che
la precarietà sia la condizione generale di tutto il lavoro non aiuta il
problema di un’iniziativa politica nella precarietà e contro di essa. La
richiesta di un reddito, nei diversi modi in cui esso è definito, è un’altra
faccia dello stesso problema, e il fatto che, nelle retoriche di movimento,
esso cambi nome in continuazione è qualcosa su cui vale la pena riflettere. Ma
soprattutto rimane aperto il problema di pensare secondo schemi se non
originali almeno sperimentali il problema dell’organizzazione
In
questi due anni di ∫connessioni precarie poche cose si sono imposte con il
segno violento della novità. Altre cose si sono modificate al punto da
richiedere una ridefinizione. Altre ancora sono semplicemente scomparse. Molti,
se non tutti i nostri problemi sono rimasti aperti e aspettano ancora di essere
affrontati.
La
crisi è diventata «il padrone» con il quale milioni di proletari devono fare
quotidianamente i conti. Essa ha accelerato processi di precarizzazione
investendo tutti i segmenti della forza lavoro. La precarietà è stata così
liberata dal suo tratto generazionale, esistenziale, professionale, migrante,
diventando una condizione generale. Mentre questo processo si è affermato
inesorabilmente, è venuto progressivamente meno il progetto di esprimere un
punto di vista precario su una scala quanto meno nazionale. Anche la parola
d’ordine dello sciopero precario non è mai riuscita ad andare oltre
l’intuizione che pure esprimeva. Con l’eccezione politica dei migranti, lo
sciopero precario non c’è stato. Il nesso indiscutibile tra lavoro precario e
povertà non ha prodotto in Italia le continue mobilitazioni di massa che da
anni ormai vediamo in Spagna, Portogallo e Grecia. Di fronte a questa
situazione aumentano comprensibilmente le descrizioni degli stati di necessità
più disparati e delle mille oppressioni quotidiane, nella speranza che alla
fine la necessità e la repressione diventino davvero uno scandalo. Altrettanto
comprensibilmente alle situazioni di lotta aperta viene immediatamente
attribuita la caratteristica di modello da espandere o da ripetere. Non è però
mai successo che il modello trovasse davvero delle repliche all’altezza.
E
questo è parte del problema.
In
questa situazione che presenta allo stesso tempo caratteri generali e
particolari, la recente esperienza dei migranti della logistica pone questioni
centrali a chi voglia immaginare e praticare nuove lotte sui luoghi di lavoro.
La prima riguarda il fatto che certe situazioni, che esplodono per l’alto grado
di sfruttamento e di abuso che le caratterizza, hanno la possibilità di
organizzarsi proprio per la particolare omogeneità della composizione del
lavoro: come le fabbriche classiche i magazzini della logistica sono luoghi di
concentrazione di lavoratori legati da una comune condizione oggettiva, in
questo caso il permesso di soggiorno. L’organizzazione ha potuto far leva su di
un’omogeneità che sta all’intreccio tra la categoria, la Bossi-Fini, il sesso
(quasi il 100% di lavoratori maschi) e la provenienza (che ricalca
un’organizzazione del lavoro nelle cooperative che fa leva anche
sull’appartenenza comunitaria). A partire da queste condizioni i lavoratori si
sono riconosciuti come uguali. Proprio in virtù di questa specificità,
l’esperienza nella logistica non può essere immediatamente generalizzabile, né
si può considerare come un paradigma: piuttosto, si tratta di riconoscere che
questo focolaio è esploso per le sue particolarità, che lo separano dal
contesto generale e che hanno reso possibile uno specifico intervento
sindacale. Non a caso, nonostante tutti i lodevoli sforzi di solidarietà, i migranti
della logistica sono rimasti finora politicamente soli nelle loro lotte.
