Delegati RSU Pubblico Impiego Padova
Il livello del dibattito di questi giorni, sull’applicazione delle modifiche dell’articolo 18, rende non inutile persino la precisazione di quello che è apparentemente scontato, o almeno dovrebbe esserlo, per chi si occupa di rappresentare (ammesso che ancora questo termine abbia un senso) i lavoratori del comparto pubblico, ossia che le leggi si applicano in base a quello che in esse c’è scritto (articolo 12 delle preleggi, che dice il senso comune delle parole) e non in base alle dichiarazioni del Titolare del Dipartimento della Funzione Pubblica (anche quando questo è autorevole, come lo è, senza dubbio, Patroni Griffi).
Partiamo da quello che è certo e non può essere posto in dubbio: l’articolo 18 nel P.I. si applica. Lo dice espressamente l’articolo 51, comma 2 del T.U. sul Pubblico Impiego (D. Lgs. 165/2001), che così dispone “La legge 20 Maggio 1970 n. 300, e successive modifiche e integrazioni, si applica alle pubbliche amministrazioni, a prescindere dal numero dei dipendenti”.
Di fronte alle semplicità di questa enunciazione, lascia davvero sgomenti il dibattito di questi giorni sull’applicazione delle modifiche dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori al Pubblico Impiego.
Bonanni, pochi giorni fa, intervistato ai microfoni di La7, a domanda risponde in maniera secca “Le modifiche dell’articolo 18 non riguardano il Pubblico Impiego”. Affermazione poi replicata anche da Susanna Camusso, pur se appare onestamente singolare che, mentre uno lancia un pacchetto di 16 ore di sciopero, dice che è escluso dalla Riforma un intero comparto, perché suona come un invito implicito ai lavoratori dello stesso comparto a non partecipare alla protesta.
A stretto giro di posta, cominciano a giungere i primi commenti sulla riforma del mercato del lavoro e i commentatori più attenti, fanno notare subito, che in assenza di una deroga espressa, le modifiche all’articolo 18 si applicherebbero a tutti, lavoratori pubblici compresi.
Rispondono i sindacalisti: “la norma non si applica al P.I., perché al tavolo non era presente il titolare di Palazzo Vidoni, Patroni Griffi.” Non sarà inutile precisare che le norme, così come non si applicano, in base alle dichiarazioni del Ministro, non si applicano nemmeno in base alla delegazione trattante. Le norme di legge valgono erga omnes.
Solo a questo punto interviene il Ministro Patroni Griffi, resosi conto di non essere, non si sa per quale motivo (ennesimo pasticcio o intenzionalmente per creare divisioni), invitato ad un tavolo al quale, almeno per la riforma dell’articolo 18, giustamente definito da qualcuno, lo scalpo (ed è l’unico vero nodo già affrontato), avrebbe dovuto esserci. Interviene mercoledì 21 Marzo, con una scarna nota di precisazione del Dipartimento della Funzione Pubblica, che dice di non essere ancora in grado di valutare gli effetti della riforma, ma che solo a testo ultimato, si potrà valutare “se ricorra l’esigenza di norme che tengano conto delle peculiarità del lavoro pubblico”. Ergo, valutare se prevedere uno specifico articolo 18, per il Pubblico Impiego.
I titoli dei quotidiani, appena il giorno successivo, abilissimi come sempre a distogliere l’attenzione dal vero tema (forse, ora si capisce meglio perché la riforma in due tempi), ossia che il governo sta varando una riforma che farà diventare il mondo del lavoro una giungla, in cui il datore di lavoro potrà licenziare liberamente, senza alcuna forma di controllo giudiziale, spostano il tiro sullo scandalo dei soliti garantiti, gli statali cialtroni, fannulloni etc, etc..
Appena due giorni dopo la nota diramata da Palazzo Vidoni, viene pubblicata il testo integrale della riforma, redatto dal Ministro Fornero che, in due righe, liquida la questione del Pubblico Impiego: “con riguardo al settore del lavoro pubblico, eventuali adeguamenti alle disposizioni del presente intervento, saranno demandati a successive fasi di confronto.” Si ritorna un po’ alla formula, rappresentativa della nuova fase andreottiana del Governo Monti, del “salvo intese”. Intese, che però servono solo ad intricare la matassa con formule ambigue ed incomprensibili, alla ricerca di una mediazione impossibile, perché i mercati finanziari non contemplano contemperamenti con i diritti, vogliono lo scalpo.
