quegli stessi
elementi li hanno spinti a sbagliare
nello svolgimento della soluzione del problema, ma non nella sua formulazione
di partenza. Cerchiamo di vedere di che cosa si tratta.
Lunghini
rappresenta il quadro dei rapporti sociali attuali con il seguente schema:
Questo
schema, a mio avviso distorce il dato di fatto con il quale ci stiamo
confrontando. Il quadro delle relazioni produttive – sia di quelle che riescono
a procedere fisiologicamente, sia di quelle che incontrano ostacoli – mi sembra
che sia piuttosto il seguente:
Perché è
importante tener conto di questa articolazione più complessa della realtà? La
tesi di Lunghini è condivisibile per la parte di strada che ci permette di
percorrere, ma non ci consente di portare il problema della disoccupazione di
massa odierno alla sua coerente risoluzione. La produzione capitalistica di
merci – dice – si arresta nonostante ci siano molti bisogni insoddisfatti
perché la loro soddisfazione non garantirebbe alle imprese un profitto. Questo
meccanismo impone, così, all’attività produttiva una limitazione artificiale, visto che le risorse materiali per
soddisfare quei bisogni esistono.
Che fare per
superare questo blocco? La risposta di Lunghini è chiara. “Si tratterebbe di
destinare parte del sovrappiù realizzato nella produzione di merci alla messa
in moto di … lavori immediatamente destinati alla soddisfazione dei bisogni
sociali assoluti … lavori di cui c’è una domanda che i mercati del lavoro e
delle merci non registrano, perché corrispondono a bisogni privi di potere d’acquisto individuale”. Un passaggio che
dovrebbe scaturire “dall’azione dello stato, attraverso istituzioni appropriate
tutte da inventare”.
Ma, a mio
avviso, a quel blocco delle spese capitalistiche, in assenza delle quali è
impossibile il pieno uso delle risorse produttive esistenti attraverso i
rapporti privati, si è risposto a partire dalla Seconda guerra mondiale, con lo
sviluppo dello Stato sociale keynesiano, che per un trentennio ha garantito una
spesa pubblica crescente, alternativa sul
piano qualitativo e aggiuntiva su quello quantitativo.
Tant’è vero
che in quel periodo abbiamo goduto del più straordinario sviluppo negli ultimi
due secoli, uno sviluppo che ha radicalmente cambiato la vita degli abitanti
dei paesi sviluppati, e ha assicurato il pieno impiego stabile, visto che la
disoccupazione media nell’insieme dei paesi Ocse è stata, per tutto il
trentennio, di appena il 3,3%. Per dirla in termini drastici: quello che
Lunghini propone di fare è – in buona parte – già stato fatto. Non bisogna infatti dimenticare che in quel
periodo l’occupazione pubblica in
Gran Bretagna è triplicata, passando
da 2.500.000 a 7.500.000 unità, realizzando quel sistema di soddisfazione dei
bisogni non a pagamento rappresentato
dai diritti sociali. Un aumento che,
seppure in forma meno impetuosa, è intervenuto in tutti i paesi sviluppati e
che, dopo trent’anni di smantellamento neoliberista, vede ancora occupata
direttamente dalla spesa pubblica da 1/5 a 1/4 della forza lavoro complessiva.
Per quale
ragione Lunghini non ha richiamato questo aspetto essenziale della storia
recente? E come si intreccia questa omissione con la critica della proposta del
reddito di cittadinanza?
I sostenitori del reddito di cittadinanza, talvolta
senza neppure essere pienamente consapevoli, partono dal presupposto che il
problema della disoccupazione di massa si presenti ormai come un problema strutturale. Vivendo da più di
trent’anni una situazione nella quale si parla sistematicamente di crescita e
di possibili piani per creare lavoro, senza
che nulla cambi, sono ormai diventati scettici sulla reale praticabilità di
queste prospettive. Anche se sono in pochi a enunciarlo analiticamente (per
un’eccezione recente vedi Krugman, Sympathy
for the Luddites, NYT 13. giugno
2013 http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/alter/Sympathy-for-the-Luddites)
sottostante alla loro proposta c’è, cioè, l’ipotesi del sopravvenire di una
crescente difficoltà di riprodurre il
rapporto di lavoro salariato sulla scala necessaria a garantire l’eliminazione
della disoccupazione. Per sostenere che il reddito deve essere “da lavoro”, Lunghini deve ovviamente
confutare quest’ipotesi, e credere che, grazie all’intermediazione dello stato,
l’attività salariata possa ancora espandersi, permettendo di soddisfare i
bisogni insoddisfatti, fino a garantire il pieno impiego. Nel farlo incorre
però, secondo me, in alcuni semplificazioni che non sono affatto condivisibili.
La prima è
quella dell’individuazione del lavoro salariato erogato correntemente, cioè
occupato, come fonte della sola produzione di merci. Ma un medico del sistema
sanitario nazionale, un insegnante della scuola pubblica, un netturbino, un
vigile urbano, ecc. sono lavoratori salariati e producono una ricchezza che non viene venduta come merce. Essi soddisfano bisogni sociali, ricevono in
cambio della loro attività un denaro, ma chi li impiega (la pubblica
amministrazione) non vuole trarre dal loro impiego un guadagno, e nemmeno una
reintegrazione delle somme spese – ché altrimenti i loro servizi dovrebbero essere venduti. Essi sono
quindi occupati da una spesa di denaro effettuata come reddito, per garantire alla società di godere di valori d’uso. E, infatti, se vuole
tornare a occuparli lo stato deve ogni volta procurarsi di nuovo il denaro che
ha speso e vuole tornare a spendere.