In
questo senso, un’altra lezione fondamentale proveniente dall’esperienza nella
logistica è che i movimenti non possono sostituirsi ai sindacati. Come dimostra
il fallimento di ogni tentativo che negli ultimi anni sia andato in questa
direzione, e come dimostrano le diverse esperienze di «organizzazione
dell’inorganizzabile» portate avanti non solo in Italia (dai cleaners londinesi ai fast food workers di New York alle
lavoratrici a domicilio in Pakistan), il sindacato è una struttura
insostituibile per queste lotte impossibili. Non si tratta di negare i (tanti)
limiti della forma sindacale, che abbiamo osservato in altre occasioni e che
riguardano anche i sindacati più coerenti, ma di riconoscere che il sindacato è
per i lavoratori una tattica di conflitto ancora centrale. Si tratta però di
una tattica che non esaurisce la sfida dell’organizzazione: essa è possibile
proprio all’interno di segmenti omogenei, proprio perché il lavoro è
settorializzato, proprio perché è governato da un sistema di leggi – civili e
di mercato – ben specifico, e può quindi essere parte di una battaglia di
posizione per scompaginare i rapporti di forza all’interno di particolari
luoghi di lavoro.
Per
questa ragione, difficilmente il sindacato può essere considerato come la forma
politica in grado di mettere in campo un movimento di massa che raccoglie e
unifica una moltitudine varia di molteplici singolarità. Il sindacato non può
essere questa forma perché è destinato a organizzare segmenti specifici di
forza lavoro, a partire dalle loro esigenze concrete e dalla concreta
controparte che si trova di fronte. Proprio perché in grado di organizzare
puntualmente situazioni specifiche, il sindacato difficilmente può andare oltre
queste specificità, le quali a loro volta non consentono di replicare
immaginari federativi come soluzione del problema. Non è certamente un caso che
le strutture sindacali che pretendono di organizzare il lavoro nel suo
complesso, confederando appunto i lavori, si votino all’impotenza, soprattutto
in un quadro segnato dal tramonto della contrattazione nazionale e dalla fine della concertazione.
La diversità
delle situazioni e delle condizioni sociali è d’altra parte talmente profonda
che non è immaginabile alcun processo «naturale» di ricomposizione. Se la
diversità non fosse così profonda, d’altra parte, non avrebbe nessun senso
pensare quelle condizioni in termini di singolarità. Noi abbiamo cercato di
assumere la presenza incancellabile di queste singolarità, riferendoci costantemente a precarie, operaie e migranti, proprio
per non rifugiarci in un comodo universale dato che dovrebbe essere solo
ricomposto. Poiché non c’è un’unità originaria infranta dalle politiche
neoliberiste, nessuna ricomposizione è possibile facendo semplicemente la somma
delle contestazioni e delle rivolte che di volta in volta avvengono. Ed è una
pia illusione vedere i segni premonitori di quella ricomposizione nella
presenza di rappresentanze «esterne» più o meno folte in occasione delle lotte.
L’illusione conseguente è quella di pensare che la suddetta ricomposizione si
manifesti gloriosamente ed esclusivamente nei comportamenti di piazza, che soli
testimonierebbero della radicalità della propensione al conflitto, mentre tutto
il resto è chiacchiere e paternalismo. La grande separazione tra «militanti» e
lavoratori non è superabile né dicendo che comunque siamo tutti precari, né
semplicemente riconoscendo al lavoro una centralità politica che per molti anni
gli è stata negata, tanto più se questo serve a porre i militanti al centro del
conflitto, attribuendo valore paradigmatico a tutte quelle lotte a cui decidono
di partecipare.
Rimane
in altri termini aperto il problema non solo di riconoscere davvero quelle
singolarità, ma soprattutto di pensare secondo schemi se non originali almeno
sperimentali il problema dell’organizzazione. Di sicuro c’è che esso non può
essere affrontato come se le differenze fossero ciò a cui ogni singolarità deve
rinunciare per entrare in un percorso comune. Ciò è vero tanto per i lavoratori
migranti quanto per gli altri. L’innovativa forma di inchiesta portata avanti
da Bastard&Poor’$ in poco più di una settimana ha raccolto oltre 200
giudizi di precarie e precari sulle loro condizioni di lavoro, sui loro salari,
sulla loro solitudine in grandi e piccole imprese. Si tratta di uno spaccato
parziale, ma assai indicativo della condizione dei lavoratori oggi in Italia.
Nel loro primo rapporto gli «analisti» della nuova agenzia di rating dei lavoratori
rilevano chiaramente l’intreccio perverso tra frammentazione delle prestazioni
lavorative, individualizzazione dei comportamenti e difficoltà organizzative.