In questo continuo ping-pong, si applica, non si applica, non può mancare il nuovo intervento (chiarificatore?) del Ministro Patroni Griffi, che dichiara che le modifiche all’articolo 18 non riguardano i licenziamenti economici nel settore pubblico, perché il Pubblico Impiego, in materia di licenziamenti per ragioni di natura Finanziaria (l’ormai famigerato spending review, codificato dalla legge 138/2011, che prevede ogni anno un dieci per cento di riduzione delle spese per il personale, rispetto all’anno precedente), ha già una propria disciplina, l’articolo 33 del T.U. Pubblico Impiego, rubricato “Eccedenze di Personale e mobilità collettiva”.
Immediatamente, tutte le tre organizzazioni confederali intervengono, per complimentarsi con il Ministro per il suo autorevole intervento, che ha portata dirimente rispetto al dibattito e che pare quasi una vittoria sindacale. Ora, se i sindacati hanno bisogno dell’intervento del Ministro per la Funzione Pubblica, per sapere che, in materia di licenziamenti finanziari, esiste l’articolo 33 del T.U. Pubblico Impiego (già da dieci anni), non sembrerà strano che non abbiano colto che l’intervento del Ministro non cambia di una virgola le carte in tavola e spieghiamo il perché.
Licenziamenti disciplinari
Innanzitutto è scontato che le modifiche dell’articolo 18 valgono per i licenziamenti disciplinari. Quindi doppio binario.
Se si dimostra che il fatto di cui si è accusati non sussiste, o dal contratto collettivo è prevista una sanzione inferiore, si ha il diritto al reintegro. Se invece, non si versa in nessuna di queste due ipotesi, rimane solo la monetizzazione del diritto, mediante indennizzo. Altrettanto vale, per il licenziamento viziato nella forma. A tal proposito, è da dire che già la Legge Brunetta ha previsto ipotesi di licenziamento disciplinare, che finiscono per tipizzare alcuni casi di giustificato motivo: per es. il licenziamento disciplinare per scarso rendimento ( frutto originato dal mantra della meritocrazia), oppure il rifiuto del trasferimento disposto dall’Amministrazione per esigenze di servizio. La modifica dell’articolo 18, in questo caso, finisce per portare a termine il disegno punitivo (ci ricordiamo i termini con cui veniva propagandata la Riforma Brunetta? I poco eleganti, ma era la visione dell’ex Ministro, bastone e carota) principiato da Brunetta.
L’inflazione, negli ultimi anni dei procedimenti disciplinari, nelle diverse amministrazioni, è un dato di palmare evidenza. Introdurre quest’ulteriore distinzione tra fattispecie previste dai contratti collettivi e fattispecie non previste, serve ad ingarbugliare la matassa sempre di più, rendendo sempre più complesso il compito del lavoratore che deve difendersi. Cosa succede se, per esempio, di un fatto (della cui gravità si può discutere), non si riesce a dimostrare la non insussistenza? Il Giudice potrebbe dichiararlo ingiusto (perché non abbastanza grave), ma siccome il fatto sussiste (o peggio ancora non si è stati in grado di dimostrare con certezza che non sussiste), il lavoratore non potrà chiedere il reintegro? Dalla formulazione della norma, sembra proprio così.
L’unico argine a questo potere è che il dirigente, se lo aziona in maniera illegittima, risponde a sua volta sia per dolo o per colpa grave. Per inciso, Pietro Ichino (PD) chiede di modificare questa norma, affinché il Dirigente non sia chiamato più a rispondere per colpa grave, sì da eliminare anche questo deterrente. Al peggio non c’è mai fine.
Licenziamenti economici o Finanziari
Qui il discorso si fa, un po’ più complesso. Il Ministro Patroni Griffi (con una sottigliezza giuridica, di cui gli va reso merito, ma di questi non si può dire che siano impreparati) dice che nelle Amministrazioni Pubbliche
non è ipotizzabile il licenziamento economico (perché le Pubbliche Amministrazioni ragionano, non in termini di costi e ricavi, ma di entrate e uscite), ma tutt’al più il licenziamento per motivi di natura finanziaria.
Dopo averlo ringraziato per la dotta precisazione, noi che siamo meno sottili e operiamo con la sciabola, anziché col fioretto, osiamo dire che la sostanza non cambia, cambia solo il nome. Infatti, al termine della procedura di cui all’articolo 33 che prevede una comunicazione delle eccedenze di personale (che i dirigenti sono obbligati a fare a pena di essere ritenuti disciplinarmente responsabili), opera pur sempre l’interruzione del rapporto di lavoro.
Pertanto, nel privato, così come nel Pubblico Impiego, al termine della procedura di mobilità collettiva si ha l’interruzione del rapporto di lavoro e se la procedura è stata posta in essere in violazione dell’art. 33, al lavoratore non rimane che chiedere il reintegro, ex articolo 18.