Ma se la
proposta di Lunghini ha già trovato una più o meno rozza attuazione, per quale
ragione non dovremmo procedere ulteriormente in quella direzione, magari
migliorando le sue pratiche attuative? La risposta sta proprio nello scetticismo
dei sostenitori del reddito di cittadinanza: anche quella strategia si è
scontrata con degli ostacoli, che non essendo stati compresi non hanno potuto
essere superati. La disoccupazione è tornata a crescere prima che l’ideologia neoliberista prendesse il sopravvento, non dopo. La svolta è intervenuta a metà
anni Settanta, quando gli stessi laburisti inglesi hanno ripudiato il
keynesismo, perché non riuscivano più a ottenere, dalla sua applicazione, gli
effetti positivi dei quali avevano goduto nei precedenti trent’anni. Reagan e
la Thatcher arrivano dopo, quando il keynesismo è stato ovunque abbandonato –
si pensi alla svolta dell’Eur della Cgil del ’77 – e i conservatori si sono
presentati come coloro che “l’avevano detto che non funzionava”. La loro parola
d’ordine è stata: “la spesa pubblica non è la soluzione, ma il problema”.
Inutile dire
che le loro fantasie di un rinnovato sviluppo su base privata, tale da
arricchire realmente la società, si sono dimostrate del tutto infondate,
cosicché è subentrata una tendenza strutturale al ristagno, mascherata da una
forsennata speculazione finanziaria che ha finito solo col sottrarre una quota
crescente del reddito alla parte più povera della società.
Se noi
vogliamo affrontare i problemi attuali non possiamo limitarci a partire dagli
svolgimenti recenti di questo lungo processo storico. Dobbiamo piuttosto
risalire al problema che si è presentato a metà anni Settanta, il quale ha
influenzato tutta l’evoluzione successiva, per il fatto di essere rimasto
irrisolto. I sostenitori più intelligenti del reddito di cittadinanza, in
qualche modo lo fanno, ma poi imboccano una scorciatoia, che porta
completamente fuori strada, quella di non riconoscere la natura sociale del
denaro, e di scindere il reddito dal lavoro.
Lunghini ha
ragione nel sostenere che il reddito di cittadinanza – che è cosa diversa
dall’indennità di disoccupazione – renderebbe una parte della società parassitaria nei confronti dell’altra. E
ha ragione anche nel ritenere che l’espansione della spesa pubblica sia stata un mezzo efficace per tornare ad impiegare il
sovrappiù del settore capitalistico in modo socialmente
utile, invece di farlo marcire nella disoccupazione di massa. Ma sbaglia, a
mio avviso, nel credere che questa strada sia ancora aperta o, addirittura, che
debba essere imboccata ora per la prima volta. Credo che l’errore sia dovuto
alla sua convinzione che il processo riproduttivo sociale si riduca, ancora
oggi, al solo rapporto capitale-lavoro salariato, e al di fuori di questo
rapporto ci sia “una terra di nessuno”. Come ho indicato nel mio schema, le
cose non stanno affatto così. Accanto al rapporto capitale-lavoro salariato,
che è in drammatico declino nei paesi sviluppati, è cresciuto un rapporto
alternativo pubblica amministrazione- lavoro salariato, che ha incontrato a sua
volta gravi difficoltà, dopo aver garantito uno straordinario sviluppo.
Ora, se si
tiene presente tutto ciò, e si vuole procedere sia tendendo conto delle giuste
intuizioni dei sostenitori del reddito di cittadinanza, che delle altrettanto
giuste critiche di Lunghini, rimane aperta solo una via: la redistribuzione del
lavoro tra tutti, con la riduzione del tempo di lavoro senza alcuna decurtazione del salario. Ci sono molti passaggi
analitici che sostengono questa proposta, ma sarebbe troppo lungo svilupparli
in questa sede. (Chi vuole può far riferimento al mio Quel pane da spartire, Bollati Boringhieri.) Mi limito qui a
dissentire dalla riserve di Lunghini. Non è solo la riduzione dell’orario di
lavoro ad “essere difficilissimamente praticabile in un paese solo”. La sua
proposta di un aumento della spesa pubblica per i lavori concreti è fortemente
osteggiata, e men che mai potrebbe passare in un “paese solo”. La riduzione
dell’orario di lavoro “non implica affatto, come sostiene Lunghini, “che le
merci possano soddisfare tutti i bisogni”. Al contrario, scaturisce proprio
dalla constatazione che ci sono bisogni insoddisfatti e potrebbero essere
soddisfatti sì creando il lavoro salariato residualmente necessario, ma soprattutto
creando quello spazio, al di fuori del rapporto salario e della forma merce nel
quale gli individui possono imparare a soddisfarli. Se la riduzione è
organizzata solo per ridurre il tempo di lavoro degli occupati, lascia
ovviamente fuori i disoccupati. Ma quello per cui Keynes si espose in Prospettive economiche per i nostri nipoti,
era di più rispetto alla pura e semplice riduzione della giornata lavorativa.
Si trattava, appunto, della redistribuzione del lavoro, della quale la
riduzione era una condizione. Né è vero che la redistribuzione del lavoro
presuppone salari elevati. Se i salari sono diminuiti per la difficoltà di
riprodurre il rapporto di lavoro salariato, è ovvio che essa contribuisce a
porre fine a quella caduta, appunto perché sottrae le possibilità di
occupazione al gioco della domanda e dell’offerta sul mercato del lavoro.
fonte:sbilanciamoci