In questa situazione il sindacato è spesso accusato di essere il grande
assente, ovvero il massimo responsabile per situazioni per lo più
insostenibili. Allo stesso tempo, tuttavia, anche quando esso è presente, il
riferimento allo sfruttamento generalizzato non funziona come formula magica in
grado di fare comunicare immediatamente condizioni allo stesso tempo uguali e
differenti. Spesso nemmeno la radicalità delle rivendicazioni è una garanzia
per guadagnarsi la fiducia dei lavoratori. La costruzione di percorsi comuni –
anche sindacali – sconta invece la necessità di dover partire dalle differenze
che maturano in continuazione dentro e fuori i luoghi di lavoro. Scambiare lo
sfruttamento per la condizione sufficiente per un’iniziativa di classe
significa non cogliere nemmeno la centralità politica che proprio la precarietà
generalizzata riconsegna al lavoro all’interno della società globale. Ciò
significa che lo sfruttamento del lavoro è ormai un’oppressione «globalmente»
sociale che non può essere combattuta solo sul posto di lavoro. Con tutte le
contraddizioni che vedremo, la richiesta di un reddito reagisce proprio a
questa dimensione sociale e globale di un’oppressione capitalistica che, senza
stabilire un’identità immediata degli oppressi, rende praticamente impossibile
agire in società. Come il lavoratore migrante non può perciò essere spoliticizzato,
riducendolo alla sua sola dimensione di lavoratore sfruttato, così il precario
è refrattario a essere considerato solo l’oggetto di una possibile nuova
sindacalizzazione. In assenza di risposte organizzate a questa condizione, la
reazione collettivamente più evidente è invece quella di sfuggire dalla società
a cui il lavoro obbliga: e questo si può fare lottando sul posto di lavoro,
sfuggendo al posto di lavoro o attraversando i confini dentro i quali il posto
di lavoro si colloca.
La
dimensione transnazionale della crisi non meno che dell’organizzazione del
lavoro contemporaneo ha d’altra parte chiuso definitivamente ogni possibilità
di un intervento limitato dai confini dei singoli Stati, portando
contemporaneamente alla luce la costitutiva disomogeneità del proletariato
globale. Da questo punto di vista, i migranti che sono stati protagonisti dello
sciopero nella logistica non sono soltanto un segmento della forza lavoro
complessiva, una «componente» di una lotta generalizzata o generalizzabile, o
addirittura un’avanguardia cosciente che mostra la strada, ma un pezzo di
società che entra in sciopero mostrando la sconnessione della società stessa. I
migranti sono operaie e operai in carne e ossa sui quali incombe lo stigma
della separazione. Essi si portano in tasca la loro condizione in un doppio
senso, con il denaro e con il permesso di soggiorno. I migranti sono già
connessi dal fatto oggettivo e non generalizzabile che è la legge Bossi-Fini,
che lega individui che occupano posizioni diverse e anche distanti, e che nello
stesso tempo li separa e li allontana da coloro i quali non occupano la loro
stessa posizione rispetto allo Stato e alla cittadinanza. L’apartheid
democratico non consente loro di pensarsi come soggettività universali che
possono andare oltre la loro condizione amministrativa con un semplice sforzo
di volontà. Fare rientrare a forza l’universalismo dopo averlo criticato
aspramente non avvicina nemmeno di una spanna alla soluzione del problema. E
tanto meno aiuta rifarsi a un internazionalismo vintage quando questa globalità
è fatta di movimenti e di differenziazioni del tutto nuovi.