Dunque si ritorna al punto di partenza: le modifiche dell’articolo 18 valgono anche per il Pubblico Impiego.
Tutto questo, salvo intese. Ergo salvo deroghe espresso per il Pubblico Impiego.
Il ragionamento politico, che per noi ne discende, è che pur con le dovute differenze, la Riforma Fornero riguarda tutti, lavoratori pubblici e privati, perché non riteniamo di poterci difendere, né riteniamo giusto farlo, arrocandoci dietro difese corporative, che puntano sulle peculiarità del lavoro pubblico rispetto a quello privato.
In questi giorni la questione è stata già messa al centro del tavolo sul protocollo per il Pubblico Impiego. Le OO.SS., su questo tavolo inclinato, in via più o meno palese, si affretteranno (lo stanno già facendo) a chiedere che la riforma del mercato del lavoro non sia estesa tout court al pubblico impiego, o comunque a chiedere parziali deroghe. Fare questo significa perdere l’occasione per una vertenza che abbia un carattere di vera ricomposizione, per dimostrare come gli steccati tra pubblico e privato, tra garantiti e non garantiti, sia utilizzata in maniera surrettizia per dividere i movimenti di opposizione sociale. Significa cadere nel tranello del Governo che utilizza queste divisioni come armi di distrazione di massa. Significa ridurre tutto ad un mero tecnicismo per affrontare una questione che di tecnico ha assai poco.
Non cogliere questo dato significherebbe non capire cos’è in gioco in questo momento storico.
La situazione greca, come quella spagnola, ci parlano di crisi strutturali, dalle quali il capitalismo finanziario pretende di uscire con le politiche di austerity e la repressione dei diritti. Politiche che non accettano mediazioni.
In Italia le politiche di spending review, le ristrutturazioni pubbliche, così come la scomparsa delle province, non sono solo voci di risparmio per lo stato, ma manifestano la loro essenza nel processo di smantellamento e di privatizzazione dei servizi pubblici. Le procedure di espulsione di massa dal settore pubblico, che si concretizzino attraverso il blocco del turn over, oppure tramite le procedure di mobilità dei lavoratori pubblici, significano minori servizi resi alla collettività.
Questa cosa finiscono per subirla gli utenti dei diversi servizi, le persone più in difficoltà, quelli che non riescono a pagare i mutui e perdono la casa, quelli che si rivolgono agli enti previdenziali per la cassa integrazione, quelli che fruiscono dei servizi comunali e non possono permettersi quelli privati etc. etc. Il conto della crisi lo pagano ancora una volta quelli che non se lo possono permettere. In forza dei licenziamenti, nel pubblico, come nel privato, quest’esercito di poveri rischia di aumentare a dismisura.
Questa vertenza non ci parla solo dell’articolo 18, ci parla, in maniera trasversale, proprio di quale futuro, di quale mondo vogliamo per noi, per i nostri figli, per i nostri nipoti. Se vogliamo un mondo in cui ogni diritto è monetizzabile, financo la nostra esistenza, i nostri corpi, oppure se vogliamo un mondo in cui abbiamo dei diritti indisponibili e viviamo nella ricerca costante dell’estensione di questi a tutti.
Il mantra che ci hanno ripetuto in questi mesi, che serviva abbassare il livello di tutele per alcuni, per garantire chi tutele non ne aveva, in questa riforma si dimostra nient’altro che uno specchietto per le allodole.
La via d’uscita da questa crisi, secondo noi, si costruisce dentro il dinamismo dei movimenti, a partire da quello per la difesa dei beni comuni, dei precari che chiedono una garanzia di reddito, degli studenti che lottano per la difesa della formazione e della ricerca, dalla ValSusa e dai comitati per la difesa dell’ambiente, del mondo del lavoro che chiede diritti e dignità. Solo su questo terreno, si costruisce un’alternativa reale. Solo intercettando tutti questi segmenti, si da corpo all’idea di un altro mondo possibile.
È per questo che, come delegati RSU del Pubblico Impiego Padovano, rivolgiamo un appello a tutto il mondo del Pubblico Impiego, RSU, singoli lavoratori a sottoscrivere e diffondere questo appello, con il quale chiediamo la costituzione dal basso di comitati territoriali includenti (che comprendano lavoratori pubblici e privati, precari, studenti, disoccupati) per la mobilitazione contro la Riforma Fornero e per dire sì a rimettere al centro del dibattito diritti.
Facciamo, inoltre, la proposta a tutti, a partire dalla FIOM fino ai diversi Movimenti che si oppongono a questa Riforma, di organizzare un’assemblea cittadina, che affronti questi temi, superando dal basso le divisioni, surrettiziamente imposte dall’alto.