La
richiesta di un reddito, nei diversi modi in cui esso è definito, è un’altra
faccia dello stesso problema, e il fatto che, nelle retoriche di movimento,
esso cambi nome in continuazione è qualcosa su cui vale la pena riflettere. Il
riferimento alla cittadinanza, abbandonato dai più attenti per i problemi
evidenti che esso pone, rimane un problema politico mai affrontato fino in
fondo. La sua cancellazione, infatti, non è sufficiente a risolvere la
prevedibile esclusione dei migranti dal suo godimento, anche se quel reddito
viene definito generalizzato, universale o di base. E ciò vale anche quando il
reddito diventa di fatto un salario minimo o addirittura «reale». D’altra
parte, la proliferazione dei nomi e la divaricazione dei percorsi di lotta
mostrano che ogni richiesta del reddito registra ormai realisticamente come
data la destrutturazione definitiva della cittadinanza. Proprio per questo, per
essere davvero realisti, si dovrebbe anche ammettere che questo reddito rischia
costantemente di essere un salario della povertà destinato a risarcire la
negazione sempre più massiccia di prestazioni sociali. Qualunque nome abbia
questo reddito, in altri termini, non risolve né tanto meno affronta il
problema di un rapporto di potere che agisce quotidianamente nel momento in cui
il denaro diviene l’unica misura del rapporto sociale. L’elusione del nodo del
potere e la difficoltà di farci i conti emerge anche dal fatto che la richiesta
di un reddito deve essere comunque rivolta a istituzioni variamente
identificate con il nemico – col quale non bisogna in nessun caso
compromettersi – oppure con la controparte – legittima e persino neutrale – con
cui è sempre possibile contrattare, ma delle quali in ogni caso non sono mai
pensate le dinamiche e le contraddizioni interne. I mutamenti delle istituzioni
italiane sono sempre considerati quale espressione di una crisi epocale e
definitiva, oppure, aderendo a un classico immaginario moralistico, come il
sintomo di un’evidente degenerazione del sistema. Il giudizio morale precede e
sostituisce l’analisi politica. Quello politico è ancora considerato come il
sistema istituzionale fondamentale, mentre è evidente che nella riconfigurazione
transnazionale complessiva esso è l’ultimo sistema a diventare compiutamente
tale, mentre altri sistemi lo sono già. Senza chiedersi cosa cambi e per chi,
si punta a costruire un’opinione comune degli oppositori (nazionali) che si
riconoscono tra di loro. Facebook è spesso la forma concreta di questa comunità
morale, nella quale le opinioni degli amici sono scambiate per l’opinione
generale. Una trasformazione istituzionale che procede da decenni sul piano
transnazionale meriterebbe invece un’attenzione diversa. Lungi dall’esibire
semplicemente la loro inattualità, le istituzioni non sono l’evidenza di
un’illusione. Esse producono effetti materiali: differenziano, distinguono,
disciplinano, ricostituiscono confini, obbligano o permettono comportamenti,
soprattutto ricompongono costantemente regolarità. Pensare poi di delegittimare
le istituzioni italiane dicendo che si decide in Europa e quelle europee
sostenendo che a decidere è la Banca mondiale, è una perdita di tempo. La
dimensione transnazionale – dal punto di vista istituzionale almeno europea –
in cui s’inscrivono le politiche contemporanee del lavoro non può essere
affrontata solamente con improbabili raccolte di firme, o convocando scadenze
congiunte tanto necessarie quanto il più delle volte inefficaci.
Che
la precarietà sia la condizione generale di tutto il lavoro non aiuta dunque,
semmai complica, il problema di un’iniziativa politica nella precarietà e
contro di essa. L’individuazione di parole d’ordine o di rivendicazioni comuni,
che ambiscono a uscire dalla settorialità dell’intervento e delle vertenze e
con ciò a ricomporre l’agognata unità degli sfruttati e degli oppressi, non
risolve la questione delle connessioni politiche tra i segmenti
irriducibilmente differenti che vivono nelle sconnessioni della società. E non
è neppure sufficiente, benché sia necessario, inseguire il conflitto che si
esprime nei focolai di lotta «impossibile», per individuare nuove scintille di
lavoro insubordinato. L’iniziativa politica che mira a costruire connessioni
nella precarietà deve farsi carico della precarietà di quelle stesse
connessioni, che non sono già date né sorgono immediatamente dalle oggettive
condizioni di miseria e sfruttamento che il capitale impone su scala globale.
Le connessioni non sono un compito che troviamo risolto nella realtà dei
rapporti capitalistici di produzione. Sono un problema che dobbiamo risolvere
noi. E sarebbe probabilmente meglio farlo senza tributare eccessivi omaggi alla
tradizione dei rapporti organizzativi di cui facciamo parte. Riconoscere la
politicità immediata, cioè la non rappresentabilità, delle situazioni di
conflitto, non significa che esse siano immediatamente delle posizioni
politiche generalizzabili. Non significa nemmeno riaffermare l’unità politica
come valore supremo da cui partire e a cui arrivare. Significa riconoscere che
se c’è una connessione sicura è quella tra la precarietà delle nostre
connessioni politiche e quella della nostra condizione sociale. E che il
continuo aggravarsi della seconda dipende non da ultimo dalla nostra attuale
incapacità di agire sulla prima.